Recensione
Un marzo da leoni
9.0/10
Un marzo da leoni (3月のライオン, Sangatsu no Lion), manga in corso di Chica Umino (autrice precedentemente nota al grande pubblico per Honey and Clover), viene serializzato sulla rivista seinen di Hakusensha Young Animal a partire dal luglio 2007. Il 14 dicembre 2012 è stato pubblicato in Giappone l'ottavo tankōbon. L'opera ha vinto nel 2011 il Manga Taishō (premio per il quale era stato in nomination nel 2009); nello stesso anno ha conseguito il Kōdansha Manga Shō (pur non essendo un titolo Kōdansha), condividendo il riconoscimento con Uchū Kyōdai di Chūya Koyama. Sangatsu no Lion è inoltre in lizza per la XVII edizione del Tezuka Osamu Bunkashō.
Al centro delle vicende troviamo Rei Kiriyama, un diciassettene dal passato drammatico e dal presente tormentato. Dopo aver perduto in tenera età padre, madre e sorellina, periti in un tragico incidente, Rei viene adottato da Kōda, un amico del padre, entrando così a far parte di una famiglia in cui tutto ruota attorno allo shogi, gli scacchi giapponesi. La convivenza all'interno del nuovo nucleo familiare si rivela ben presto problematica, in virtù dell'eccezionale talento di Kiriyama per il gioco, che finisce per mettere nell'ombra i due figli naturali di Kōda, Kyoko, più grande di Rei di quattro anni, e Ayumu, coetaneo di Kiriyama. L'essere messi in secondo piano nella considerazione paterna rispetto a Rei ferisce infatti profondamente i due fratelli; in particolare l'insofferenza della bella Kyoko si traduce in una ribellione alla figura paterna e in un velenoso risentimento nei confronti di Rei. È così che quest'ultimo, afflitto da un lancinante senso e di colpa, per non turbare ulteriormente l'equilibrio familiare dei Kōda, decide di abbandonare la sua dimora adottiva e di andare a vivere da solo, contando di mantenersi attraverso i proventi della carriera da shoghista; ciò avviene in concomitanza con l'ingresso di Rei nel mondo del professionismo, tappa raggiunta dal ragazzo a soli 15 anni, dunque da studente delle scuole medie (precocità eccezionale, riscontrata solo cinque volte nella storia dello shogi). Finite le medie, il ragazzo decide in un primo momento di abbandonare la scuola luogo in cui del resto non era mai riuscito a socializzare ed ancor meno a crearsi delle amicizie, finendo invece per essere ignorato o prestare il fianco alle angherie da parte dei compagni. Gradualmente, però, Rei riconsidera l'opportunità di frequentare i suoi coetanei, iscrivendosi alle superiori con un anno di ritardo. Sebbene il ritorno a scuola stenti a portare i frutti sperati, un incontro casuale determina invece un grande cambiamento nella vita di Kiriyama: è quello con le sorelle Kawamoto, Akari, Hinata e Momo. Queste ultime abitano nel Rione Marzo, collegato attraverso un ponte al Rione Giugno, quartiere di residenza di Kiriyama. L'affetto delle tre ragazze, spontaneo e incondizionato, scioglie lentamente il ghiaccio formatosi negli anni attorno al cuore di Rei, che torna a confrontarsi con se stesso e col proprio passato irrisolto, e, oltre a ciò, trova per la prima volta in se stesso la forza di sostenere gli altri. Il cambiamento interiore non tarda a riflettersi sull'atteggiamento di Rei nello spietato mondo dello shogi professionistico, all'interno del quale il ragazzo matura progressivamente un atteggiamento più assertivo, oltre a coltivare i rapporti con delle preziose figure di riferimento, dall'autoproclamatosi suo "migliore amico" Nikaido, a Shimada 8dan, i cui seminari rappresentano una tappa importante nel suo percorso di crescita.
