Recensione
Tsukigakirei
5.5/10
L’amore ai tempi dell’iPhone
Nell’immaginario collettivo, una delle immagini che si tende ad associare alla cultura dell’Estremo Oriente è quella della pacatezza: filosofie e religioni che ricercano la pace interiore, riti lenti e solenni, la meditazione zen e chi più ne ha più ne metta. Un modo di vivere che, pur non trovando spazio nella vita frenetica delle grandi metropoli giapponesi, sopravvive nelle piccole realtà rurali di questa fetta di mondo ed è ottimamente rappresentata nello stile di quegli autori che godono di buona fama anche in Occidente. Un senso di distacco dalle cose terrene pervade, etereo, i racconti di costoro, che spesso si dilettano nel contrapporre a un periodare meditativo delle ambientazioni e delle situazioni che di pacato e distaccato hanno poco o nulla. Questa contraddizione non risulta tuttavia una stonatura, ma riesce in modo efficace a rappresentare una dicotomia tanto assurda, quanto effettivamente reale. Il motivo del preambolo è che “Tsuki ga Kirei” vuole ricreare esattamente questo tipo di situazioni, mettendo in risalto i paradossi di una società ancora intrinsecamente “orientale”, ma sempre più alienata e assorbita dal mondo della tecnologia.
L’esempio più lampante di questa evoluzione è fornito dalle nuove generazioni, motivo per cui, come protagonisti di questa storia, vediamo due ragazzi delle medie, appena adolescenti e alle prese con il primo amore. Akane e Kotaro, due compagni di classe, fanno conoscenza per puro caso in un ristorante, dove erano a mangiare con le rispettive famiglie; i genitori, accortisi della combinazione fortuita, iniziano a parlare, mentre i due ragazzi, estremamente riservati, sono visibilmente a disagio. Proprio questa situazione comune li porta progressivamente ad avvicinarsi l’uno all’altro, fino a comprendere che, forse, vedono nel rapporto con l’altro qualcosa di più di una semplice amicizia. Questo almeno vale per Kotaro, il quale, nonostante la perenne carenza di verve, pare più propenso a prendere l’iniziativa. Akane invece è più passiva, accetta i sentimenti di Kotaro senza aver prima capito a fondo i propri e per quasi tutta la serie è trascinata dalle vicende, senza essere in grado di agire attivamente e decidere per sé. Uno dei perni attorno a cui gli autori hanno voluto costruire la storia è il modo di apparire dei due protagonisti, anzi, dei personaggi in generale: il tentativo di rendere realistica la loro vita quotidiana si esplica in due essenziali attitudini di Kotaro e Akane: l’essere attivi e disinvolti su LINE - un programma di messaggistica per smartphone - e tremendamente impacciati e taciturni nella vita reale.
L’evidente barriera che si erge tra i due non appena si trovano faccia a faccia è il rovescio della medaglia dell’avere la possibilità di comunicare liberamente a tutte le ore del giorno e della notte. Dal vivo gli argomenti di discussione stentano a venir fuori, lunghi silenzi pervadono la scena e tutto viene tremendamente rallentato e dilatato; a contribuire ci sono una serie di scene abbastanza ripetitive in cui i personaggi, durante la loro abituale routine, messaggiano tra di loro, senza che dicano una parola. Da questo segue che le vicende che si susseguono durante la serie, a conti fatti, non sono molte, ma riescono comunque a riempire tutto lo spazio a disposizione grazie ai già citati accorgimenti da parte degli autori. La giustificazione è che, in quanto tipicamente giapponese, la storia è dilatata e stiracchiata di suo, allungata abilmente con l’inserimento di vedute cittadine e paesaggistiche, di squarci di vita quotidiana di altri studenti e di lunghi silenzi sulla scena, atti a ritrarre i quieti protagonisti in tutto il loro essere orientali. In una parola: noia.
Lo stesso senso di sospensione che si può trovare, rimanendo in tema, in opere romantiche, come “Honey & Clover”, o fortemente folkloristiche, come “Mushishi”, in “Tsuki ga kirei” è talmente esasperato e spogliato di ogni altro eventuale attributo da suscitare, a lungo andare, una sensazione inevitabile di noia. I personaggi risultano caratterizzati poveramente e, se piacciono, piacciono perché teneri e impacciati, pucciosi diremmo oggi, ma non per il loro carattere o la loro personalità. Tutto si riduce all’esteriorità, ma è proprio qui che casca il palco, perché ciò che dovrebbe essere il punto di forza di un anime come “Tsuki ga Kirei”, cioè l’apparato tecnico e la direzione artistica, si dimostra mediocre, se non peggio.
