Recensione
Summer Wars
8.0/10
«Bigger. Better. Darker». Questi tre termini si potrebbero applicare al Summer Wars di Mamoru Hosoda, il quale ingigantisce, migliora e per certi versi incupisce molto di ciò che si era visto nel suo precedente "La ragazza che saltava nel tempo". Eppure Summer Wars[/]> non ricalca né gli schemi né i temi del film che l’ha preceduto, ma ne mantiene l’estetica e lo stile per raccontare qualcosa di molto diverso e di molto, molto più articolato, ampio e spettacolare. E se già dai primi minuti dell’opera ci si può rendere infatti conto di quale sia la portata, quanto meno visiva, del lungometraggio, andando sempre più avanti ci si accorge di quale sia la voglia del film di meravigliare con la sua ricchezza d’immagini e contenutistica. Difatti se "La ragazza che saltava nel tempo" è un’opera più intima e concentrata nel suo nocciolo costituito soprattutto dalla protagonista, e poi dai suoi due compagni, Summer Wars invece sembra compiacersi della propria abbondanza, fatta di una quantità esorbitante di personaggi, spesso presenti contemporaneamente in scena, di uno spettro non indifferente di tematiche e di un numero ancora maggiore di elementi e dettagli visuali.
Quello che però rimane inalterato è la freschezza della storia estiva, per certi versi classica, che funge da pista di decollo per le azioni del lungometraggio. Così il più consueto dei “fraintendimenti” dà il la alla reazione a catena che coinvolge i due mondi, quello reale e quello virtuale di Oz, visto che dall’invito a fingere di essere il suo ragazzo, rivolto dalla desideratissima estroversa e frizzante Natsuki all’impacciato genio della matematica Kenji, tutto il globo verrà stravolto. Però il tono dell’anime non diviene mai drammatico, e l’enfasi data dalla sua arsi è sempre connotata da più di una spruzzata di demenzialità che, essendo una costante in tutto il film, in ogni caso non stempera la tensione. Tensione che anzi raggiunge ottime vette grazie al ritmo ben calibrato dell’opera, la quale si prende una buona fetta della sua parte iniziale per presentare la numerosissima famiglia di Natsuki, i Jinnouchi, cui Kenji verrà introdotto nelle vesti di futuro marito, e poi sale di giri e inizia a incalzare con sviluppi e colpi di scena a raffica, seppure questi a volte paiono un po’ eccessivi o forzati. Sì, perché il numero di “coincidenze” e casualità che tornano utili è eccessivo, o almeno la ripetizione di tali artifici narrativi alla lunga mina in piccola parte – cioè solo se ci si presta attenzione – la “credibilità” della trama.
Invece ciò che non pecca di credibilità, e anzi rappresenta uno dei punti di più grande forza di Summer Wars, è il cast di personaggi, i quali sono tutti studiati in modo diversificato e attento. Ognuno di loro ha un proprio carattere e dei propri tratti distintivi, e a ciò si somma la carica vitale di ciascuno. Perché ogni membro della pazza famiglia di Natsuki è ben lontano dall’essere una semplice sagoma di contorno e ha invece un ruolo, e soprattutto una presenza, peculiare nell’economia del lungometraggio. Ovviamente ci saranno membri che spiccheranno più di altri, tuttavia in generale nessuna figura sembra superflua e tutte hanno invece qualcosa da dire e una parte da recitare. In particolare risaltano, per il loro carisma, la “matriarca” della famiglia Jinnouchi, nonna Sakae, e il giovane e all’apparenza cupo Kazuma, i quali spesso rubano la scena non solo a tutti gli altri, ma persino al protagonista Kenji, anche se Summer Wars rimane in ogni caso un’opera corale.
Risulta naturale pensare che ciò non sarebbe stato possibile senza il character design di Yoshiyuki Sadamoto. L’espressività e la brillantezza dei suoi disegni e il tocco vivificante che lui riesce a conferirvi restano una singolarità – o una delle poche – nel panorama dell’animazione nipponica.
