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6.5/10
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Ci sono mangaka in continua ricerca sperimentale, il cui corpus opere vanta i generi più disparati, da Osamu Tezuka a Jirō Taniguchi, ed altri invece che legano indissolubilmente la propria carriera ad una sola corrente specifica, dinamica piuttosto frequente quando si sposa lo stile orrorifico, Junji Itō ne è un chiaro esempio.

Hideshi Hino, uno dei massimi pionieri dell’horror manga insieme a Kazuo Umezu, rientra inevitabilmente nella categoria dei “monogami”.
Pur avendo spaziato con lavori minori dallo shōnen classico allo shōjo, Hino non si riconosceva in quei progetti su commissione nati per riempire i buchi delle varie riviste per cui lavorava, riuscendo a trovare la sua reale dimensione e la sua massima potenza espressiva soltanto all’interno dei racconti dell’orrore. Da sempre appassionato di fumetti, da bambino leggeva principalmente manga umoristici nutrendo un debole per Shigeru Sugiura, Hino era inizialmente intenzionato a mettere i suoi demoni su pellicola dopo esser rimasto folgorato dalla visione di “Harakiri” di Masaki Kobayashi, in seguito (con la carriera di mangaka già avviata) presterà la sua estrosa penna alla nona arte realizzando tre lungometraggi. A indirizzarlo definitivamente verso la nona arte furono sopratutto i lavori di Yoshiharu Tsuge, uno dei suoi massimi ispiratori, la cui poetica narrativa seppe illuminarlo sul percorso fumettistico da intraprendere, riconoscendo nel manga la sua vocazione. La sua semantica può per certi versi richiamare Tod Browning negli elogi al diverso, nel fornire quel punto di vista distante e distaccato dall'immaginario comune che ha reso celebri diversi artisti usciti dalla rivista Garo, tra cui Sanpei Shirato, Suehiro Maruo, Yoshiharu Tsuge appunto, Yoshihiro Tatsumi, Shigeru Mizuki e Usamaru Furuya.

“Bug Boy” è la storia di Sanpei, un ragazzo con un’indomita passione per gli insetti che, a causa di questo suo feticismo, viene deriso ed emarginato dai compagni di scuola. A casa i genitori non fanno altro che umiliarlo paragonandolo ai suoi fratelli, rimarcandogli costantemente la sua goffagine e il suo scarso rendimento scolastico. Sanpei trova un po’ di sollievo soltanto in un rifugio che pullula di insetti, un nascondiglio diroccato che ha amorevolmente costruito per i suoi animaletti. Dopo essere stato punto da una strano insetto rosso vermiglio, Sanpei inizia a tumefarsi, liquefacendosi fino a trasformarsi in un ripugnante verme assetato di sangue.

I manga di Hideshi Hino sono un turbinio sanguinolento di morte e disperazione, composti da truculenza e body horror, espliciti tanto nelle immagini cruente che rasentano lo splatter, quanto nei contenuti disturbanti che lasciano poco spazio all’immaginazione, con un stile che ricorda il primo Dario Argento, a differenza della corrente di Junji Itō, che invece si rifa al “vedo e non vedo” hitchockiano, facendo del mistero e del terrore psicologico i suoi punti di forza.
Che Hino amasse citare ed omaggiare non era certo un segreto: la sua prima opera lunga “Inferno del domani” richiamava nel titolo l’opera più in voga del periodo: “Ashita no Joe” (“Joe del domani”), famoso in Italia col titolo di “Rocky Joe”.
In “Bug Boy” le reference sono molteplici, le due che balzano immediatamente all'occhio sono sicuramente “La metamorfosi” di Franz Kafka e “Kitaro dei cimiteri” di Shigeru Mizuki, specie nell'emarginazione del protagonista, con qualche reminiscenza anche del William Burroughs de “Il pasto nudo”, che a sua volta si rifaceva alla scuola kafkiana. Abbondante l’uso della voce narrante, che col tempo la vedremo ricorrente nelle opere di Hino, diventando una della componenti principali della cifra stilistica dell’autore.

I disegni, oltre a risultare attempati, (l’opera è del 1982 e già all'epoca non risultava avanguardistica in termini di puro impatto visivo), soffrono di una natura caricaturale figlia del passato dell’autore da disegnatore di strisce umoristiche e demenziali, e non sempre si confanno alle atmosfere orrorifiche del racconto. Inoltre si riscontra qualche problema di prospettiva, specie nella rappresentazione insettoide del protagonista, le cui dimensioni variano di continuo: a volte viene raffigurato poco più grande di un piatto, altre volte ben più lungo di un essere umano adulto.

“Dokumushi Kozou” è nella sua natura anticonvenzionale al tempo stesso una storia di vendetta circolare e classica nello sviluppo. La trasformazione di Sanpei rappresenta la natura che si ribella al genere umano e il mostro creato dall’uomo, ma anche e sopratutto il Giappone che, menomato dalla seconda guerra mondiale, striscia a lungo prima di potersi rialzare, trasformato e inficiato dall'efferatezza del più famoso dei conflitti, il tema del bombardamento atomico è molto caro all’autore come vedremo nel suo magnum opus “Visione d’inferno”.
“Bug boy” è un piccolo classico per gli amanti del genere, che nel suo omaggiare reinterpreta senza però reinventare, declinando a fumetti la letteratura kakfiana con uno stampo tipicamente giapponese.
Seppur strutturalmente acerba e rudimentale risulta una delle opere che ha fatto da testa d’ariete alla poetica espressiva di Hideshi Hino, spianando la strada anche agli autori che lo succederanno, trovando nel tracciato scarlatto lasciato dal sensei un percorso da seguire.