Recensione
Nejishiki
8.0/10
Recensione di Texhnolyze
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Bisogna innanzitutto ringraziare il grande Igort e la sua Oblomov per averci finalmente portato questo fumetto di Tsuge, considerato dai più/dai pochi che l’avevano già letto un capolavoro.
Sebbene per me non tutta questa raccolta sia definibile con un aggettivo così altisonante - il vero capolavoro di Tsuge è L’Uomo Senza Talento -, mi è impossibile non dire che si tratta di almeno un ottimo prodotto, l’ennesimo del gekiga.
Si può affermare con un certo grado di sicurezza che il gekiga, da considerarsi una vera e propria corrente fumettistica, abbia sfornato solo perle e inoltre queste erano davvero avanti con i tempi ma non significa che non siano invecchiate.
Sebbene L’Uomo senza Talento, o anche l’avanguardista Elegia in Rosso, sia senza tempo, lo stesso non si può dire per questo e altre opere di Tatsumi o Tadao Tsuge.
E’ vero che lo stile di questi fumetti di 50-60 anni fa è ora come ora la base del graphic novel odierno ma è anche vero che disegni e narrazione sono ancorati a quegli anni.
Diciamolo subito, i capitoli migliori sono Nejishiki, che dà il nome al volume, e Yanagiyashujin, ma il primo è stato veramente seminale per i mangaka. A ben vedere Nejishiki uscì nel 1968 sulla rivista Garo, quindi anni dopo l’inizio di Tatsumi e Tsuge stesso, e allora perché è fondamentale? Mai prima di allora si è pensato di introdurre una narrazione sognante, dream-like, ma in questo caso è meglio parlare di incubo, in un contesto squisitamente quotidiano e realistico.
Nejishiki infatti è un affresco lucido del dopoguerra, quindi pieno zeppo di disfatte morali, di indifferenza e di povertà; a questo si aggiunge la componente metaforica ed onirica appena citata, infatti troveremo un treno che viaggia al contrario, una vena ricostruita con una valvola meccanica e la nascita e morte – inizio e fine – nel mare. E’ ovvio che un racconto del genere sia profondamente pessimista e l’artificio dell’incubo estremizza la sua natura.
Altra caratteristica di Tsuge è il realismo con cui mette in scena la nudità, che è un taboo per la mentalità nipponica, e difatti dopo lui molti altri fumettisti dell’underground hanno iniziato a disegnarli allo stesso modo.
Passiamo all’altro grande capitolo di questa raccolta, più in linea con il gekiga classico, come del resto tutti gli altri capitoli presentati, ma Tsuge accentua la narrazione interiore riuscendo a partorire un vero e proprio racconto intimista e riflessivo. In questo anticipa ciò che poi porterà al suo apice con L’Uomo Senza Talento, ovvero indaga su questioni puramente esistenziali, legate al soggetto, d’altronde parliamo in questo caso di un watakushi manga, manga dell’io.
Questi 2 capitoli inoltre sono i più universali della raccolta, mentre gli altri sono fin troppo radicati nella cultura giapponese e quindi è facile imbattersi in una certa ingenuità nei dialoghi ma, diciamolo, questo è anche un po’ il fascino dei manga, per lo meno di quelli leggiadri del gekiga.
L’approccio, o forse avvento, del gekiga fa del manga una vera forma d’arte poiché si distanzia da qualsivoglia tentativo di intrattenimento pensando solo alla sua forma d’espressione intrinseca, gli autori così trasmettevano ciò che volevano trasmettere – spesso il disagio - senza svendersi; ed è questa la vera innovazione.
In linea con gli altri esponenti della corrente anche Tsuge non si sofferma né sulla trama né sulla spettacolarità ma sulle piccole cose, sulle classi meno abbienti del Giappone del dopoguerra, i derelitti messi ai margini, sulle condizioni lavorative insostenibili e come ovvia conseguenza di tutto ciò l’egoismo innato di ogni essere umano, che si erge prepotentemente nei momenti di necessità.
Il gekiga è una sorta di neorealismo a fumetti, sebbene sia giusto e necessario fare il parallelo con altri maestri del cinema giapponese, dunque in primis con Ozu o anche Mizoguchi.
In un mondo che allora ai giapponesi appariva senza futuro e l’inadeguatezza, se non inutilità, di affliggersi pensando al passato fa sì che l’unico atto di sopravvivenza è pensare al presente, vivere alla giornata e così, di riflesso, Tsuge riflette sul presente.
L’intera opera di Tsuge è come il suo autore: pacata, distaccata e matura.
L’unico tratto possibile per raffigurare queste tematiche umane e il mood malinconico non può che essere scarno, semplice, quasi minimalista.
Le storie sono solite finire con un senso di ambiguità spiazzante e coadiuvate dalla staticità delle pose fanno sì che il lettore provi più empatia.
Curiosità: pare che per Nejishiki Tsuge sia stato influenzato da un suo sogno fatto mentre dormiva sul tetto.