Un marzo da leoni si presta o più livelli di lettura, che si intersecano e si compenetrano nel corso della narrazione, oltre che attraversare il cammino di vita del protagonista. Gli shogi diventano così metafora e campo di battaglia, al contempo reale e figurato, ove proiettare la propria tensione al superamento dei limiti, ovvero confrontrarsi coraggiosamente con la presenza della sconfitta e col significato della vittoria. È attraverso i pezzi della scacchiera che Rei conosce se stesso e viene a patti col mondo. È attraverso di essi che tenta di accorciare le distanze dagli altri o, al contrario, di estraniarsi da tutto. È imparando a lasciarli da parte che riesce a cogliere qualcosa che esula dalla logica matematica di una partita. Ecco perché si può dire che la Umino non stia portando avanti un "manga sullo shogi"; non ci sta parlando "dello shogi" ma "con lo shogi". La pratica sportiva, l'esercizio mentale, le partite tra professionisti, tutto questo è il carburante di una storia che vuole raccontarci di altro. Alla domanda su cosa quest'altro sia, credo la risposta migliore venga data dalla stessa Umino, che, non a caso, a proposito di un'epica partita dall'esito incerto tra il Meijin Soya e Kumakura 9dan, fa dire a Kisho Yanagihara: "Sembra qualcosa che potrebbe sciogliersi facilmente, e al tempo stesso sembra un intreccio molto ingarbugliato. In poche parole… è caos". La vita umana è caos. Di fronte all'ondata delle emozioni, nel vortice dell'ansia, Kiriyama non ha che lo shogiban: "Nel mare della notte, i miei piedi non riuscivano mai a toccare il fondo. Come appoggio non avevo altro che la mia piccola scacchiera (…) Ho mosso i pezzi. Ho mosso i pezzi… E alla fine… oggi mi trovo qui". È la storia, raccontata con poesia struggente dalla Umino, di come la scacchiera possa diventare lo specchio da attraversare per raggiungere un mondo ulteriore, l'universo degli affetti, quel posto in cui si viene, finalmente, accolti. Quel posto in cui non ci si sente più "zero" ("Rei? Come 'zero'? Che strano nome! Però è perfetto per te. Non trovi?", insinua Kyoko nella prima tavola del primo volume), ma si diventa "uno", unici per qualcuno.
Per presentarci questo tormentato percorso interiore, Chica Umino orchestra sapientemente il registro cronologico, presentandoci a "ondate" il passato di Kiriyama, attraverso il filtro della sua memoria, da cui riaffiorano, acuminati come lame, tormenti e angosce di un'affettività segnata da separazioni, incomprensioni e abbandoni. Da bambino Rei giocava a shogi per poter stare col padre, altrimenti troppo impegnato per dedicargli del tempo; così, cercava di affinare la propria bravura, perché le partite durassero di più. Alla morte dei genitori, finisce sotto la tutela di Kōda, il suo "papà per lo shogi". Le attenzioni di Kōda sono condizionate, rivolte come sono alla bravura di Kiriyama, divenuto un sostituto delle aspirazioni dell'uomo, irrealizzabili attraverso i figli Kyoko e Ayumu. Così, mentre questi ultimi sviluppano inevitabilmente un senso di inadeguatezza, Rei impara a considerare lo shogi, secondo una logica crudele, come uno strumento per procurarsi attenzioni - in fin dei conti, come un mezzo per sopravvivere, per ritagliarsi un posto nel mondo. E avverte, con cocente dolore, di venire considerato dai fratellastri un intruso, colpevole di metterli nell'ombra spalancando le ali della propria crescente bravura. Kiriyama considera le proprie come le ali del cuculo, uccello che sostituisce le sue uova a quelle dell'averla o dello zigolo che finiscono così per covare, a loro insaputa, uova non proprie. La sensibilità di Rei non può che fargli sviluppare un profondo senso di colpa, che lo porta a fuggire dal suo nido adottivo, prima di distruggerne per sempre gli equilibri, e a cercare un luogo dove sopravvivere senza fare del male ad alcuno. Il ragazzo crede inizialmente di poterlo fare solo nella solitudine, dove con lo shogiban (la sua unica arma, quella cui non può fare a meno di aggrapparsi) non debba ferire i sentimenti di nessuno. Anche nella routine scolastica essere un campione di shogi non aiuta, anzi non conviene che si sappia: Rei sconta la solitudine del genio, senza sentirsi tale e senza voler essere considerato tale. Una solitudine che dura finché Akari Kawamoto del Rione Marzo non lo raccoglie, ridotto a uno straccio dai soprusi di un gruppo di senpai che lo han costretto a bere, e lo porta con sé, come un gattino abbandonato. Di lì in poi, la semplice e modesta casetta di Akari, Hina e Momo diventa quel posto al mondo che Kyoko insinuava non potesse esistere per Rei. Un luogo dove arrivi la prima volta e senti già nostalgia, abitato da persone che conosci per la prima volta ed è come se le avessi conosciute da sempre… Basta un noi ci siamo, perché al di là del ponte il mondo si colori. Perché il vuoto indistinto che lascia nel cuore una città sconosciuta si riempia di una presenza. "Sì, credo che a me basti questo".
