Recensione
DanMachi: Sword Oratoria
6.0/10
“Dungeon ni Deai o Motomeru no wa Michigatte Iru Darouka Gaiden: Sword Oratoria” (abbreviato in “DanMachi: Sword Oratoria”) è una serie d’animazione giapponese del 2017 costituita da dodici episodi di durata canonica, prodotta da J.C.Staff e distribuita in Italia da Yamato Video. E’ tratta dalla light novel omonima, spin-off di “DanMachi” incentrato principalmente sulla famiglia Loki e su Aiz Wallenstein, la Principessa della Spada.
Nel prodotto convivono simultaneamente due anime dissonanti, che contribuiscono a spezzare il ritmo della narrazione e a ridurre la godibilità delle puntate: da un lato, abbiamo un inquietante complotto che sembra coinvolgere divinità, eroi e mostri, e minaccia di scuotere le vere fondamenta della città di Orario e del mondo intero, turbando allo stesso tempo l’impassibile Aiz, tormentata dal suo etereo passato; dall’altro, si è costretti ad assistere alla crescita interiore della maga elfica Lefiya, praticamente una ripetizione di quanto già visto con Bell Cranel nell’opera originale, solo che questa volta gli eventi mostrati sono ancora più stereotipati, banali e inconsistenti.
Lefiya, tutta pizzi e vestitini rosa, si vergogna della propria codardia e della sua totale dipendenza dai compagni di squadra, ma non viene mai esplorato il perché di questa sua caratteristica, incompatibile con il suo livello di avventuriera, troppo elevato per qualcuno incapace di muovere un passo nel Dungeon senza inciampare in preda a tremiti di terrore. Il suo cammino è un susseguirsi di pianti, rossori d’imbarazzo, fantasie romantiche che la vedono protagonista insieme ad Aiz (l’oggetto della sua ammirazione/infatuazione), gelosie, bontà zuccherosa e tanta determinazione. Sebbene non manchino le scene discretamente avvincenti e anche alcune sequenze comiche divertenti, il focus sull’elfa è generalmente noioso e letteralmente priva la serie di minuti preziosi che sarebbero stati utili per sviluppare meglio la trama principale.
Aiz Wallenstein, d’altro canto, è un personaggio molto più arduo da scrivere e rendere coinvolgente (soprattutto come figura centrale di una serie a lei dedicata), a causa del suo volto inespressivo e del suo comportamento che così poco si discosta da rodati e inoffensivi luoghi comuni. Nonostante qualche flashback onirico e brevi spunti che suggeriscono una certa profondità in agguato sotto una superficie tanto piatta, la Principessa della Spada resta una giovane donna ingenua e altruista con un passato oscuro che la spinge a diventare sempre più forte, ma niente di più.
I personaggi secondari, sia buoni che antagonisti, sono tristemente meno complessi di quelli primari e, più che per le loro personalità (quasi esclusivamente legate a uno o due tratti principali), sono facilmente identificabili in base al loro aspetto estetico (ragazza prosperosa, ragazza piatta, ragazza piatta pervertita, ragazzo-cane, ecc.). Sono tendenzialmente sfruttati per fornire al pubblico convenienti e intempestive spiegazioni relative a particolari avvenimenti, persone, luoghi e poteri.
Il comparto tecnico è qualitativamente altalenante.
Il character design è curato, proporzionato e molto gradevole, arricchito da una certa attenzione per i dettagli relativi ad armi, armature e capi d’abbigliamento vari. Buone anche le ambientazioni, anche se buona parte del tempo è passata nel Dungeon, in compagnia di formazioni rocciose non sempre intriganti. Anche se non troppo originale, il design dei mostri, specialmente quelli floreali, è piuttosto straniante e interessante. Com’era accaduto per il suo predecessore, anche “Sword Oratoria” convince per una buona dose di violenza e sangue e per gli effetti visivi. L’unica vera pecca grafica è un filtro vagamente affettato che rende i colori opachi e spenti.