Nejishiki, il capitolo, divenne presto un vero cult supportato dai movimenti studenteschi per la sua componente interpretativa ed è tuttora destinato a durare per sempre, per cui era ora che qualcuno facesse questo sforzo di portarlo in Italia.
Sebbene per me non tutta questa raccolta sia definibile con un aggettivo così altisonante - il vero capolavoro di Tsuge è L’Uomo Senza Talento -, mi è impossibile non dire che si tratta di almeno un ottimo prodotto, l’ennesimo del gekiga.
Si può affermare con un certo grado di sicurezza che il gekiga, da considerarsi una vera e propria corrente fumettistica, abbia sfornato solo perle e inoltre queste erano davvero avanti con i tempi ma non significa che non siano invecchiate.
Sebbene L’Uomo senza Talento, o anche l’avanguardista Elegia in Rosso, sia senza tempo, lo stesso non si può dire per questo e altre opere di Tatsumi o Tadao Tsuge.
E’ vero che lo stile di questi fumetti di 50-60 anni fa è ora come ora la base del graphic novel odierno ma è anche vero che disegni e narrazione sono ancorati a quegli anni.
Diciamolo subito, i capitoli migliori sono Nejishiki, che dà il nome al volume, e Yanagiyashujin, ma il primo è stato veramente seminale per i mangaka. A ben vedere Nejishiki uscì nel 1968 sulla rivista Garo, quindi anni dopo l’inizio di Tatsumi e Tsuge stesso, e allora perché è fondamentale? Mai prima di allora si è pensato di introdurre una narrazione sognante, dream-like, ma in questo caso è meglio parlare di incubo, in un contesto squisitamente quotidiano e realistico.
Nejishiki infatti è un affresco lucido del dopoguerra, quindi pieno zeppo di disfatte morali, di indifferenza e di povertà; a questo si aggiunge la componente metaforica ed onirica appena citata, infatti troveremo un treno che viaggia al contrario, una vena ricostruita con una valvola meccanica e la nascita e morte – inizio e fine – nel mare. E’ ovvio che un racconto del genere sia profondamente pessimista e l’artificio dell’incubo estremizza la sua natura.
Altra caratteristica di Tsuge è il realismo con cui mette in scena la nudità, che è un taboo per la mentalità nipponica, e difatti dopo lui molti altri fumettisti dell’underground hanno iniziato a disegnarli allo stesso modo.
Passiamo all’altro grande capitolo di questa raccolta, più in linea con il gekiga classico, come del resto tutti gli altri capitoli presentati, ma Tsuge accentua la narrazione interiore riuscendo a partorire un vero e proprio racconto intimista e riflessivo. In questo anticipa ciò che poi porterà al suo apice con L’Uomo Senza Talento, ovvero indaga su questioni puramente esistenziali, legate al soggetto, d’altronde parliamo in questo caso di un watakushi manga, manga dell’io.
Questi 2 capitoli inoltre sono i più universali della raccolta, mentre gli altri sono fin troppo radicati nella cultura giapponese e quindi è facile imbattersi in una certa ingenuità nei dialoghi ma, diciamolo, questo è anche un po’ il fascino dei manga, per lo meno di quelli leggiadri del gekiga.
L’approccio, o forse avvento, del gekiga fa del manga una vera forma d’arte poiché si distanzia da qualsivoglia tentativo di intrattenimento pensando solo alla sua forma d’espressione intrinseca, gli autori così trasmettevano ciò che volevano trasmettere – spesso il disagio - senza svendersi; ed è questa la vera innovazione.
In linea con gli altri esponenti della corrente anche Tsuge non si sofferma né sulla trama né sulla spettacolarità ma sulle piccole cose, sulle classi meno abbienti del Giappone del dopoguerra, i derelitti messi ai margini, sulle condizioni lavorative insostenibili e come ovvia conseguenza di tutto ciò l’egoismo innato di ogni essere umano, che si erge prepotentemente nei momenti di necessità.
Il gekiga è una sorta di neorealismo a fumetti, sebbene sia giusto e necessario fare il parallelo con altri maestri del cinema giapponese, dunque in primis con Ozu o anche Mizoguchi.
In un mondo che allora ai giapponesi appariva senza futuro e l’inadeguatezza, se non inutilità, di affliggersi pensando al passato fa sì che l’unico atto di sopravvivenza è pensare al presente, vivere alla giornata e così, di riflesso, Tsuge riflette sul presente.
L’intera opera di Tsuge è come il suo autore: pacata, distaccata e matura.
L’unico tratto possibile per raffigurare queste tematiche umane e il mood malinconico non può che essere scarno, semplice, quasi minimalista.
Le storie sono solite finire con un senso di ambiguità spiazzante e coadiuvate dalla staticità delle pose fanno sì che il lettore provi più empatia.
Curiosità: pare che per Nejishiki Tsuge sia stato influenzato da un suo sogno fatto mentre dormiva sul tetto.
Nejishiki, il capitolo, divenne presto un vero cult supportato dai movimenti studenteschi per la sua componente interpretativa ed è tuttora destinato a durare per sempre, per cui era ora che qualcuno facesse questo sforzo di portarlo in Italia.