Partendo dalla seconda, la scelta a livello di character design e colorazione è quella di linee morbide e approssimate e tonalità tenui, ad alimentare l’effetto di sospensione della scena descritto in precedenza; l’espressività dei personaggi un po’ risente di questa scelta, contribuendo a non conferire loro una caratterizzazione completa. La regia, dal canto suo, indugia spesso su dettagli insignificanti e squarci di vita scolastica totalmente fini a sé stessi - tutto rigorosamente a camera fissa -, ricercando e non trovando quel sense of wonder che ha fatto la fortuna di un regista del calibro di Isao Takahata e, in maniera minore, del non più tanto giovane Makoto Shinkai. Ed è il modo in cui questo viene perseguito a nuocere di più alla serie: il comparto tecnico, eccezion fatta per qualche guizzo nel finale, si rivela sottotono, ove non mediocre; lugubri figure dalle sembianze di studenti, animate in CGI, si aggirano per la scuola e per le strade della città nei sopracitati intermezzi di vita quotidiana, pensati con l’intenzione di rendere realistica e credibile l’ambientazione, ma che finiscono con l’ottenere l’effetto opposto. Si salva il comparto musicale, evocativo ed evanescente anch’esso, ma affossato da tutto ciò che lo circonda.
Fosse durato la metà degli episodi, “Tsuki ga Kirei” probabilmente mi sarebbe piaciuto; sviluppa in modo originale una tematica ormai classica, quella del primo amore tra i banchi di scuola, e tenta di farlo senza abusare degli espedienti comici e demenziali propri di un buon numero di shoujo e shounen di oggi. Vero è anche che si perde nel finale, solo per far trionfare l’amore - sulla credibilità, aggiungo io -, ma tutto sommato non sono carenze della storia in sé ciò di cui ci si può lamentare, ma di come essa venga espressa. Per questo, per quanto insufficiente, non mi sento di bocciare in modo troppo convinto “Tsuki ga Kirei”, che probabilmente piacerà, nonostante gli evidenti difetti, a chi è più affascinato dalla cultura orientale. Lo lascio con questo piccolo rimpianto, lo stesso che mi sarebbe piaciuto vedere sul volto di Kotaro, ma che, ahimè, non è stato dato apprezzare.
Nell’immaginario collettivo, una delle immagini che si tende ad associare alla cultura dell’Estremo Oriente è quella della pacatezza: filosofie e religioni che ricercano la pace interiore, riti lenti e solenni, la meditazione zen e chi più ne ha più ne metta. Un modo di vivere che, pur non trovando spazio nella vita frenetica delle grandi metropoli giapponesi, sopravvive nelle piccole realtà rurali di questa fetta di mondo ed è ottimamente rappresentata nello stile di quegli autori che godono di buona fama anche in Occidente. Un senso di distacco dalle cose terrene pervade, etereo, i racconti di costoro, che spesso si dilettano nel contrapporre a un periodare meditativo delle ambientazioni e delle situazioni che di pacato e distaccato hanno poco o nulla. Questa contraddizione non risulta tuttavia una stonatura, ma riesce in modo efficace a rappresentare una dicotomia tanto assurda, quanto effettivamente reale. Il motivo del preambolo è che “Tsuki ga Kirei” vuole ricreare esattamente questo tipo di situazioni, mettendo in risalto i paradossi di una società ancora intrinsecamente “orientale”, ma sempre più alienata e assorbita dal mondo della tecnologia.
L’esempio più lampante di questa evoluzione è fornito dalle nuove generazioni, motivo per cui, come protagonisti di questa storia, vediamo due ragazzi delle medie, appena adolescenti e alle prese con il primo amore. Akane e Kotaro, due compagni di classe, fanno conoscenza per puro caso in un ristorante, dove erano a mangiare con le rispettive famiglie; i genitori, accortisi della combinazione fortuita, iniziano a parlare, mentre i due ragazzi, estremamente riservati, sono visibilmente a disagio. Proprio questa situazione comune li porta progressivamente ad avvicinarsi l’uno all’altro, fino a comprendere che, forse, vedono nel rapporto con l’altro qualcosa di più di una semplice amicizia. Questo almeno vale per Kotaro, il quale, nonostante la perenne carenza di verve, pare più propenso a prendere l’iniziativa. Akane invece è più passiva, accetta i sentimenti di Kotaro senza aver prima capito a fondo i propri e per quasi tutta la serie è trascinata dalle vicende, senza essere in grado di agire attivamente e decidere per sé. Uno dei perni attorno a cui gli autori hanno voluto costruire la storia è il modo di apparire dei due protagonisti, anzi, dei personaggi in generale: il tentativo di rendere realistica la loro vita quotidiana si esplica in due essenziali attitudini di Kotaro e Akane: l’essere attivi e disinvolti su LINE - un programma di messaggistica per smartphone - e tremendamente impacciati e taciturni nella vita reale.