Sangatsu no lion ci regala momenti deliziosamente intimi. Sembra quasi di avvertire il crepitio della paglia di lino che brucia per l'obon e diffonde nell'aria l'odore del ritorno a casa di chi altrimenti non potrebbe tornare. È in quei momenti che Rei si riconcilia con il proprio cuore, o, almeno, ne socchiude timidamente la porta, sbirciando persino nei ricordi della sua famiglia scomparsa, senza farne parola, così come accade alle sorelle Kawamoto, orfane anch'esse di madre. "Non parliamo delle persone che abbiamo perso", ma, stando in compagnia, "ci si può distrarre", dice sottovoce Akari. Fino a quel giorno, l'unico rifugio di fronte all'angoscia della perdita era stato per Rei lo shogiban, il reticolo di soluzioni sempre disponibili per i problemi di gioco. Nel gioco si cercano strade, tuttavia la vita a volte le chiude tutte. Ecco che si rende indispensabile qualcosa d'altro. L'okuribon, la sera del commiato dai cari estinti, il calore degli affetti mitiga il dolore dell'addio di chi è tornato ma non può restare. La Umino ci dona un manga di affetti perduti, rimpianti, vagheggiati con nostalgia o ricercati a tentoni, con una flebile speranza. La lotta quotidiana, anche quella simbolica vissuta sulla scacchiera, lascia spazio al motivo profondo per cui si lotta, che esso sia noto o ignorato. Nel dolore delle tre sorelle per la propria madre scomparsa, Rei intravede il vocabolario emozionale che gli sarebbe necessario per dare voce al proprio lutto, mai capito fino in fondo, troppo difficile da sostenere nel vuoto del proprio cuore abbandonato ("tutto il rito dell'Obon mi mette tristezza"). Ma dove non arriva la semplice tenerezza del rito, arriva l'indifesa immediatezza delle lacrime di Hina. Quelle lacrime comunicano più delle parole, e ridestano un dubbio "che trapassa il foglio" della pelle di Rei e viene alla luce. Il pianto di Hina gli mostra che non piangere non è "la cosa giusta da fare", glielo svela con la silenziosa e sconfinata evidenza del cielo di una notte di luglio che li osserva entrambi, affacciati sul fiume, stretti alla ringhiera come all'unico possibile appiglio prima di un abbraccio. Quell'abbraccio che arriverà sulle rive di un altro fiume, il Kamogawa, a Kyoto (da notare, per inciso, che il cognome Kawamoto richiama proprio i fiumi, simbolo così importante nell'opera, fonte di serenità con il fluire delle loro acque). Rei trova finalmente qualcosa da proteggere, qualcuno da proteggere. "Vorrei tanto aiutarla, eppure non so come! Io so solo giocare a shogi. Per questo voglio vincere". "Voglio essere forte, almeno in una cosa". Un ragazzo che riflette su tutto, capace fino ad allora di "pensare solo a se stesso", arriva ad urlare con forza, di fronte al dolore di un'altra persona: "Ci sono anch'io!".
