Criptico, filosofico, disturbante, commovente, narrativamente sontuoso: tanti aggettivi sono stati spesi su quel Planescape: Torment che nel 1999 si palesò davanti agli occhi dei giocatori su Personal Computer. Il fratello maggiore di Baldur’s Gate: più intelligente, più coscienzioso, più responsabile, sicuro di sé e delle capacità mentali dei giocatori ai quali si rivolgeva, al punto da proporre loro un’esperienza pesantemente basata su un testo di qualità letteraria, talmente ricco e sfaccettato da far impallidire pressoché quasi ogni gioco di ruolo dell’epoca, un primato che – verosimilmente - detiene ancora oggi. Planescape: Torment seppe imporre una sua propria, personale concezione del gioco di ruolo, prendendo assai a cuore le parole del famoso detto “ne ferisce più la penna che la spada”.

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E non si tratta, certo, di un’esagerazione: nel titolo partorito dalle fervide menti di Black Isle – azienda nella quale militavano guru del writing videoludico, allora come oggi, come Chris Avellone e Colin McComb, una parola poteva cambiare il destino di un uomo, mentre il potere delle credenze e del pensiero poteva plasmare da solo un intero multiverso; il giocatore veniva catapultato all’interno di una ricerca dal valore puramente personale: l’obiettivo non era, classicamente quanto banalmente, salvare il mondo o la principessa di turno, bensì (ri)scoprire il proprio passato, la ragione della propria esistenza e financo le motivazioni dietro la propria immortalità, che lungi dall’essere un dono si rivela essere, piuttosto, una maledizione. Dietro tutto questo, la domanda fondamentale, ciò che racchiude in sé e definisce le questioni filosofiche propugnate dal gioco: cosa può cambiare la natura di un uomo?

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Fast forward fino al 2013: Brian Fargo, già fra i capoccia della mai troppo lodata Interplay, inaugura su Kickstarter il progetto Torment: Tides of Numenera, seguito spirituale e concettuale del precedente Planescape basato stavolta sul regolamento del quasi omonimo tabletop Numenera, firmato dal designer Monte Cook che, per l’occasione, presta la sua penna anche alla scrittura del gioco. Come era facile prevedere, la campagna si chiude con un successo a dir poco clamoroso, e i fondi raccolti (oltre 4 milioni di dollari, cifra astronomica per un quello che è, a tutti gli effetti, un mezzo indie) permettono di assoldare un vero e proprio dream team di scrittori e designer – la maggior parte di essi già veterani di Black Isle: tra Chris Avellone, Pat Rothfuss, Brian Mitsoda, George Ziets, Colin McComb, Adam Heine e Nathan Long, parliamo di nomi da far girare la testa per le possibilità offerte in termini di sceneggiatura e quest design, in quello che si preannunciava come uno dei seguiti più scomodi di tutta la storia videoludica, eppure più promettenti.
 

 
Tre anni e mezzo dopo, ci troviamo finalmente di fronte al risultato finale, disponibile non solo su PC (versione testata per questa recensione) ma anche su PlayStation 4 e Xbox One (queste ultime per gentile intercessione del publisher Techland). Un titolo che si fa carico di una quantità abnorme di aspettative e speranze, in virtù dello status di cult raggiunto dal predecessore, ma non esente da alcune polemiche scatenate da certe scelte di sviluppo che hanno condotto prima ad alcuni ritardi nella produzione e poi all’insoddisfazione di determinate fette di utenza. Per l’utenza italiana, il riferimento va, soprattutto, alla mancata traduzione in italiano, eppure promessa nel corso della campagna di crowdfunding, un passo falso che ha generato – indipendentemente dai motivi più o meno leciti di InXile, tutti incentrati sul lato economico della localizzione – polemiche a non finire e persino l’immancabile petizione online. Parte quindi bene ma non benissimo, questo improbabile, secondo Torment.

