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Con un pizzico di orgoglio posso dire che i ragazzi di Mad hanno fatto nuovamente centro. Dopo l’esordio de “L’arte della felicità” e la consacrazione con lo splendido “Gatta Cenerentola” non era semplice presentarsi sul palcoscenico della cinematografia (inter)nazionale ancora con una produzione originale e nuovamente con l’animazione quale mezzo espressivo indirizzato a un pubblico eterogeneo e non solo alle famiglie. Eppure, anche questo “Yaya e Lennie - The Walking Liberty” raggiunge l’obiettivo col suo carico di avventura, ambientalismo e ricerca della libertà, in un film politicizzato, fortemente critico dei sistemi autoritari, ma che allo stesso tempo lascia libertà di scelta e interpretazione allo spettatore su cosa significhi la libertà e quanto sia possibile, e giusto, sacrificare in nome di essa.

Il film è ambientato in un pianeta Terra post-apocalittico; non ci viene spiegato cosa abbia prodotto questa situazione, ma il mondo che conosciamo non esiste più, l’umanità non è estinta, ma la natura si è riappropriata del pianeta presentatoci subito come una fittissima giungla. In questo scenario si muovono Yaya e Lennie, ragazza bella, diffidente e dalla lingua tagliente la prima, un gigante buono e facilmente preda delle emozioni il secondo, orfani cresciuti come fratelli, ragazzi ‘sbagliati’, cresciuti da una certa Zia Claire ormai passata a miglior vita, che si muovono senza meta e senza legami, badando solo a loro stessi. E ne hanno ben donde, perché insieme a loro si muove anche l’Istituzione, un’organizzazione pseudo-fascista non legata a nessun Paese ma solo all’ideale di dover ricostruire la civiltà perduta, riunendo gli uomini sotto il proprio dominio nella ricerca del progresso e del, presunto, benessere collettivo.

Proprio sulla differenza del concetto di libertà espresso da queste due entità così diverse si dipana la storia del film e il suo messaggio, reso volutamente più ambiguo dalla presenza di diverse soluzioni ‘alternative’ agli stili di vita scelti da Yaya & Lennie o dall’Istituzione: nella giungla infatti vivono anche tribù apparentemente selvagge e ostili alle imposizioni dell’Istituzione, villaggi che con essa sono venuti a patti, conservando una certa autonomia, pur tagliandosi fuori da tutte le scoperte tecnologiche raggiunte dall’Istituzione, e spassosi rivoluzionari vogliosi di soverchiare l’ordine principale armati di pochi mezzi ma tanto cuore e volontà. Non nego che proprio l’arrivo di questa pseudo-armata Brancaleone, comandata non a caso dall’esuberante Rospoleón, rivoluzionario dal ventre adiposo ma dall'animo valoroso, è la chiave di volta del film che, cominciato con un ritmo abbastanza blando, da questo momento in poi fila come un treno, regalando una visione appagante in ogni momento, dall’azione pura al più riflessivo. Grande merito della presa sullo spettatore ce l’hanno anche i personaggi, magari non tutti sfruttati al meglio delle loro potenzialità (penso soprattutto al capitano dell’Istituzione, presentato quasi come un personaggio importantissimo e ridotto poi a poco di più un comic relief), ma capaci comunque di lasciare un segno con la loro personalità; vale la pena citare, oltre i due protagonisti e gli sgangherati rivoluzionari, Zio Giò e il nipote Andrea, nati in un villaggio esterno all’Istituzione ma con le idee completamente opposte su come rapportarsi ad essa, col primo che ne condanna i metodi e gli obiettivi e il secondo che invece si è unito ad essa desideroso di uscire da quella realtà arretrata e abbracciare un futuro magari più costrittivo ma sicuramente anche votato al progresso. Le alternative non mancano, insomma, ed è sempre più difficile razionalizzare su quale sia il limite per cui valga la pena sacrificare tutta o buona parte della propria libertà, e questa discrezionalità di scelta è anche il pregio di questo lungometraggio, che neanche il toccante finale limita nella sua potenza espressiva e nella sua bellezza.

