Open world e linearità narrativa, l'ossimoro del gioco di ruolo nipponico
Può un videogioco essere enormemente dispersivo, e al contempo raccontare una storia memorabile?
di TWINKLE
I jrpg (giochi di ruolo giapponesi) sono solitamente dei giochi dallo scarsissimo game design; al contrario di altri generi più “puri” come sparatutto o platform, essi non offrono un livello di sfida che non sia la semplice ripetizione, se un boss è troppo forte per il nostro livello è sufficiente battere decine di volte come un idiota gli stessi mostri minori per poi distruggerlo. L’unica cosa che ti chiedono i jrpg, è il tempo da impiegare, non la bravura.
Consci di ciò, sul finire degli anni ottanta i game designer giapponesi decisero di dotare i loro giochi di ruolo di intrecci narrativi e di epiche storie che giustificassero decine di ore di noiosissimo grinding, e che li distinguessero in tal modo dai tipici dungeon crawler di origine occidentale. Nascono quindi, appena un anno dopo l’avvento del seminale Dragon Quest di Enix, saghe come Phantasy Star e Digital Devil Story: Megami Tensei, giochi di ruolo che provarono, tramite più elaborati script, ad andare oltre il prode cavaliere che sconfigge il drago, ispirandosi all’allora pulsante e variegato mercato degli Original Anime Video.
Da allora, chi più e chi meno, i jrpg hanno intrapreso questa strada, rendendoci protagonisti di fantasie e storie sempre più avvincenti: se da una parte, con i giochi di ruolo occidentali figli di D&D, si è andata cercando l’immersione, dal versante nipponico lo sforzo si è profuso sulla ricerca dell’evasione e dell'immedesimazione. Final Fantasy è diventato Final Fantasy con il quarto capitolo, dove per la prima volta assistiamo alla lotta interiore del protagonista, tra cavaliere oscuro e paladino, oscurità e luce. Dragon Quest V (1992) ci metteva nei panni di un eroe sin dalla sua tenera età, facendoci vivere la sua epopea fino all’età adulta con tanto di prole. Megami Tensei, divenuto nel frattempo Shin, creava un miscuglio apocalittico di lotte fra Demoni e Divinità, tra rimembranze di Go Nagai, temi religiosi ed esoterici, cose che fanno andare in brodo di giuggiole gli otaku ’90 tipo Shin Seiki Evangelion, da lì al monumentale Xenogears (1998).
Le tre più importanti saghe di jrpg si sono così espresse ed imposte, già 25 anni fa, dettando le regole del genere dall’alto dei loro successi, e le altre non hanno potuto far altro che seguirne la dottrina, certo impigliandosi in determinati cliché, ma per anni in pochi si sono lamentati della cosa, anche perché in raffronto il fantasy occidentale ha stereotipi che perdurano da molto più tempo.
La cura narrativa riposta nei jrpg richiede però un prezzo, rispetto ai giochi di ruolo occidentali: una marcata linearità. Una storia, per coinvolgere, non può essere infarcita di distrazioni, di backtracking, di fetch quest, che vanno bene se impersoniamo un taciturno avatar creato da noi stessi ma che forse, alla luce di alcuni risultati recenti, poco si sposano con un gioco che si prefissa lo scopo di raccontarci storie più ambiziose, quelle che dovrebbero andare oltre il semplice “formiamo un party e facciamo le missioni” di un mmorpg. Un gioco che vuole innanzitutto raccontarci una storia, ha bisogno di una guida, nascosta o meno, ha bisogno del suo metaforico Auron che ci dica “andiamo avanti”. Un gioco lineare non vuol dire per forza banale, come la storia insegna, e un gioco enorme non si traduce automaticamente in un gioco profondo.
Rileggendo quindi la descrizione degli “open world” e poi di seguito la ricostruzione storica dei jrpg e di ciò che li rende caratteristici, possono i due aspetti coesistere, oppure appare inevitabilmente come un matrimonio forzato?