L'umanità presente nella storia non si esaurisce qui, ma non possiamo necessariamente dar conto di tutti i personaggi, della caratterizzazione profonda e intensa di ciascuno. Ci limitiamo a parlarvi di Nikaido, l'amico/rivale di Rei. La loro sfida, dice scherzosamente la Umino, sembra una storia da shōnen manga, da spokon. In Nikaido osserviamo la ricerca di un sentiero invisibile al di là della sconfitta, che passa attraverso la rinuncia ad arrendersi, il disperato tentativo di andare oltre i propri limiti. E Rei avverte, nel momento in cui lo batte a un torneo per bambini, disputato su una terrazza assolata che mette a dura prova il fisico di Harunobu (affetto da un'insufficienza renale cronica), il destino di solitudine di chi punta alla giostra spietata del professionismo: la vittoria diventa sopravvivenza, con l'annesso di crudeltà di qualsiasi lotta che implichi il mors tua vita mia. Il vincitore si ritrova davvero solo, e osserva la nobiltà e la purezza delle lacrime di chi ha perso dando tutto se stesso. Nikaido, nonostante la propria fragilità fisica, cerca dappertutto una via d'uscita per il proprio re, e, persino dopo la sconfitta, non smette di cercarla, rinnovando la propria sfida a Rei, o, meglio, ad un mondo senza via di scampo. Anni dopo, nello Shishio-sen (il torneo del re leone), Rei impara ancora da Harunobu Nikaido tutto ciò che può insegnare una volontà di ferro contrapposta alla propria, e Nikaido ringrazia Rei per avergli fatto sentire di non essere solo, nel cammino di impegno e sacrificio, nella lotta contro se stesso, il più arduo dei compiti. È anche grazie a Nikaido che Kiriyama scopre perché non vuole perdere, contro cosa non vuole perdere, o meglio perché o per chi desidera vincere.
L'edizione italiana, a cura di Planet Manga, è in formato 13x18 con sovraccoperta. Si lamenta purtroppo l'assenza di pagine a colori. L'editore italiano si è avvalso della collaborazione dell'AIS (Associazione Italiana Shogi), cosa che ha permesso tra l'altro di realizzare redazionali d'introduzione allo shogi (a cura di Giuseppe Baggio), presenti alla fine di quasi tutti i volumi finora editi. La carta garantisce una discreta sfogliabilità, con un rilassante punto di bianco. Condivisibile la resa delle onomatopee, che mantiene quelle originali con adattamento riportato accanto in piccolo.
Un marzo da leoni racconta l'esperienza di vita del giovane Rei Kiriyama, uno shoghista approdato al professionismo all'età di soli 15 anni. Ancor prima, però, Rei è costretto a siglare un "contratto" col dio dello shogi, che fa di lui uno strumento di quell'ingranaggio che è il gioco, in cambio della sopravvivenza personale. Tuttavia, arriva inevitabilmente nella vita del ragazzo un momento in cui sopravvivere non basta più. Quando si fa avanti l'esigenza di vivere, lo shogi, da arma per proteggersi, diviene un'arma per proteggere.
Dalla famiglia adottiva, in cui è stato accolto perché diventasse un grande shoghista, Kiriyama prende necessariamente le distanze, trovando insperatamente rifugio in un luogo in cui è accettato incondizionatamente, senza l'ansia di "dover essere bravo". Un marzo da leoni, nel raccontarci il passato di Rei, e nel descrivere la situazione presente del suo cuore, non ci nasconde le sue ansie e i suoi timori, i nodi ancora tutti da sciogliere di quel caos che è la sua vita. È difficile, una volta sentito il calore di una casa, di un affetto, riuscire a tornare fuori. "Poi, appena esci, senti il triplo del freddo che c'è (…) Lo so, però, non si può non stargli vicino". Perché "quella casa è come un kotatsu". Anche quando, nei giorni di solitudine, Kiriyama (proprio perché ha imparato a riconoscere la differenza tra affetto e indifferenza, tra calore e freddezza) viene nuovamente assalito da sensazioni paralizzanti, è palese come non voglia più rinunciare ad esserci per le persone care. È questo il guadagno principale del suo percorso di maturazione interiore, ancora in larga parte da compiersi. Contro il vuoto esistenziale, la sua unica risorsa era non dargli spazio, ospitare la mente nelle case dello shogiban, nelle mille ed una combinazioni della scacchiera, concentrandosi sulle prossime partite, sulle sfide che gli permettevano di sopravvivere. Ma, dal momento in cui ha attraversato il ponte che dal Rione Giugno porta al Rione Marzo, Rei ha scoperto un mondo a colori, ha scoperto che c'è di più, oltre alla sopravvivenza: che è possibile vivere. E vivere forse è proprio avvertire la differenza tra una vita quotidiana "fredda da morire" e un luogo in cui "non mi manca nulla".