In aggiunta, tutto il comparto tecnico di Summer Wars funziona splendidamente. Tanto per cominciare, le animazioni, anche se lontane dalla perfezione, o comunque dalle vette quasi inavvicinabili di alcuni capolavori ("Innocence" di Oshii, tanto per dirne uno), sono in ogni caso più che godibili e, se in alcuni frangenti perdono qualcosa in fluidità, mantengono sempre la naturalezza e l’agilità dei movimenti. Nello specifico la loro dinamicità a tratti rasenta la frenesia, e uno dei meriti più grandi dei direttori dell’animazione è stato proprio il non fare degenerare tutto nella confusione, organizzando invece ogni sequenza nel modo migliore al fine di ottenere velocità d’azione – quando occorre – senza sfociare mai nel caos disarticolato.
Poi, per quanto riguarda i colori, i cromatismi del lungometraggio, luminosi e purissimi, riescono a ricreare sia il gusto informatico-lisergico di Oz, sia la limpidezza tipica delle giornate estive. Pure in questo caso, come ne "La ragazza che saltava nel tempo", le colorazioni dei personaggi sono prive di variazioni chiaroscurali, mentre tutti gli altri elementi, fra cui si notano molto le consuete torri nuvolose (cumuli), presentano uno studio volumetrico attento. Il gioco di contrasti che ne deriva dà quindi lo stesso particolare effetto già apprezzato nel precedente film di Hosoda e, non essendo più una novità, inizia ad apparire come uno dei tratti distintivi delle opere del regista.
Come scenari, le due dimensioni spaziali nella quali si può suddividere il film sono realizzate con la stessa perizia. Se infatti il “mondo reale”, sia negli interni sia negli esterni, è un rigoglio di dettagli e un vertice di pulizia grafica, in quanto i fondali e gli ambienti sono stati studiati e curati fino al più piccolo particolare, i “mondo virtuale” di Oz è un vero e proprio delirio poligonale. Difatti, in virtù dell’uso più che massiccio della CG (Ryo Horibe), e soprattutto grazie alla complicità dell’art design di Anri Kamijō, Oz è un carnevale di colori e un’esplosione di forme, e il bello è che proprio la CG non stona per nulla e anzi conferisce un tocco unico all’atmosfera del cyberspazio, molto atipico, così configurato. E proprio il rapporto che si crea fra le due dimensioni è uno dei temi di maggiore interesse dell’opera, poiché viene a riproporre in maniera fantastica delle circostanze speculari alla nostra quotidianità, dove la rete e il mondo fisico sono sempre più interdipendenti. Allo stesso modo, in Summer Wars, Oz non è una semplice evasione dal mondo reale, ma ne è una parte e ciò che vi accade all’interno si ripercuote sulla realtà stessa, con dei risvolti, a dispetto delle apparenze briose ed edulcorate del cyberspazio, tetri e preoccupanti che stimolano alla riflessione critica.
Al dualismo reale-virtuale si affianca pure quello fra contemporaneità e passato, perché la sottolineatura delle differenze tra ciò che è stato e ciò che è, non soltanto in riferimento alla società attuale, ma anche in relazione alla stessa storia dei Jinnouchi, sono evidenziate con frequenza. Durante il film l’attenzione è quindi focalizzata spesso sul rapporto tra le diverse generazioni e sul loro contatto e avvicendarsi, con il peso che può avere la condizione di eredi – ricordandoci che siamo sempre tutti eredi. Grande merito però va sia a Hosoda sia a Satoko Okudera (sceneggiatura) perché, scevri da facili giudizi o moralismi a favore di una parte o dell’altra, hanno evitato cadute retoriche e invece sono riusciti semplicemente a mettere in scena le diverse vedute, senza fronzoli di nessun tipo a rovinare l’immediatezza comunicativa.
Immediatezza che è una delle parole chiave del lungometraggio e in generale della stilistica di Hosoda, soprattutto a livello narrativo. E anche se qui di certo si perde quella sobrietà scherzosa, delicata e toccante de La ragazza che saltava nel tempo, tuttavia in Summer Wars la narrazione è spumeggiante, e unita a quanto ho già illustrato – e ne hai avuta pazienza se sei ancora qua a leggere – ricrea uno spettacolo dal quale è difficile non farsi avvincere. Certo, l’opera non è un capolavoro, perché da una parte ha dovuto, o voluto, cedere a diversi compromessi mainstream, e dall’altra cade in alcune scenette francamente irritanti per la loro stupidità, tipo alcune parti del finale. Poi il comparto sonoro non è esaltate, o quanto meno è funzionale alle immagini e alle sequenze ma non dispone di quell’impatto conferito invece da parecchie delle altre componenti del film. Inoltre se proprio bisogna essere cattivi, e quando si analizza qualcosa bisogna esserlo, la strutturazione dell’intreccio e in generale il plot sono abbastanza lineari e scontati, così come la loro evoluzione, che procede lungo tappe prevedibili con facilità. Però il circo visivo e concettuale imbastito da Summer Wars occulta senza problemi i suoi difetti e incanta con due ore di, se non grande, di sicuro ottima animazione.
