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10.0/10
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E’ sicuramente molto facile rimanere conquistati dall’incredibile bellezza di Levius.
Sarà forse per il tratto poetico-malinconico di Haruhisa Nakata che si nutre delle dissonanze nell’incontro tra figure, cose, paesaggi ora a fuoco ora solo accennati.
O forse per il lento incedere del racconto, capace di indagare, al pari di un romanzo in prosa, fatti circostanze e personaggi in maniera quasi casuale, raccogliendone i pochi frammenti nei dialoghi e nei gesti dei protagonisti.
Ma quello che non si coglie attraverso un godimento puramente visivo, potrà invece definitivamente conquistare attraverso un’indagine più approfondita delle dinamiche che si muovono dietro le vicende del giovane Levius Cromwell.
A cominciare dal suo habitat narrativo, il XIX secolo di una ipotetica nuova era in cui il romanticismo dell’età vittoriana sembra essere stato sopraffatto da una violenta esplosione tecnologica, capace di sancire la vittoria del capitale sulla rivoluzione d’ottobre solo tentata dal padre del nostro protagonista, il quale, in maniera quasi catarchica, cerca di allontanarne il ricordo attraverso l’esercizio della boxe meccanizzata, sport in cui si affrontano lottatori dotati di protesi meccaniche ed in cui il giovane Cromwell sembra essere assai promettente.
Fondamentale la figura della nonna paterna, presso cui Levius, ormai orfano di padre e con una madre bloccata in coma in un letto di ospedale, vive. Questa sembra simboleggiare lo spirito dei tempi andati, un avatar attraverso cui parlano i venti, le macchine, i gatti, una sorta di daemonium socratico di un’epoca che non ha avuto il suo normale corso evolutivo, violentata da una rivoluzione industriale capace di pervertire la società tutta in un abbraccio diabolico, in cui poter comprare la forza col denaro, cancellando l’umanità di un dolce ragazzino destinato a divenire un diavolo, specchio dei suoi tempi, riflesso del nostro mondo.
Per ora solo un primo numero, ma che numero.