Al centro delle vicende troviamo Rei Kiriyama, un diciassettene dal passato drammatico e dal presente tormentato. Dopo aver perduto in tenera età padre, madre e sorellina, periti in un tragico incidente, Rei viene adottato da Kōda, un amico del padre, entrando così a far parte di una famiglia in cui tutto ruota attorno allo shogi, gli scacchi giapponesi. La convivenza all'interno del nuovo nucleo familiare si rivela ben presto problematica, in virtù dell'eccezionale talento di Kiriyama per il gioco, che finisce per mettere nell'ombra i due figli naturali di Kōda, Kyoko, più grande di Rei di quattro anni, e Ayumu, coetaneo di Kiriyama. L'essere messi in secondo piano nella considerazione paterna rispetto a Rei ferisce infatti profondamente i due fratelli; in particolare l'insofferenza della bella Kyoko si traduce in una ribellione alla figura paterna e in un velenoso risentimento nei confronti di Rei. È così che quest'ultimo, afflitto da un lancinante senso e di colpa, per non turbare ulteriormente l'equilibrio familiare dei Kōda, decide di abbandonare la sua dimora adottiva e di andare a vivere da solo, contando di mantenersi attraverso i proventi della carriera da shoghista; ciò avviene in concomitanza con l'ingresso di Rei nel mondo del professionismo, tappa raggiunta dal ragazzo a soli 15 anni, dunque da studente delle scuole medie (precocità eccezionale, riscontrata solo cinque volte nella storia dello shogi). Finite le medie, il ragazzo decide in un primo momento di abbandonare la scuola luogo in cui del resto non era mai riuscito a socializzare ed ancor meno a crearsi delle amicizie, finendo invece per essere ignorato o prestare il fianco alle angherie da parte dei compagni. Gradualmente, però, Rei riconsidera l'opportunità di frequentare i suoi coetanei, iscrivendosi alle superiori con un anno di ritardo. Sebbene il ritorno a scuola stenti a portare i frutti sperati, un incontro casuale determina invece un grande cambiamento nella vita di Kiriyama: è quello con le sorelle Kawamoto, Akari, Hinata e Momo. Queste ultime abitano nel Rione Marzo, collegato attraverso un ponte al Rione Giugno, quartiere di residenza di Kiriyama. L'affetto delle tre ragazze, spontaneo e incondizionato, scioglie lentamente il ghiaccio formatosi negli anni attorno al cuore di Rei, che torna a confrontarsi con se stesso e col proprio passato irrisolto, e, oltre a ciò, trova per la prima volta in se stesso la forza di sostenere gli altri. Il cambiamento interiore non tarda a riflettersi sull'atteggiamento di Rei nello spietato mondo dello shogi professionistico, all'interno del quale il ragazzo matura progressivamente un atteggiamento più assertivo, oltre a coltivare i rapporti con delle preziose figure di riferimento, dall'autoproclamatosi suo "migliore amico" Nikaido, a Shimada 8dan, i cui seminari rappresentano una tappa importante nel suo percorso di crescita.