Già, perché questo film è anche bello da vedere oltre che interessante da seguire, grazie alla perizia tecnica dei ragazzi di Mad Entertainment (ma diretto e sceneggiato dal solo Alessandro Rak stavolta), ormai pienamente padroni del mezzo e capaci di realizzare un film apprezzabilissimo, senza venire meno al loro stile, che, sia chiaro, può essere respingente per qualcuno, soprattutto per chi è avvezzo alla pulizia e alla scorrevolezza del (buon) 2D dell’animazione giapponese, ma proprio per questo ai miei occhi rappresenta quella rottura dall’abitudine che tiene vivo l’amore e l’interesse per l’animazione in sé. Anche in questo caso quindi il character design dei personaggi è volutamente sgraziato e poco definito, pur senza perdere tuttavia un briciolo di fascino, che sia nelle curve della bella protagonista o nell’aspetto indimenticabile dell’armata (poco) rivoluzionaria, un miscuglio multietnico capitanato da un Che Guevara del discount a cavallo di un asino con tatuaggio di Maradona in bella vista e una bandiera argentina a cingergli le spalle come drappo simbolo di ribellione e indipendenza... meraviglioso! Eppure, ancora più meravigliose appaiono le ambientazioni di questo film, probabilmente la vera perla dal punto di vista grafico, una giungla fittissima, intricata, quasi soffocante, di un verde talmente brillante da confondersi con la luce quasi, a cui fanno da contraltare gli insediamenti dell’Istituzione, cave senza fondo antropizzate a tal punto dall’uomo, da risultare ugualmente soffocanti, senza lasciar filtrare stavolta neanche un velo di luce. E in un mondo che ha perso la nostra civiltà non mancano piccoli tocchi citazionistici che la ricordano, legati tutti all’universo cinematografico: si va da un pizzico di sana autoreferenzialità col poster de “L’arte della felicità” che fa bella mostra in casa di Zia Claire insieme ad altri film come “Ritorno al futuro” o “Il grande Lebowsky”, passando a suggerimenti più allusivi come l’aspetto di Zio Giò e del fratello che ricordano Bud Spencer e Terence Hill di “Trinità”, fino all’inserimento esplicito del discorso all’umanità di Charlie Chaplin ne “Il grande dittatore”, ulteriore invocazione alla libertà, alla non violenza e all’uguaglianza quali principi fondamentali dell’umanità. Altra chicca di questo lungometraggio poi è il suo splendido comparto sonoro, dalla calzante colonna sonora, di cui voglio citare una scalcinata versione di “Les Toreadors” dalla “Carmen” di Bizet, che aumenta ulteriormente la carica comica dei discorsi di Rospoleón e i suoi rivoluzionari, fino al doppiaggio, che magari non si può definire ‘perfetto’ nella pulizia della voce e della recitazione, ma dove ogni attore ha saputo ricamare nel proprio ruolo un’interpretazione, per me, riuscitissima: la giovane Fabiola Balestriere carica Yaya di una vitalità strabordante con la sua voce sporca e malinconica, Ciro Priello dà voce a Lennie con grande naturalezza, senza una caricatura che ne accentui i problemi cognitivi, Lina Sastre è meravigliosa narratrice dei momenti di pausa e riflessione del film, e laddove si fanno notare voci della filmografia partenopea moderna come Massimiliano Gallo e Fabio Balsamo, la vera parte del leone la fa l’immarcescibile Francesco Pannofino col fantastico Rospoleón e il suo memorabile spagnolo maccheronico.

Non c’è insomma un vero motivo che possa spingere a non vedere questo film, che certo non ha goduto di grandissima pubblicità da par suo: presentato al 74° Festival di Locarno, è andato in sala solo per quattro giorni a fine 2021, per poi approdare in streaming su Amazon Prime Video, dove è ancora disponibile a chiunque voglia dargli fiducia, spinto dalla sua potenza espressiva, dalla sua storia, dai suoi personaggi e, perché no, dal lavoro tutto italiano di un collettivo di appassionati e professionisti che crede in quello che fa e continua a urlarlo in un silenzio a volte assordante, ma ancora spezzato da poche voci desiderose di farsi affascinare da qualcosa di diverso dal solito, e speriamo siano sempre di più.