Le animazioni sono abbastanza fluide, ma le fiacche e ripetitive coreografie dei combattimenti, quasi tutti ridotti a grida di incoraggiamento, balzi infiniti e qualche stoccata, non rendono loro giustizia, così come le numerose incongruenze nel posizionamento dei personaggi, spesso radicalmente diverso in inquadrature consequenziali. Non aiuta di certo il fatto che la migliore battaglia dell’anime resti quella di Bell contro il minotauro.
La colonna sonora non presenta brani di rilievo: non stona, ma non esalta. Sia l’opening che l’ending sono due brani orecchiabili ma leziosi, che ben rappresentano lo spirito di una serie che ha prestato troppo tempo a situazioni superflue. Il doppiaggio originale è sempre molto espressivo e calzante, anche se a tratti irritante. Sorprendenti sono invece alcuni effetti sonori di grande impatto.
In conclusione, “DanMachi: Sword Oratoria” è una serie perfettamente evitabile e praticamente inutile. Riesce ad espandere leggermente il mondo in cui si svolge la vicenda mostrando nuovi dei, implicando una storia brutale e tragica, una politica subdola e manipolatrice e la presenza di fazioni in cerca di una apocalisse che spazzi via ogni forma di vita dalla superficie. Tuttavia, la trama, anche considerata come arco narrativo introduttivo, è priva di una risoluzione, seppur parziale, e non fa che aumentare i dubbi dello spettatore circa le intenzioni delle figure coinvolte. Potrebbe risultare più soddisfacente se accompagnata da un sequel, ma, in quanto opera a sé stante, manca delle fondamenta necessarie per reggersi da sola senza fare ricorso a continui richiami a “DanMachi”, a cui aggiunge poco e da cui non eredita la spontaneità e la rinfrescante linearità.
E questo è un peccato, considerando che la storia centrale, grazie a toni più cupi, creature raccapriccianti e antagonisti autentici e spietati, si prestava ad essere portata su schermo e a risultare ben più appassionante e grandiosa delle avventure di Bell Cranel, le quali impallidiscono al cospetto dei conflitti che ruotano attorno alla famiglia Loki, nonostante la condivisione di alcuni concetti basilari.
Consigliata a chi è in cerca di intrattenimento generico e poco impegnativo o ai fan della serie madre.
Nel prodotto convivono simultaneamente due anime dissonanti, che contribuiscono a spezzare il ritmo della narrazione e a ridurre la godibilità delle puntate: da un lato, abbiamo un inquietante complotto che sembra coinvolgere divinità, eroi e mostri, e minaccia di scuotere le vere fondamenta della città di Orario e del mondo intero, turbando allo stesso tempo l’impassibile Aiz, tormentata dal suo etereo passato; dall’altro, si è costretti ad assistere alla crescita interiore della maga elfica Lefiya, praticamente una ripetizione di quanto già visto con Bell Cranel nell’opera originale, solo che questa volta gli eventi mostrati sono ancora più stereotipati, banali e inconsistenti.
Lefiya, tutta pizzi e vestitini rosa, si vergogna della propria codardia e della sua totale dipendenza dai compagni di squadra, ma non viene mai esplorato il perché di questa sua caratteristica, incompatibile con il suo livello di avventuriera, troppo elevato per qualcuno incapace di muovere un passo nel Dungeon senza inciampare in preda a tremiti di terrore. Il suo cammino è un susseguirsi di pianti, rossori d’imbarazzo, fantasie romantiche che la vedono protagonista insieme ad Aiz (l’oggetto della sua ammirazione/infatuazione), gelosie, bontà zuccherosa e tanta determinazione. Sebbene non manchino le scene discretamente avvincenti e anche alcune sequenze comiche divertenti, il focus sull’elfa è generalmente noioso e letteralmente priva la serie di minuti preziosi che sarebbero stati utili per sviluppare meglio la trama principale.