Un marzo da leoni si presta o più livelli di lettura, che si intersecano e si compenetrano nel corso della narrazione, oltre che attraversare il cammino di vita del protagonista. Gli shogi diventano così metafora e campo di battaglia, al contempo reale e figurato, ove proiettare la propria tensione al superamento dei limiti, ovvero confrontrarsi coraggiosamente con la presenza della sconfitta e col significato della vittoria. È attraverso i pezzi della scacchiera che Rei conosce se stesso e viene a patti col mondo. È attraverso di essi che tenta di accorciare le distanze dagli altri o, al contrario, di estraniarsi da tutto. È imparando a lasciarli da parte che riesce a cogliere qualcosa che esula dalla logica matematica di una partita. Ecco perché si può dire che la Umino non stia portando avanti un "manga sullo shogi"; non ci sta parlando "dello shogi" ma "con lo shogi". La pratica sportiva, l'esercizio mentale, le partite tra professionisti, tutto questo è il carburante di una storia che vuole raccontarci di altro. Alla domanda su cosa quest'altro sia, credo la risposta migliore venga data dalla stessa Umino, che, non a caso, a proposito di un'epica partita dall'esito incerto tra il Meijin Soya e Kumakura 9dan, fa dire a Kisho Yanagihara: "Sembra qualcosa che potrebbe sciogliersi facilmente, e al tempo stesso sembra un intreccio molto ingarbugliato. In poche parole… è caos". La vita umana è caos. Di fronte all'ondata delle emozioni, nel vortice dell'ansia, Kiriyama non ha che lo shogiban: "Nel mare della notte, i miei piedi non riuscivano mai a toccare il fondo. Come appoggio non avevo altro che la mia piccola scacchiera (…) Ho mosso i pezzi. Ho mosso i pezzi… E alla fine… oggi mi trovo qui". È la storia, raccontata con poesia struggente dalla Umino, di come la scacchiera possa diventare lo specchio da attraversare per raggiungere un mondo ulteriore, l'universo degli affetti, quel posto in cui si viene, finalmente, accolti. Quel posto in cui non ci si sente più "zero" ("Rei? Come 'zero'? Che strano nome! Però è perfetto per te. Non trovi?", insinua Kyoko nella prima tavola del primo volume), ma si diventa "uno", unici per qualcuno.
Per presentarci questo tormentato percorso interiore, Chica Umino orchestra sapientemente il registro cronologico, presentandoci a "ondate" il passato di Kiriyama, attraverso il filtro della sua memoria, da cui riaffiorano, acuminati come lame, tormenti e angosce di un'affettività segnata da separazioni, incomprensioni e abbandoni. Da bambino Rei giocava a shogi per poter stare col padre, altrimenti troppo impegnato per dedicargli del tempo; così, cercava di affinare la propria bravura, perché le partite durassero di più. Alla morte dei genitori, finisce sotto la tutela di Kōda, il suo "papà per lo shogi". Le attenzioni di Kōda sono condizionate, rivolte come sono alla bravura di Kiriyama, divenuto un sostituto delle aspirazioni dell'uomo, irrealizzabili attraverso i figli Kyoko e Ayumu. Così, mentre questi ultimi sviluppano inevitabilmente un senso di inadeguatezza, Rei impara a considerare lo shogi, secondo una logica crudele, come uno strumento per procurarsi attenzioni - in fin dei conti, come un mezzo per sopravvivere, per ritagliarsi un posto nel mondo. E avverte, con cocente dolore, di venire considerato dai fratellastri un intruso, colpevole di metterli nell'ombra spalancando le ali della propria crescente bravura. Kiriyama considera le proprie come le ali del cuculo, uccello che sostituisce le sue uova a quelle dell'averla o dello zigolo che finiscono così per covare, a loro insaputa, uova non proprie. La sensibilità di Rei non può che fargli sviluppare un profondo senso di colpa, che lo porta a fuggire dal suo nido adottivo, prima di distruggerne per sempre gli equilibri, e a cercare un luogo dove sopravvivere senza fare del male ad alcuno. Il ragazzo crede inizialmente di poterlo fare solo nella solitudine, dove con lo shogiban (la sua unica arma, quella cui non può fare a meno di aggrapparsi) non debba ferire i sentimenti di nessuno. Anche nella routine scolastica essere un campione di shogi non aiuta, anzi non conviene che si sappia: Rei sconta la solitudine del genio, senza sentirsi tale e senza voler essere considerato tale. Una solitudine che dura finché Akari Kawamoto del Rione Marzo non lo raccoglie, ridotto a uno straccio dai soprusi di un gruppo di senpai che lo han costretto a bere, e lo porta con sé, come un gattino abbandonato. Di lì in poi, la semplice e modesta casetta di Akari, Hina e Momo diventa quel posto al mondo che Kyoko insinuava non potesse esistere per Rei. Un luogo dove arrivi la prima volta e senti già nostalgia, abitato da persone che conosci per la prima volta ed è come se le avessi conosciute da sempre… Basta un noi ci siamo, perché al di là del ponte il mondo si colori. Perché il vuoto indistinto che lascia nel cuore una città sconosciuta si riempia di una presenza. "Sì, credo che a me basti questo".