Quello che però rimane inalterato è la freschezza della storia estiva, per certi versi classica, che funge da pista di decollo per le azioni del lungometraggio. Così il più consueto dei “fraintendimenti” dà il la alla reazione a catena che coinvolge i due mondi, quello reale e quello virtuale di Oz, visto che dall’invito a fingere di essere il suo ragazzo, rivolto dalla desideratissima estroversa e frizzante Natsuki all’impacciato genio della matematica Kenji, tutto il globo verrà stravolto. Però il tono dell’anime non diviene mai drammatico, e l’enfasi data dalla sua arsi è sempre connotata da più di una spruzzata di demenzialità che, essendo una costante in tutto il film, in ogni caso non stempera la tensione. Tensione che anzi raggiunge ottime vette grazie al ritmo ben calibrato dell’opera, la quale si prende una buona fetta della sua parte iniziale per presentare la numerosissima famiglia di Natsuki, i Jinnouchi, cui Kenji verrà introdotto nelle vesti di futuro marito, e poi sale di giri e inizia a incalzare con sviluppi e colpi di scena a raffica, seppure questi a volte paiono un po’ eccessivi o forzati. Sì, perché il numero di “coincidenze” e casualità che tornano utili è eccessivo, o almeno la ripetizione di tali artifici narrativi alla lunga mina in piccola parte – cioè solo se ci si presta attenzione – la “credibilità” della trama.
Invece ciò che non pecca di credibilità, e anzi rappresenta uno dei punti di più grande forza di Summer Wars, è il cast di personaggi, i quali sono tutti studiati in modo diversificato e attento. Ognuno di loro ha un proprio carattere e dei propri tratti distintivi, e a ciò si somma la carica vitale di ciascuno. Perché ogni membro della pazza famiglia di Natsuki è ben lontano dall’essere una semplice sagoma di contorno e ha invece un ruolo, e soprattutto una presenza, peculiare nell’economia del lungometraggio. Ovviamente ci saranno membri che spiccheranno più di altri, tuttavia in generale nessuna figura sembra superflua e tutte hanno invece qualcosa da dire e una parte da recitare. In particolare risaltano, per il loro carisma, la “matriarca” della famiglia Jinnouchi, nonna Sakae, e il giovane e all’apparenza cupo Kazuma, i quali spesso rubano la scena non solo a tutti gli altri, ma persino al protagonista Kenji, anche se Summer Wars rimane in ogni caso un’opera corale.
Risulta naturale pensare che ciò non sarebbe stato possibile senza il character design di Yoshiyuki Sadamoto. L’espressività e la brillantezza dei suoi disegni e il tocco vivificante che lui riesce a conferirvi restano una singolarità – o una delle poche – nel panorama dell’animazione nipponica.
In aggiunta, tutto il comparto tecnico di Summer Wars funziona splendidamente. Tanto per cominciare, le animazioni, anche se lontane dalla perfezione, o comunque dalle vette quasi inavvicinabili di alcuni capolavori ("Innocence" di Oshii, tanto per dirne uno), sono in ogni caso più che godibili e, se in alcuni frangenti perdono qualcosa in fluidità, mantengono sempre la naturalezza e l’agilità dei movimenti. Nello specifico la loro dinamicità a tratti rasenta la frenesia, e uno dei meriti più grandi dei direttori dell’animazione è stato proprio il non fare degenerare tutto nella confusione, organizzando invece ogni sequenza nel modo migliore al fine di ottenere velocità d’azione – quando occorre – senza sfociare mai nel caos disarticolato.