Aiz Wallenstein, d’altro canto, è un personaggio molto più arduo da scrivere e rendere coinvolgente (soprattutto come figura centrale di una serie a lei dedicata), a causa del suo volto inespressivo e del suo comportamento che così poco si discosta da rodati e inoffensivi luoghi comuni. Nonostante qualche flashback onirico e brevi spunti che suggeriscono una certa profondità in agguato sotto una superficie tanto piatta, la Principessa della Spada resta una giovane donna ingenua e altruista con un passato oscuro che la spinge a diventare sempre più forte, ma niente di più.
I personaggi secondari, sia buoni che antagonisti, sono tristemente meno complessi di quelli primari e, più che per le loro personalità (quasi esclusivamente legate a uno o due tratti principali), sono facilmente identificabili in base al loro aspetto estetico (ragazza prosperosa, ragazza piatta, ragazza piatta pervertita, ragazzo-cane, ecc.). Sono tendenzialmente sfruttati per fornire al pubblico convenienti e intempestive spiegazioni relative a particolari avvenimenti, persone, luoghi e poteri.
Il comparto tecnico è qualitativamente altalenante.
Il character design è curato, proporzionato e molto gradevole, arricchito da una certa attenzione per i dettagli relativi ad armi, armature e capi d’abbigliamento vari. Buone anche le ambientazioni, anche se buona parte del tempo è passata nel Dungeon, in compagnia di formazioni rocciose non sempre intriganti. Anche se non troppo originale, il design dei mostri, specialmente quelli floreali, è piuttosto straniante e interessante. Com’era accaduto per il suo predecessore, anche “Sword Oratoria” convince per una buona dose di violenza e sangue e per gli effetti visivi. L’unica vera pecca grafica è un filtro vagamente affettato che rende i colori opachi e spenti.
Le animazioni sono abbastanza fluide, ma le fiacche e ripetitive coreografie dei combattimenti, quasi tutti ridotti a grida di incoraggiamento, balzi infiniti e qualche stoccata, non rendono loro giustizia, così come le numerose incongruenze nel posizionamento dei personaggi, spesso radicalmente diverso in inquadrature consequenziali. Non aiuta di certo il fatto che la migliore battaglia dell’anime resti quella di Bell contro il minotauro.
La colonna sonora non presenta brani di rilievo: non stona, ma non esalta. Sia l’opening che l’ending sono due brani orecchiabili ma leziosi, che ben rappresentano lo spirito di una serie che ha prestato troppo tempo a situazioni superflue. Il doppiaggio originale è sempre molto espressivo e calzante, anche se a tratti irritante. Sorprendenti sono invece alcuni effetti sonori di grande impatto.
In conclusione, “DanMachi: Sword Oratoria” è una serie perfettamente evitabile e praticamente inutile. Riesce ad espandere leggermente il mondo in cui si svolge la vicenda mostrando nuovi dei, implicando una storia brutale e tragica, una politica subdola e manipolatrice e la presenza di fazioni in cerca di una apocalisse che spazzi via ogni forma di vita dalla superficie. Tuttavia, la trama, anche considerata come arco narrativo introduttivo, è priva di una risoluzione, seppur parziale, e non fa che aumentare i dubbi dello spettatore circa le intenzioni delle figure coinvolte. Potrebbe risultare più soddisfacente se accompagnata da un sequel, ma, in quanto opera a sé stante, manca delle fondamenta necessarie per reggersi da sola senza fare ricorso a continui richiami a “DanMachi”, a cui aggiunge poco e da cui non eredita la spontaneità e la rinfrescante linearità.
E questo è un peccato, considerando che la storia centrale, grazie a toni più cupi, creature raccapriccianti e antagonisti autentici e spietati, si prestava ad essere portata su schermo e a risultare ben più appassionante e grandiosa delle avventure di Bell Cranel, le quali impallidiscono al cospetto dei conflitti che ruotano attorno alla famiglia Loki, nonostante la condivisione di alcuni concetti basilari.
Consigliata a chi è in cerca di intrattenimento generico e poco impegnativo o ai fan della serie madre.