Sangatsu no lion ci regala momenti deliziosamente intimi. Sembra quasi di avvertire il crepitio della paglia di lino che brucia per l'obon e diffonde nell'aria l'odore del ritorno a casa di chi altrimenti non potrebbe tornare. È in quei momenti che Rei si riconcilia con il proprio cuore, o, almeno, ne socchiude timidamente la porta, sbirciando persino nei ricordi della sua famiglia scomparsa, senza farne parola, così come accade alle sorelle Kawamoto, orfane anch'esse di madre. "Non parliamo delle persone che abbiamo perso", ma, stando in compagnia, "ci si può distrarre", dice sottovoce Akari. Fino a quel giorno, l'unico rifugio di fronte all'angoscia della perdita era stato per Rei lo shogiban, il reticolo di soluzioni sempre disponibili per i problemi di gioco. Nel gioco si cercano strade, tuttavia la vita a volte le chiude tutte. Ecco che si rende indispensabile qualcosa d'altro. L'okuribon, la sera del commiato dai cari estinti, il calore degli affetti mitiga il dolore dell'addio di chi è tornato ma non può restare. La Umino ci dona un manga di affetti perduti, rimpianti, vagheggiati con nostalgia o ricercati a tentoni, con una flebile speranza. La lotta quotidiana, anche quella simbolica vissuta sulla scacchiera, lascia spazio al motivo profondo per cui si lotta, che esso sia noto o ignorato. Nel dolore delle tre sorelle per la propria madre scomparsa, Rei intravede il vocabolario emozionale che gli sarebbe necessario per dare voce al proprio lutto, mai capito fino in fondo, troppo difficile da sostenere nel vuoto del proprio cuore abbandonato ("tutto il rito dell'Obon mi mette tristezza"). Ma dove non arriva la semplice tenerezza del rito, arriva l'indifesa immediatezza delle lacrime di Hina. Quelle lacrime comunicano più delle parole, e ridestano un dubbio "che trapassa il foglio" della pelle di Rei e viene alla luce. Il pianto di Hina gli mostra che non piangere non è "la cosa giusta da fare", glielo svela con la silenziosa e sconfinata evidenza del cielo di una notte di luglio che li osserva entrambi, affacciati sul fiume, stretti alla ringhiera come all'unico possibile appiglio prima di un abbraccio. Quell'abbraccio che arriverà sulle rive di un altro fiume, il Kamogawa, a Kyoto (da notare, per inciso, che il cognome Kawamoto richiama proprio i fiumi, simbolo così importante nell'opera, fonte di serenità con il fluire delle loro acque). Rei trova finalmente qualcosa da proteggere, qualcuno da proteggere. "Vorrei tanto aiutarla, eppure non so come! Io so solo giocare a shogi. Per questo voglio vincere". "Voglio essere forte, almeno in una cosa". Un ragazzo che riflette su tutto, capace fino ad allora di "pensare solo a se stesso", arriva ad urlare con forza, di fronte al dolore di un'altra persona: "Ci sono anch'io!".
