Atelier Ryza 3: Alchemist of the End & the Secret Key - Recensione
La fine di un viaggio
di TWINKLE
Salvo qualche eccezione (i Gramnad su PS2 e i Mana Khemia, esauriti in due soli capitoli) la longeva serie Atelier ha sempre operato per trilogie, di conseguenza ritrovarsi con un terzo e conclusivo atto per Ryza, dopo la gradita parentesi dedicata a Sophie 2 lo scorso anno, non si può certo definire una sorpresa. Non che Lost Legends & the Secret Fairy avesse lasciato chissà quali questioni in sospeso, tutt’altro, quelle di Reisalin sono storie compiute e godibili a sé stanti, legate tuttavia dal filo conduttore di un’eroina, la prima protagonista assoluta di ben tre giochi, che vede il suo percorso di crescita andare oltre quanto visto in precedenza, giacché qui impersoniamo un’alchimista che ha davvero raggiunto l’età adulta (essendo passati sei anni dal primo episodio), pur considerando il concetto, diciamo così un po’ personale, che ha Gust del passare del tempo.
Se un autore cinematografico lo si riconosce dal fare sempre lo stesso film è ormai indubbio constatare l’impronta autoriale di Gust, il cui Atelier Ryza 3: Alchemist of the End & the Secret Key (PS4, PS5, Switch, PC) non è che l’ennesima rappresentazione di un progressivo percorso formativo, personale e professionale, sottoforma di RPG. Ciò che è cambiato in ormai venticinque anni, oltre alla già accennata età dei protagonisti, sono la dimensione produttiva, pericolosamente cresciuta negli ultimi anni (forse oltre le facoltà dello studio e la sua rigida cadenza di uscite), e quella stilistica, che di converso è divenuta sempre più generica, virando discutibilmente l’attenzione su altri aspetti, come le generose curve della protagonista, che l’hanno contribuita indubbiamente a renderla più virale e vendibile sul mercato delle figure, di altre sue colleghe.
Al netto di alcune mancanze di rifiniture, si notano in questo capitolo evidenti passi in avanti sul lato tecnico, come negli effetti e sulle espressioni dei personaggi principali, mentre la maggiore ampiezza del mondo di gioco contribuisce a rendere l'esplorazione e la scoperta di nuovi luoghi più interessante, anche se non altrettanto varia dal punto di vista scenografico, rispetto ai precedenti; Atelier Sophie 2 conteneva efficacemente la dimensione dei luoghi rendendoli al contempo interessanti da esplorare anche nelle visite successive alla prima, grazie allo strumento delle Dreamscape Stone, che variavano il meteo e con esso l’ambiente (e la fauna) circostante. In questo nuovo Atelier abbiamo invece l’innovativo sistema delle chiavi, ad ogni “Landscape”, ossia un luogo di interesse sulla mappa, Ryza sarà in grado di creare una di queste chiavi speciali, le quali possono avere il duplice scopo di aprire luoghi sbarrati oppure essere impiegate nelle battaglie in cui, a determinate condizioni, possiamo estrarre l'energia dei mostri per creare ed evocare una chiave in grado di conferire un potenziamento per un periodo limitato. Questa nuova meccanica di gioco non è particolarmente intuitiva, il tutorial ci spiega le basi del suo utilizzo ma passeranno molte ore prima di capire effettivamente come funzionano queste benedette chiavi, in quale occasione utilizzarle e quando crearne di nuove, ma la loro varietà e il diverso impiego incoraggiano comunque a sperimentare ed è l’aspetto sicuramente più profondo di Atelier Ryza 3, in grado per buona parte di sopperire al resto.
Rispetto alle fiabesche ambientazioni di Arland o alle crepuscolari atmosfere di Dusk, il mondo di Ryza 3 risulta, al netto di qualche panorama evocativo e di piacevoli cavalcate sui delfini, decisamente più generico e alla lunga non proprio tra i più esaltanti da scoprire, complice un sistema di mappatura inspiegabilmente astruso (e non sarà l’unico) e una varietà di mostri al solito fin troppo modesta, un difetto che la serie si trascina praticamente da sempre ma emersa in quest’ultima trilogia in modo più evidente, vista l’ambizione realizzativa settata verso l’alto per gli standard Gust.
