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“Tokyo Godfathers” è un film d’animazione giapponese del 2003 scritto e diretto da Satoshi Kon con la collaborazione di Keiko Nobumoto alla sceneggiatura e Shôgo Furuya alla regia.

La vicenda vede come protagonisti tre senzatetto: Gin, un irascibile e disincantato alcolizzato, Hana, un melodrammatico transessuale, e la giovane Miyuki, scappata di casa. La notte di Natale, mentre rovista tra cumuli di immondizia in cerca di oggetti utili, il trio trova una neonata abbandonata e decide, non prima di accese discussioni, di andare in cerca dei genitori della piccola, ribattezzata Kiyoko.

Il lungometraggio segue così le tribolazioni di questo eterogeneo gruppo, tra litigi, indizi e vicoli ciechi, in un viaggio sia fisico che spirituale che si rivela ben presto essere anche un’opportunità per esplorare i protagonisti, con le loro storie e i loro sogni, e la dura vita da vagabondo.
Sebbene “Tokyo Godfathers” mantenga con costanza toni da commedia, sono presenti svariate scene in cui emerge il tragico rapporto tra società civile e reietti: per ogni sguardo compassionevole e mano tesa in aiuto ce ne sono dieci o più colmi di disprezzo e disgusto, mentre i pugni si serrano per aggredire, anziché per difendere. Gli attimi in cui si è quasi sopraffatti dalla rabbia impotente sono però presto dimenticati grazie alla profonda umanità di cui sono dotati Gin, Hana e Miyuki, un’umanità che non si traduce in stucchevole bontà, ma abbraccia l’imperfezione della condizione umana, con i suoi egoismi, gli errori commessi in passato che tornano a tormentare e la vigliaccheria, ma anche la solidarietà, l’ironia e la determinazione. Anche le deviazioni dalla trama principale, per quanto sembrino rallentare il ritmo della narrazione, forniscono spunti di riflessione e permettono allo spettatore di immergersi nella psiche dei tre protagonisti, ciascuno con le proprie drammatiche circostanze e le speranze per il futuro, a volte frenate da rassegnazione e aspri conflitti interiori.
Satoshi Kon dà così vita alla sua opera più concreta e accessibile, senza però rinunciare alle sue iconiche sequenze oniriche, leggere e ben dosate, e ad un tocco di magia, immancabile in un film natalizio, che di frequente si manifesta in un gusto per le fortuite coincidenze che farebbe invidia ai romanzieri storici dell’Ottocento.

Come è oramai tipico aspettarsi dal Maestro Kon, il comparto tecnico è di alto livello: le animazioni sono estremamente fluide e plastiche, forse anche troppo, e sono spesso al servizio di una mimica facciale e di un linguaggio del corpo unici e iperattivi. I fondali sono molto curati e, anche tramite un impiego meticoloso della computer grafica, regalano una Tokyo fredda e imbiancata dalla neve ma dinamica e ricca di vita e colori, in cui i mucchi di sordido lerciume e le luci sfavillanti esprimono la stessa dicotomia valida per i personaggi che vi abitano. Il character design è ben particolareggiato e, fisionomie buffe (senza essere grottesche, con le dovute eccezioni) a parte, è piuttosto proporzionato. Impressionante anche la cura per i dettagli dei capi di vestiario.
La colonna sonora è sempre adeguata e orecchiabile e, nonostante alcuni momenti più tesi e cupi, conserva uno spirito vivace di fondo che la rende irresistibile e trascinante. Ottimo anche il doppiaggio italiano, così come l’adattamento in linea di massima, in cui è possibile riconoscere solo un trascurabile errore di traduzione.

In conclusione, “Tokyo Godfathers” è un film incantevole, magari non adatto proprio a tutta la famiglia a causa di alcune scene forti e violente e ad un linguaggio piuttosto scurrile, ma intenso, dotato non di una maestosa potenza visiva, ma di un tepore affettuoso e accogliente, una favola contemporanea realistica e ammaliante allo stesso tempo.