L'umanità presente nella storia non si esaurisce qui, ma non possiamo necessariamente dar conto di tutti i personaggi, della caratterizzazione profonda e intensa di ciascuno. Ci limitiamo a parlarvi di Nikaido, l'amico/rivale di Rei. La loro sfida, dice scherzosamente la Umino, sembra una storia da shōnen manga, da spokon. In Nikaido osserviamo la ricerca di un sentiero invisibile al di là della sconfitta, che passa attraverso la rinuncia ad arrendersi, il disperato tentativo di andare oltre i propri limiti. E Rei avverte, nel momento in cui lo batte a un torneo per bambini, disputato su una terrazza assolata che mette a dura prova il fisico di Harunobu (affetto da un'insufficienza renale cronica), il destino di solitudine di chi punta alla giostra spietata del professionismo: la vittoria diventa sopravvivenza, con l'annesso di crudeltà di qualsiasi lotta che implichi il mors tua vita mia. Il vincitore si ritrova davvero solo, e osserva la nobiltà e la purezza delle lacrime di chi ha perso dando tutto se stesso. Nikaido, nonostante la propria fragilità fisica, cerca dappertutto una via d'uscita per il proprio re, e, persino dopo la sconfitta, non smette di cercarla, rinnovando la propria sfida a Rei, o, meglio, ad un mondo senza via di scampo. Anni dopo, nello Shishio-sen (il torneo del re leone), Rei impara ancora da Harunobu Nikaido tutto ciò che può insegnare una volontà di ferro contrapposta alla propria, e Nikaido ringrazia Rei per avergli fatto sentire di non essere solo, nel cammino di impegno e sacrificio, nella lotta contro se stesso, il più arduo dei compiti. È anche grazie a Nikaido che Kiriyama scopre perché non vuole perdere, contro cosa non vuole perdere, o meglio perché o per chi desidera vincere.
L'edizione italiana, a cura di Planet Manga, è in formato 13x18 con sovraccoperta. Si lamenta purtroppo l'assenza di pagine a colori. L'editore italiano si è avvalso della collaborazione dell'AIS (Associazione Italiana Shogi), cosa che ha permesso tra l'altro di realizzare redazionali d'introduzione allo shogi (a cura di Giuseppe Baggio), presenti alla fine di quasi tutti i volumi finora editi. La carta garantisce una discreta sfogliabilità, con un rilassante punto di bianco. Condivisibile la resa delle onomatopee, che mantiene quelle originali con adattamento riportato accanto in piccolo.
Un marzo da leoni racconta l'esperienza di vita del giovane Rei Kiriyama, uno shoghista approdato al professionismo all'età di soli 15 anni. Ancor prima, però, Rei è costretto a siglare un "contratto" col dio dello shogi, che fa di lui uno strumento di quell'ingranaggio che è il gioco, in cambio della sopravvivenza personale. Tuttavia, arriva inevitabilmente nella vita del ragazzo un momento in cui sopravvivere non basta più. Quando si fa avanti l'esigenza di vivere, lo shogi, da arma per proteggersi, diviene un'arma per proteggere.
Dalla famiglia adottiva, in cui è stato accolto perché diventasse un grande shoghista, Kiriyama prende necessariamente le distanze, trovando insperatamente rifugio in un luogo in cui è accettato incondizionatamente, senza l'ansia di "dover essere bravo". Un marzo da leoni, nel raccontarci il passato di Rei, e nel descrivere la situazione presente del suo cuore, non ci nasconde le sue ansie e i suoi timori, i nodi ancora tutti da sciogliere di quel caos che è la sua vita. È difficile, una volta sentito il calore di una casa, di un affetto, riuscire a tornare fuori. "Poi, appena esci, senti il triplo del freddo che c'è (…) Lo so, però, non si può non stargli vicino". Perché "quella casa è come un kotatsu". Anche quando, nei giorni di solitudine, Kiriyama (proprio perché ha imparato a riconoscere la differenza tra affetto e indifferenza, tra calore e freddezza) viene nuovamente assalito da sensazioni paralizzanti, è palese come non voglia più rinunciare ad esserci per le persone care. È questo il guadagno principale del suo percorso di maturazione interiore, ancora in larga parte da compiersi. Contro il vuoto esistenziale, la sua unica risorsa era non dargli spazio, ospitare la mente nelle case dello shogiban, nelle mille ed una combinazioni della scacchiera, concentrandosi sulle prossime partite, sulle sfide che gli permettevano di sopravvivere. Ma, dal momento in cui ha attraversato il ponte che dal Rione Giugno porta al Rione Marzo, Rei ha scoperto un mondo a colori, ha scoperto che c'è di più, oltre alla sopravvivenza: che è possibile vivere. E vivere forse è proprio avvertire la differenza tra una vita quotidiana "fredda da morire" e un luogo in cui "non mi manca nulla".