La premessa abbastanza deboluccia di questo terzo capitolo (“nuove isole sono spuntate, andiamo a vedere!”), pur non distanziandosi troppo dai canoni della serie, tradisce quella che è una trilogia sotto molti punti di vista improvvisata, scaturita principalmente dal successo inaspettato del gioco del 2019; a riprova di ciò i personaggi passano le prime ore a rimembrare quella prima avventura, ripercorrendone i luoghi e riflettendo sul loro percorso, peccando forse per eccesso di autoreferenzialità, essendo arduo provare nostalgia per un cammino intrapreso pochi anni fa, se non addirittura meno in caso di acquisto tardivo, rispetto ad esempio a Lulua (2019), il quale ci faceva tornare ad Arland ad una generazione di distanza da Rorona (2009). A parte questo, Ryza e soci riescono comunque a reggere la scena in questa vera e propria reunion di personaggi, che epura quelli il cui percorso risulta già compiuto (Serri Glaus, Clifford Diswell), senza dimenticarsi di aggiungerne di inediti per arrivare ad un totale di undici, ed è un incontro tra collaudato e nuovo che effettivamente funziona, nel suo proposito di mantenere fresca l’epopea di Ryza, rispecchiando un po’ la filosofia generale del sequel in esame, con un aumento di intensità nella seconda parte dell’avventura. Alla fine Ryza 3 il suo compito di dare una degna chiusura lo porta a casa, ma l’impressione che Gust avrebbe potuto dare un tocco più maturo alla vicenda, in virtù dell’età dei protagonisti, rimane.
Come abbastanza noto, la serie Gust fin dal 1997 si è caratterizzata da una commistione tra gioco di ruolo e un pizzico di manageriale, rivelatosi fin da subito una delle componenti più amate dal suo ristretto ma fedele pubblico, pur con i dovuti distinguo e sperimentalismi (Iris, Mana Khemia, Nelke). La trilogia Dusk rappresenta un capolavoro in tal senso, ma per capire di cosa si parla basterebbe aver giocato il più recente Sophie 2, in cui il level cap dell’esperienza, fissato a 50, è ponderato per spronare il giocatore ad imboccarsi le maniche al calderone e creare le armi e gli oggetti più potenti, prerogativa necessaria per avere la meglio sul boss finale. Tuttavia con il primo Atelier Ryza (2019), una componente più avventurosa, verrebbe da dire omologata, si innesta sugli stilemi narrativi ma anche strutturali tipici della serie alchemica; Gust riprende alcune caratteristiche tipiche dei giochi di ruolo mainstream, guardando alle tendenze, in primis proponendo un battle system totalmente rinnovato, molto più dinamico rispetto ai classici turni, uno strano button mashing misto con un sistema ATB (Active Time Battle), in cui si utilizza un solo personaggio alla volta, con gli altri due manovrati dalla CPU, sulla pratica funzionale ma con margini di miglioramento, compito spettante ad Atelier Ryza 2, che ne ha rifinito la formula.
Tutto ciò per intercettare un pubblico molto più generalista e meno avvezzo alla serie, che dunque richiede di smorzare i fattori di time management (ormai scomparsi) e alchemici (siamo al punto in cui non è contemplato un fallimento nel processo di sintesi), scelta comprensibile nonché ripagata da vendite maggiori, anche se non abbastanza da giustificare una traduzione in italiano, e sono gradite tutte quelle velocizzazioni (come raccogliere i materiali in corsa e gli animali da cavalcare) che il developer sta via via proponendo. Di contro però è anche venuto meno quel pacato ma deciso senso di gratificazione che trasmettevano i vecchi Atelier quando raggiungevi un certo grado di conoscenza, essendo qui tutto più standardizzato, come le nuove ricette che si apprendono non con le azioni o le scoperte della protagonista, bensì con un banale albero delle abilità. So bene che accontentare tutti per Junzo Hosoi e compagni da ora sarà meno facile (presumibilmente verrà scelta la via dell'alternanza, come dimostra il prossimo Atelier Marie Remake), ma è il prezzo di 25 anni di storia, e alla luce di ciò, dopo 17 anni dal primo Iris e 18 (!) Atelier sul groppone, di cui sette recensiti, non riesco proprio, con il rischio di essere tacciato per tradizionalista o nostalgico, a dimostrare entusiasmo per il percorso di conformismo, misto ad una certa improvvisazione, intrapreso da Gust con questa trilogia, trovando maggior sostegno per la sua conclusione, questa sì, gradita senza riserve.