Poi, per quanto riguarda i colori, i cromatismi del lungometraggio, luminosi e purissimi, riescono a ricreare sia il gusto informatico-lisergico di Oz, sia la limpidezza tipica delle giornate estive. Pure in questo caso, come ne "La ragazza che saltava nel tempo", le colorazioni dei personaggi sono prive di variazioni chiaroscurali, mentre tutti gli altri elementi, fra cui si notano molto le consuete torri nuvolose (cumuli), presentano uno studio volumetrico attento. Il gioco di contrasti che ne deriva dà quindi lo stesso particolare effetto già apprezzato nel precedente film di Hosoda e, non essendo più una novità, inizia ad apparire come uno dei tratti distintivi delle opere del regista.
Come scenari, le due dimensioni spaziali nella quali si può suddividere il film sono realizzate con la stessa perizia. Se infatti il “mondo reale”, sia negli interni sia negli esterni, è un rigoglio di dettagli e un vertice di pulizia grafica, in quanto i fondali e gli ambienti sono stati studiati e curati fino al più piccolo particolare, i “mondo virtuale” di Oz è un vero e proprio delirio poligonale. Difatti, in virtù dell’uso più che massiccio della CG (Ryo Horibe), e soprattutto grazie alla complicità dell’art design di Anri Kamijō, Oz è un carnevale di colori e un’esplosione di forme, e il bello è che proprio la CG non stona per nulla e anzi conferisce un tocco unico all’atmosfera del cyberspazio, molto atipico, così configurato. E proprio il rapporto che si crea fra le due dimensioni è uno dei temi di maggiore interesse dell’opera, poiché viene a riproporre in maniera fantastica delle circostanze speculari alla nostra quotidianità, dove la rete e il mondo fisico sono sempre più interdipendenti. Allo stesso modo, in Summer Wars, Oz non è una semplice evasione dal mondo reale, ma ne è una parte e ciò che vi accade all’interno si ripercuote sulla realtà stessa, con dei risvolti, a dispetto delle apparenze briose ed edulcorate del cyberspazio, tetri e preoccupanti che stimolano alla riflessione critica.
Al dualismo reale-virtuale si affianca pure quello fra contemporaneità e passato, perché la sottolineatura delle differenze tra ciò che è stato e ciò che è, non soltanto in riferimento alla società attuale, ma anche in relazione alla stessa storia dei Jinnouchi, sono evidenziate con frequenza. Durante il film l’attenzione è quindi focalizzata spesso sul rapporto tra le diverse generazioni e sul loro contatto e avvicendarsi, con il peso che può avere la condizione di eredi – ricordandoci che siamo sempre tutti eredi. Grande merito però va sia a Hosoda sia a Satoko Okudera (sceneggiatura) perché, scevri da facili giudizi o moralismi a favore di una parte o dell’altra, hanno evitato cadute retoriche e invece sono riusciti semplicemente a mettere in scena le diverse vedute, senza fronzoli di nessun tipo a rovinare l’immediatezza comunicativa.
Immediatezza che è una delle parole chiave del lungometraggio e in generale della stilistica di Hosoda, soprattutto a livello narrativo. E anche se qui di certo si perde quella sobrietà scherzosa, delicata e toccante de La ragazza che saltava nel tempo, tuttavia in Summer Wars la narrazione è spumeggiante, e unita a quanto ho già illustrato – e ne hai avuta pazienza se sei ancora qua a leggere – ricrea uno spettacolo dal quale è difficile non farsi avvincere. Certo, l’opera non è un capolavoro, perché da una parte ha dovuto, o voluto, cedere a diversi compromessi mainstream, e dall’altra cade in alcune scenette francamente irritanti per la loro stupidità, tipo alcune parti del finale. Poi il comparto sonoro non è esaltate, o quanto meno è funzionale alle immagini e alle sequenze ma non dispone di quell’impatto conferito invece da parecchie delle altre componenti del film. Inoltre se proprio bisogna essere cattivi, e quando si analizza qualcosa bisogna esserlo, la strutturazione dell’intreccio e in generale il plot sono abbastanza lineari e scontati, così come la loro evoluzione, che procede lungo tappe prevedibili con facilità. Però il circo visivo e concettuale imbastito da Summer Wars occulta senza problemi i suoi difetti e incanta con due ore di, se non grande, di sicuro ottima animazione.