L’evidente barriera che si erge tra i due non appena si trovano faccia a faccia è il rovescio della medaglia dell’avere la possibilità di comunicare liberamente a tutte le ore del giorno e della notte. Dal vivo gli argomenti di discussione stentano a venir fuori, lunghi silenzi pervadono la scena e tutto viene tremendamente rallentato e dilatato; a contribuire ci sono una serie di scene abbastanza ripetitive in cui i personaggi, durante la loro abituale routine, messaggiano tra di loro, senza che dicano una parola. Da questo segue che le vicende che si susseguono durante la serie, a conti fatti, non sono molte, ma riescono comunque a riempire tutto lo spazio a disposizione grazie ai già citati accorgimenti da parte degli autori. La giustificazione è che, in quanto tipicamente giapponese, la storia è dilatata e stiracchiata di suo, allungata abilmente con l’inserimento di vedute cittadine e paesaggistiche, di squarci di vita quotidiana di altri studenti e di lunghi silenzi sulla scena, atti a ritrarre i quieti protagonisti in tutto il loro essere orientali. In una parola: noia.
Lo stesso senso di sospensione che si può trovare, rimanendo in tema, in opere romantiche, come “Honey & Clover”, o fortemente folkloristiche, come “Mushishi”, in “Tsuki ga kirei” è talmente esasperato e spogliato di ogni altro eventuale attributo da suscitare, a lungo andare, una sensazione inevitabile di noia. I personaggi risultano caratterizzati poveramente e, se piacciono, piacciono perché teneri e impacciati, pucciosi diremmo oggi, ma non per il loro carattere o la loro personalità. Tutto si riduce all’esteriorità, ma è proprio qui che casca il palco, perché ciò che dovrebbe essere il punto di forza di un anime come “Tsuki ga Kirei”, cioè l’apparato tecnico e la direzione artistica, si dimostra mediocre, se non peggio.
Partendo dalla seconda, la scelta a livello di character design e colorazione è quella di linee morbide e approssimate e tonalità tenui, ad alimentare l’effetto di sospensione della scena descritto in precedenza; l’espressività dei personaggi un po’ risente di questa scelta, contribuendo a non conferire loro una caratterizzazione completa. La regia, dal canto suo, indugia spesso su dettagli insignificanti e squarci di vita scolastica totalmente fini a sé stessi - tutto rigorosamente a camera fissa -, ricercando e non trovando quel sense of wonder che ha fatto la fortuna di un regista del calibro di Isao Takahata e, in maniera minore, del non più tanto giovane Makoto Shinkai. Ed è il modo in cui questo viene perseguito a nuocere di più alla serie: il comparto tecnico, eccezion fatta per qualche guizzo nel finale, si rivela sottotono, ove non mediocre; lugubri figure dalle sembianze di studenti, animate in CGI, si aggirano per la scuola e per le strade della città nei sopracitati intermezzi di vita quotidiana, pensati con l’intenzione di rendere realistica e credibile l’ambientazione, ma che finiscono con l’ottenere l’effetto opposto. Si salva il comparto musicale, evocativo ed evanescente anch’esso, ma affossato da tutto ciò che lo circonda.
Fosse durato la metà degli episodi, “Tsuki ga Kirei” probabilmente mi sarebbe piaciuto; sviluppa in modo originale una tematica ormai classica, quella del primo amore tra i banchi di scuola, e tenta di farlo senza abusare degli espedienti comici e demenziali propri di un buon numero di shoujo e shounen di oggi. Vero è anche che si perde nel finale, solo per far trionfare l’amore - sulla credibilità, aggiungo io -, ma tutto sommato non sono carenze della storia in sé ciò di cui ci si può lamentare, ma di come essa venga espressa. Per questo, per quanto insufficiente, non mi sento di bocciare in modo troppo convinto “Tsuki ga Kirei”, che probabilmente piacerà, nonostante gli evidenti difetti, a chi è più affascinato dalla cultura orientale. Lo lascio con questo piccolo rimpianto, lo stesso che mi sarebbe piaciuto vedere sul volto di Kotaro, ma che, ahimè, non è stato dato apprezzare.