C’è qualcosa di meravigliosamente autentico in A Hat in Time. C’è una sorprendente maturità nella rappresentazione platformista che interviene in simbiosi tra dichiarato passato e rimarcabile modernità, in virtù di scenari predisposti alla divagazione armoniosa dell’hashtag #PS4Share che con un tasto ti piazza su Twitter la carineria di Hat Kid intenta a fare la linguaccia, a guardarsi intorno e a dare un calcio al mafioso di turno, con il nuovo cappello. Ed è un giusto passarsi di carinerie.
Gears for Breakfast non scade nella facile nostalgia dimenticando poi di metterci qualcosa di suo, come altri illustri colleghi hanno fatto. Non basta dire “siamo quelli della vecchia Rare, sganciate i soldi e vi facciamo tornare bambini” per creare un bel gioco, giusto per fare contenti i bambinoni; Yooka-Laylee lo si dimentica, Mighty no.9 è talmente brutto che va direttamente nell’indifferenziata, 7 milioni in due perché avevano il nome dietro. 296,360 dollari, si imprima invece tale cifra Kickstarter con la quale A Hat in Time adotta il metodo del platform adventure di fine novanta e lo eleva con perizia a forma d’arte iniettandosi di uno stile unico, prendendosi il suo tempo (ben 5 anni di sviluppo), e si può in effetti dire che le divergenze delle risorse in campo fanno assumere all’opera Gears for Breakfast un significato di rilievo, ai fini valutativi.
La scena inizia nella camera da letto di una ragazza, ma non una qualsiasi. Siamo infatti a bordo di un'astronave, non ci viene detto chi siamo, saremo conosciuti solo come Hat Kid, né quale sia il nostro scopo, ma tutto procede senza intoppi fino a quando nei pressi di Mafia World, un losco figuro non irrompe per chiedere il pizzo, rompendo la finestra e facendo volare fuori non solo la nostra protagonista, ma anche delle speciali clessidre utilizzate come carburante per l’astronave, ora sparpagliate nei pianeti vicini. Questi si scopre essere dei frammenti temporali e hanno lo straordinario potere di riavvolgere il tempo, ciò attira le attenzioni di Mustache Girl, una misteriosa ragazza con un cappuccio rosso e dei biondi baffi che metterà quindi il bastone tra le ruote nella nostra missione di recupero.
A Hat in Time attua una ramificazione del processo collezionabile, che si vincola a un level design tramite ambientazioni piene di roba staglianti a 360 gradi, inizialmente addirittura spaesanti, che stimolano all’esplorazione di ogni anfratto alla scoperta di una reliquia, di un gettone o anche solo di un divertente elemento di contorno, conferendovi varietà. Si parte con Mafia Town, raffigurante come una ridente cittadina di mare ovviamente in stile mediterraneo. Successivamente faremo visita ad un mondo conteso da due compagnie cinematografiche che si fanno la lotta a suon di awards, e saremo noi a decretare il vincitore impersonando la Star dei loro film. La Subcon Forest è invece luogo di oscure frequentazioni, in cui ci viene sottratta l’anima; qui A Hat in Time mostra il suo elemento orrorifico all’interno della Mansion dove ti devi nascondere, dove tutto si muove, oppure saltare sopra paludi della morte e perché no, diventare una Paper Girl consegnando lettere su uno scooter, non prima di aver combattuto contro una mostruosa latrina mobile.
Questo è A Hat in Time, che mira a stupire con l’inaspettato e il senso di scoperta; ogni mondo, che si divide in più atti confacenti un proprio obiettivo, nasconde sorprese e invenzioni conferendo al gioco una vivacità raramente riscontrabile altrove, specie in questa generazione di open world, spesso composti da chilometri di nulla. Il quarto mondo, Alpine Skyline, è l’apice in tal senso, con queste isole fluttuanti che si stagliano nel cielo a formare un macro-livello con zone laggiù, lontanissime, ti mettono pure il cannocchiale per vederle, per farti capire come raggiungerle. Ci si chiede se sia davvero un indie questo. Per coloro che pensano basti rievocare un giochino in 16-bit per fare un indie, A Hat in Time dimostra loro il contrario, e per chi pensa che là fuori il platform di classe lo sappia fare solo Nintendo e qualche britannico, dimostra di capirci poco.