Inutile girarci ancora intorno, Final Fantasy XV è il principale motivo di questa riflessione, anche se già Metal Gear Solid V mi aveva fatto suonare qualche campanello d’allarme in merito, ossia una saga che ha fatto della narrazione guidata/cinematografica il suo punto cardine, che decide di sposare l’open world, con il risultato di uscire tanto bello e variegato come gioco quanto annacquato e poco incisivo sul fronte storia, rispetto ai precedenti. Tralasciando tutte le sue problematiche di sviluppo. Sviluppo travagliato che, guarda caso, ha attanagliato anche l’ultimo, mastodontico Final Fantasy, che se possibile riesce a fare persino peggio. Ma attenzione, questo non è un articolo (del tutto spoiler-free) contro Final Fantasy XV, che merita assolutamente di essere giocato, bensì contro il modo in cui è stato creato, o sarebbe meglio dire il modo in cui sono stati spinti a crearlo, e non mi addentrerò su grafiche e combat system vari, per quello c’è già un'ottima recensione.
Come ormai noto ai più, Final Fantasy XV si divide in due parti ben distinte, sembra addirittura avere due anime, quella prima e quella dopo l’arrivo ad Altissa. La prima, open world, enorme, piena di subquest, narrazione ridotta all’osso, dall’atmosfera rilassante e positiva (forse anche troppo, in contrapposizione con Kingsglaive che ci sembrava descrivere il mondo al di fuori dalla barriera di Insomnia come quello di Ken il Guerriero), e la seconda, lineare, schizofrenica, confusa, cupa, che sembra volerci dire “ti sei divertito a pescare? Stavamo scherzando”.
Ora, ho letto di persone (e recensioni) che hanno esaltato la prima parte e stroncato la seconda, e questo ben dovrebbe far capire la causa per cui FFXV sia uscito palesemente incompleto, se non addirittura stravolto. Square Enix si è presa carico di creare un open world in un videogioco assolutamente non concepito per un open world, il risultato sono questi 8 capitoli dalla trama praticamente inesistente, infarcita di quest di inventiva e varietà deprimente (alzi la mano chi non ha mandato a quel paese la tipa delle rane o quello delle targhette, alla quarta richiesta), ambientato in un mondo sì vasto e splendidamente realizzato, ma a conti fatti vuoto e fine a se stesso, per quello che chiede la trama portante, ovvero ciò che ai fan di Final Fantasy interessa davvero e ciò per cui hanno atteso tanti anni.
Guardando i trailer di Versus XIII e del XV poi, i fan erano innanzitutto incuriositi da Noctis, dai suoi misteriosi poteri, dal mondo così cupo e moderno, per questo i primi 8 capitoli di FFXV sono un tradimento a ciò che esso stesso doveva essere, non perché mette in secondo piano la storia per concentrarsi su altri aspetti (non sarebbe il primo, vedi FFXII) ma perché smantella la sua visione originale, preferendo ruffianare determinati (o presunti) tipi di giocatori con il superfluo e asservendosi ad una cultura di game design lontana da quella giapponese. E quando questo succede, di solito, raramente viene fuori una produzione coesa e riuscita pienamente.
"Ti vendicherò padre e mi riprenderò il trono, ma prima devo catturare queste rane"
Se in giochi come Skyrim lo scopo è scoprire pian piano un mondo non attraverso le cut-scene ma tramite le nostre azioni, in FFXV l’esplorazione si dimostra del tutto inutile alla sua comprensione, se non per aumentare il nostro livello e le nostre skills. E qui si torna curiosamente al discoro iniziale, su cosa ha reso i jrpg.. jrpg, in tal senso, FFXV rischia di non essere né un wrpg, né un jrpg, letto così sembra un disatro totale. E invece no.
Giocando alla seconda parte appare tutto più chiaro (si fa per dire), i capitoli successivi all’ottavo rappresentano il vero cuore pulsante di FFXV e ciò che sarebbe dovuto essere, se solo non fosse deturpato da tagli e omissioni varie. Insomnia, Tenebrae, Gralea, la rete è sommersa di rumor che dichiarano come questi luoghi fossero previsti interamente esplorabili, comprovati da alcuni glitch, ma che alla fine, con la data di scadenza alle porte, tutto si è ridotto in un viaggio su binari, nel vero senso del termine. Senza contare i tagli alla storia e a quei personaggi importanti come Cor, Verstael Besithia o la stessa Lunafreya che necessitavano e meritavano maggior spazio, a cui tenteranno di porre rimedio con dei DLC, che però possono mettere delle toppe fino ad un certo punto. E cresce il rammarico per un capolavoro mancato.
