Shadow of the Colossus - Recensione del Remake
di TWINKLE
Con la sola compagnia del suo destriero Agro, Wander ha viaggiato a lungo per raggiungere questo luogo proibito, dove si chiede se la sua leggenda dica il vero. Dopo aver deposto il freddo corpo di una ragazza sull’altare, una voce cala dall’alto, che gli narra di enormi creature che vivono queste terre, creature che trasmettono a coloro che le uccidono il potere di mutare la morte in vita, di riportare chi non c’è più. Ma a quale prezzo?
“Pensi che io sia un mostro, ma non sei diverso da me, Drake! Quanti uomini hai ammazzato, eh? Quanti ne hai ammazzati solo oggi?” Zoran Lazarević, Uncharted 2: Among Thieves (2009).
In gergo si definisce Dissonanza Ludonarrativa, termine che circola da una decina di anni, per l’esattezza da un importante articolo su Bioshock (2007) scritto da Clint Hocking sul suo blog. La dissonanza ludonarrativa è quella frequente discrepanza tra la descrizione del nostro protagonista (nel caso di Nathan Drake un simpaticone dalla battutina facile a cui crollano i tetti sotto i piedi) e le azioni che il gioco ci impone di fare (di fatto una marea di uccisioni), facendoci credere di essere comunque “nel giusto”. Naughty Dog, con quella frase, fa crollare il castello poligonale di convinzioni diligentemente costruito nei due capitoli della serie, e il muro della sospensione dell’incredibilità inizia così a sgretolarsi. Inizi a pensare, statistiche alla mano, di aver probabilmente ammazzato molte più persone tu di Zoran Lazarević, e il tutto non per sradicare una dittatura o salvare una donna, ma per trovare un dannato tesoro; le necessità di gameplay in questo caso travalicano sul comparto narrativo, creando appunto tale dissonanza.
La “ramanzina del nemico” non l’ha certo introdotta Uncharted 2, ma è comunque raro trovarla in un videogame d’azione e che pone il giocatore ad un inaspettato esame di coscienza, incrinando la sospensione dell’incredulità fino ad allora mantenuta da una superficialità di legame tra narrativa e dimensione ludica.
Riflessione come detto non nuova, ma se è tornata di mente è per l'accendersi di una riflessione retrospettiva stimolata da un remake: Shadow of the Colossus (Wanda to Kyozou, 2005) precede Bioshock, Uncharted 2, e Nier, dunque quanto e come si è evoluto in tal senso il medium in questi dieci anni? I colossi sono ancora attuali?
Se il metodo “ramanzina” di Naughty Dog è comunque nel suo contesto frettoloso e poco incisivo, in Bioshock e Nier il giocatore, nel corso dell’avventura, viene messo di fronte ad una morale decaduta, servendosi di un disegno d’inganni gli sviluppatori trovano un’ interconnessione nel tessuto ludico/narrativo. Attraverso la meccanica -ludica- di salvare o prosciugare le Sorelline, Bioshock ci pone una scelta -narrativa- tra umanità e desiderio di potere, salvo poi scoprire di essere stati manipolati tutto il tempo da Andrew Ryan e il suo “Would you kindly?”, rivelando il nostro personaggio per ciò che è veramente, ossia nulla più che un avatar, sul doppio piano del giocato e del raccontato.
Ed è interessante notare come la frase di Ryan “Lo schiavo obbedisce, l’uomo sceglie” possa calzare su Shadow of the Colossus, anche in questo caso non siamo che schiavi nelle mani del Dormin, che inganna un Wander acciecato non certo di amore, quanto dall’ossessione della morte.
Fumito Ueda inscena una presentazione giocando sullo stereotipo Zeldiano inculcato nel giocatore nel corso di oltre vent’anni, utilizzandone i medesimi elementi: l’eroe, un cavallo, una spada magica, una bella da salvare. Paradossalmente, risulta più probabile che un non-giocatore, in quanto privo di preconcetti e logiche radicate, possa sviluppare una sensazione di disagio: ma sto sbagliando? I Colossi sono davvero vittime innocenti, i sigilli del Dormin? Sono io la minaccia per uno scopo egoistico? Shadow of the Colossus, nonostante si mostri sotto una apparente veste aperta di “free-roaming”, incatena il giocatore con l'estremizzazione della costante "vai dal punto A al punto B", richiamando l'attenzione sul modo in cui un’ossessione possa deviare intrinsecamente la propria percezione di moralità, creando un nemico dal nulla e facendoci credere di essere nel giusto, deresponsabilizzandoci così dalle nostre azioni per un fine ultimo superiore (in questo caso l'illusoria sconfitta della morte), come troppo spesso avviene nel mondo reale.
Shadow of the Colossus non ha fretta di rivelarci la sua natura, preferendo accompagnarci gradualmente verso il finale, ma che qualcosa sia inusuale nel nostro cammino lo avvertiamo ben presto, a partire da quel sangue nero che ci colpisce, così violentemente, entrando dentro di noi all’abbattimento di ogni colosso. Se con i primi di essi, magari, tendiamo a celebrare la nostra vittoria come facciamo di consueto alla sconfitta di un boss di fine livello, con l’avanzare della nostra missione-rituale quel sentimento di trionfalismo viene meno, lasciando gradualmente il posto a sensazioni molto più negative. Da rimarcare come in tal senso la stessa maestosa soundtrack assuma un ruolo integrante dell’esperienza, con brani solenni e pomposi per i primi colossi, Opened Way, Revived Power, In Awe of the Power, “wow, pare God of War”, e di contro sorprendentemente triste e malinconico quello dedicato all’ultimo atto; niente epicità tipica da boss finale, ma una struggente Demise of the Ritual, c’è suono di morte. Tuttavia Fumito Ueda non induce al nichilismo, non è Yoko Taro, e conclude sempre le sue fiabe con un messaggio di speranza e di rinascita.