Il gameplay si manifesta in forma di platform adventure di assoluta immediatezza, con cui si manovra la nostra protagonista con a disposizione salto con doppio salto a muro, scivolata (anche in aria, che diventa un utile dash in avanti per le distanze più consistenti) e attacco, con ombrello o colpo d’ignoranza dall’alto. I diversi cappelli donano degli utili poteri: quello standard a cilindro ha la facoltà di individuare la prossima Clessidra, ad esso se ne aggiungeranno degli altri che conferiscono ad Hat Kid l’abilità inizialmente semplici come correre più veloce, sparare una magia esplosiva o trasformarsi in un blocco di ghiaccio, fino a quelli più avanzati come aprire un varco verso un’altra dimensione per far apparire piattaforme invisibili, per arrivare al potere per rallentare il tempo.
Come da tradizione per il genere questi poteri, che troveremo gradualmente, permettono il raggiungimento di aree e interagire con oggetti precedentemente a noi preclusi, incentivando il ritorno ai livelli completati. I cappelli possono inoltre essere potenziati equipaggiando su di essi degli speciali adesivi, fino ad un massimo di tre, che aggiungono l'utilizzo di ulteriori gadget, come per esempio l’ombrello che si apre automaticamente quando si cade da un’importante altezza, uno scooter con cui sfrecciare tra i livelli, il rampino per agganciare oggetti o l’immancabile fotocamera che ci permette di ruotare la telecamera e scattare screenshots in una vera e propria photo mode, con tanto di diversi filtri.
Qualcuno ad un certo punto decise che i platform erano indirizzati ai bambini deficienti, ma non A Hat in Time, capace di offrire un grado di sfida ben oltre la soglia della ruffiana indulgenza, senza però risultare frustrante, raggiungendo così un equilibrio ammirevole. Gears for Breakfast dimostra di aver studiato le regole cardine di questo genere, ad un level design apparentemente anarchico risponde con una fisica dei salti intuitiva ma con piattaforme che tuttavia non perdonano distrazioni. I pochi nemici fra i piedi evitano di rendere tediose le fasi esplorative, mentre la protagonista muta e i pochi ma brillanti dialoghi di comprimari e nemici (vero Sonic Team?) completano la giusta lode. I livelli segreti, altra tradizione consolidata, sono rappresentati dai cosiddetti Time Rift, varchi temporali disseminati per le varie location da scovare tramite un indizio sotto forma di foto. Ciò arricchisce un allestimento di sfide forse non stellare, per longevità, ma senza dubbio collocabile nella giusta media del genere d’appartenenza, perché non è che ora tutti i platform devono avere seicento stelle da raccogliere e durare 90 ore, che “tengo lavoro e famiglia” direbbe pure qualcuno.
Al netto di una conta di poligoni non eccezionale, specie sui personaggi secondari, è lo stile e l’ostentazione al dettaglio a realizzare le miglior virtù estetiche di A Hat in Time, che instrada una classica rappresentazione cartoon con bellissimo sperpero di espressioni e animazioni. Il personaggio interagisce con elementi e ambienti circostanti con reazioni di tenera naturalezza, e il gioco trasmette così buon’umore in ogni inquadratura, in ogni illustrazione, in ogni citazione con una perfetta alchimia tra immagini e suoni. Questi si compongono di una soundtrack gradevole in ogni circostanza, dai toni mediterranei di Mafia Town a quelli horror della Subcon Forest, mentre i collezionabili comuni producono un suono crescente rimembrando quelli del classico Rayman. I dialoghi presentano un doppiaggio in sola lingua inglese, così come testi e sottotitoli.
Versione testata PlayStation 4.
Pro
- Platform 3D curato sotto tutti gli aspetti
- È carinissimo da qualunque parte lo si guardi
- Giusta dose di varietà di situazioni e collezionabili
La penso abbastanza differente su questa tipologia di game, ma per il fatto che intrattengono fino ad un certo punto.
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