Un carismatico e manipolatore villain che vale 10 mammoni armati di Masamune
La domanda quindi sorge spontanea: ma ne valeva la pena? Ne è valsa la pena rinunciare a cotanto potenziale non sfruttato (la “lore” dietro a FFXV, che sta uscendo fuori dal libro “Ultimania” uscito in Giappone, è enorme e ricca di fascino) in cambio di quella sconfinata regione di Duscae, in cambio di quei panorami e di quella presunta libertà tanto voluta dai giocatori? Ma siamo poi così sicuri che i fan volevano questo open world a tutti i costi, che ha di fatto tolto risorse e rovinato la seconda parte, oppure quella di Square Enix è stata solo una reazione, una alzata di scudi, ai criticati corridoi di Final Fantasy XIII?
FFXV vende bene, ma al di là dei suoi proclami rivoluzionari non sembra attirare nuova utenza oltre quella storica
La libertà in un videogioco è sempre un costrutto fittizio, un’illusione, può cambiare la metratura di manovra, ma il giocatore avrà sempre un raggio di azione delimitato e regolato dalle sue regole (altrimenti non sarebbe un videogioco), sta allo sviluppatore rendere quel raggio di azione il più possibile interessante o stimolante. La sensazione di libertà può essere quindi un fattore prettamente soggettivo oppure plasmata dall’abilità del game designer; i vecchi Final Fantasy erano guidati ma davano comunque la percezione di far parte di un mondo vivo e pulsante, grazie anche ad una spartana world map certo, ma alla fine è il risultato ciò che conta veramente, più che il mezzo.
Il sorprendente Dragon Quest VIII, uscito recentemente in versione 3DS, aveva già un mondo non stilizzato interamente esplorabile, mentre nel successivo Ni No Kuni gli stessi Level-5 hanno scelto un approccio più tradizionalista nella raffigurazione del mondo di gioco, a causa della sua origine portatile.
Final Fantasy sembra invece incapace di (ri)trovare una via di mezzo che possa accontentare sia gli amanti della narrazione senza dilungamenti, sia quelli della più genuina esplorazione tipica degli RPG, a partire da Final Fantasy X con la sua linearità non più mascherata come in passato, bensì esternata dalla storia (il pellegrinaggio, i templi) e dalla conformazione geografica stessa di Spira, che non concede bivi.
Linearità che raggiunge l’estremizzazione in FFXIII in cui i fan ne avvertono maggiormente la chiusura, a causa di un mondo solo sfiorato superficialmente dalle loro azioni e dalle vicende dei protagonisti, al contrario di quanto avveniva con Spira. Salvare un mondo di cui non abbiamo potuto visitare una singola città o parlare con un negoziante dai prezzi folli, ha lasciato solo sconsolazione tra i fan, a cui Square Enix ha tentato di porre rimedio in maniera goffa ed informe nei due sequel, ma il danno era fatto e la linearità diventava sempre di più l'olio di palma dei giochi di ruolo, un qualcosa da estirpare.
Niente "open world" ma c'era comunque con cui dilettarsi tra una battaglia e l'altra
In definitiva, i giapponesi non sono portati per l’open world? Con FFXVI si deve tornare alle autostrade di FFXIII? Assolutamente no, ricordando innanzitutto che l’hanno inventato loro, prima con The Legend of Zelda (A Link to the Past in particolare), poi con Shenmue, il padre dei free-roaming di moderna concezione. Il villaggio di Shenmue o l’ormai celebre quartiere di Kamuro-cho di Yakuza, per rimanere in casa SEGA e su una serie che di certo non rinuncia alla qualità della narrazione, possono essere più vivi, stimolanti e reali di un’enorme regione interamente esplorabile, e se non si hanno le risorse per competere con i colossi occidentali si può allora attingere alla creatività (Gravity Rush).
Forse più che non esserne capaci, i giochi giapponesi non hanno bisogno dell’open world, o almeno non come lo intendono i developer occidentali.
Quindi cara Square Enix, se dobbiamo barattare gite in auto, escursioni su sgargianti colline, subquest ridicole e una porno-benzinaia in cambio della limitazione alla massima espressione di uno dei potenziali migliori e più cupi Final Fantasy di sempre, allora i posteri rievocheranno i giorni in cui hai anteposto la soggiogazione verso una moda, alla ricerca di una Fantasia autoriale, forte e imperitura.