Trattare di un’opera come Shadow of the Colossus, a così tanti anni di distanza, risulta quindi più semplice (per quanto impegnativo dal punto di vista emozionale), ne cogli meglio la visione, gli effetti che ha avuto sul mercato, le influenze su altri videogiochi. Non che all’epoca non avessimo capito di trovarci dinnanzi a qualcosa di epocale, ad una miracolosa PS2 che al suo ultimo atto faceva da tramite alla generazione in divenire, anche tecnicamente, ma non c’è miglior giudizio della Storia, e se di capolavoro si parla, tale lo rimane, il tempo non fa che avvalorarne il valore.
A mancare nel 2018 è semmai quel senso di scoperta, di ignoto, a cui Fumito Ueda ha evidentemente sempre puntato; Shadow of the Colossus esce sul finire del 2005, anno di nascita di Youtube, coincidenza a dir poco curiosa. Piace pertanto ricordarlo anche come ultimo testimone di un videogiocare solitario, senza i walkthrough già pronti al giorno uno, senza i guru che ti spiegano la lore passo per passo, senza anteprime fiume e senza confronti fra questa e quell’altra versione. Solo tu, la console e il gioco, null’altro. Ma questi sono i tempi
Permettendo un'autocitazione, l’analisi di The Last Guardian, si apriva con un “Fumito Ueda ha sempre seguito la sua filosofia della “programmazione per sottrazione”, epurando tutti quegli elementi che reputa superflui alla sua visione e a ciò che vuole raccontare”, ebbene ritroviamo oggi in Shadow of the Colossus un apogeo di tale concetto. Il suo minimalismo e la sua asettica estraneità, che non mira a riprodurre il reale in alcun modo e in alcuna forma, rende paradossalmente il mondo di Shadow of the Colossus incredibilmente autentico.
"La realtà emotiva non è uguale alla realtà fotorealistica", dice Ueda alla Game Developers Conference del 2002, "Il nostro obiettivo è l’immersione, una realtà che avverti dentro i tuoi sogni. Più elementi ci sono in un gioco, più è difficile mantenerla”.
Non deve essere stata quindi facile l’opera di restauro da parte di Bluepoint Games, non trattandosi questa volta di un ordinario lavoro di masterizzazione, ma bensì di una vera e propria ricostruzione. Fino a che punto è possibile modificare o aggiungere elementi dello scenario di un videogioco così importante, senza stravolgerne l’atmosfera originaria e la classe di Japan Studio, deve essere stato il pensiero cardine per lo sviluppo di questo inaspettato remake.
Non vi saranno dilungamenti su comparazioni e analisi tecniche, campo sui cui altri sono decisamente più portati e attrezzati del sottoscritto, che solitamente sposa una considerazione più intimista e viscerale, ma si può dire con tutta tranquillità che i Bluepoint hanno anche stavolta fatto centro, e anzi si sono superati. Il nuovo aspetto grafico non passa certo inosservato, dalla vegetazione ai riflessi sull’acqua, passando per i nuovi effetti di luce volumetrici, che trovano ulteriore splendore con l’ausilio del’high dynamic range. Le animazioni, totalmente riviste, e i controlli decisamente più reattivi rendono il gioco molto più piacevole da giocare, eppure si ha comunque la sensazione di giocare allo stesso Shadow of the Colossus del 2005, ed è questa la cosa sorprendente, decretando definitivamente il lavoro di assoluto rispetto effettuato da Bluepoint. Tuttavia operazioni di questo tipo sollevano sempre una riflessione su quanto i videogiochi siano soggetti ad invecchiamento rispetto ad altre forme di espressione. O almeno questo è quello che vorrebbe farci credere Sony, che sulla riscoperta e la preservazione del suo passato deve ancora raggiungere una chiara sintonia di intenti, ma con cui dovrà ben presto, almeno al prossimo step generazionale (considerato come si sta muovendo la concorrenza tra retrocompatibilità e servizi di abbonamenti in stile Netflix) fare i conti.
La Photo Mode è un’ovvia e preziosa aggiunta, quasi un tratto distintivo negli ultimi anni in special modo dei titoli di punta Sony, da Uncharted 4 a Gran Turismo Sport, passando ovviamente per Horizon: Zero Dawn. Un connubio, conoscendo la storia del marchio giapponese, che appare naturale e che trova oggi una nuova dimensione, in quest’epoca di rapide condivisioni, anche se permane il rischio che questa completissima feature paradossalmente distacchi l’occhio del giocatore dalla magia del momento, il quale spezza l'azione e sfila i panni di Wander per indossare quelli di un novello Franco Fontana alla vocina “questa sarebbe una foto favolosa con il filtro pellicola o in b/n” ad ogni panorama o situazione. Da non abusare in caso di primo viaggio.