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Vera e propria definizione da manuale di “titolo di nicchia”, Torment si avvia con decisione verso un l’incipit che già da solo è in grado di solleticare le corde del giocatore più smaliziato e avvezzo ai titoli più cerebrali, magari più peculiari: ci troviamo un miliardo di anni del futuro, in quello che le popolazioni umane rimaste sulla Terra definiscono il Nono Mondo. Otto grandi civiltà, sappiamo, si sono susseguite nei passati eoni, lasciando dietro di sé tecnologie e manufatti talmente misteriosi da essere considerati quasi magia dalle civiltà semi-medievaleggianti che ora dominano il globo terrestre, in una riproposizione quasi pedissequa della celebre terza legge di Clarke. All’interno di questa premessa, prende avvio una trama che riecheggia, e non per caso, certi temi già toccati dal predecessore: il Dio Mutevole è un uomo che è riuscito a scoprire il segreto dell’immortalità, trasferendo la propria mente in un nuovo corpo e potendo così vivere per secoli, influenzando più volte gli eventi del mondo e passando costantemente di vita in vita; come effetto collaterale di tale procedura, i corpi lasciati indietro acquisiscono una propria consapevolezza, diventando esseri senzienti a tutti gli effetti. Il giocatore assume il ruolo dell’ultimo di questi “scarti”, denominato Last Castoff, e verrà immediatamente catapultato all’interno di una ricerca dal significato puramente e profondamente personale, quasi intimo: nel corso del gioco si investigheranno le ragioni della propria esistenza, il significato dell’identità e il valore che si cela dietro alle vite dei precedenti Castoff (in particolare) e di ogni essere vivente (nell’universale). Da qui, la questione centrale sollevata dalle oltre 30 ore di Torment, che riprende ma al tempo stesso rielabora con sensibilità nuove la sopracitata domanda già posta da Planescape: che valore ha una vita?

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In Torment vi è, finemente intessuta, una fittissima rete di relazioni umane e non, sullo sfondo di un setting nel quale si fondono senza soluzione di continuità fantasy classico e tradizionale sci-fi, in una commistione di generi che costituisce uno dei punti forti del titolo di InXile, grazie all’approccio sempre immaginativo e fantasioso tenuto dagli scrittori menzionati. Torment, come d’altronde la sua precedente iterazione, è un tripudio di racconti e vicende al limite dell’impossibile, in cui la stragrande maggioranza degli NPC con i quali è possibile interagire ha una propria storia da raccontare, spesso e volentieri così esotica, quasi ultraterrena, da rappresentare una sfida alle facoltà immaginative del giocatore: tra viaggiatori multi-dimensionali, tatuaggi viventi, memorie che prendono misteriosamente vita, esseri provenienti da universi del tutto indiscernibili, nanomacchine e realtà che si influenzano lungo lo spazio-tempo, Torment gioca continuamente con le aspettative del proprio giocatore-lettore, regalando situazioni e personaggi completamente alieni da qualsiasi stereotipo classico di genere, e tuttavia quasi mai astrusi solo per puro piacere intrinseco della complessità, bensì insigniti di un ruolo ben preciso all’interno dell’universo di Monte Cook e soci.
 

 
E di questo il merito, principalmente ma non esclusivamente, va alla scrittura, veicolo principale tramite il quale si esprime la quasi totalità dell’opera di Inxile. E d’altronde la visuale isometrica, l’assoluta povertà dei modelli poligonali e l’utilizzo di un engine privo di particolari orpelli grafici come Unity fa sì che il compito di descrivere gli accadimenti del gioco possa andare, come naturale conseguenza, solo agli sceneggiatori: odori, colori, sensazioni, emozioni, vengono così espressi tramite muri di testo caratterizzati da una complessità e da una densità tematica raggiunta da pochissimi giochi di ruolo nell’attuale mercato videoludico, comprese le recenti sperimentazioni partorite dalla florida fucina di Kickstarter o dalle menti più fieramente indipendenti, come Pillars of Eternity e Age of Decadence. Certo, questa particolare impostazione ha l’innegabile effetto di rendere Torment un titolo difficilmente approcciabile da una mente non preparata, complice il linguaggio usato che spesso e volentieri preferisce la dizione più aulica e letteraria: ben più della media del genere, questo è un titolo che richiede dedizione, impegno, disponibilità ad immergersi in un universo alternativo leggendone con attenzione le rappresentazioni offerte dalla parola. Superate le difficoltà, la ricompensa è un’esperienza come poche nel gaming moderno: totalmente aliena e spesso finanche indecifrabile, eppure proprio per questo così ammaliante.

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La pochezza del motore non deve, però, oscurare i meriti degli artisti del team: gli scenari semi-statici di Torment hanno infatti un fascino tutto loro, dotati come sono della facoltà di catapultare il giocatore direttamente in una copertina di un romanzo di fantascienza pulp degli anni ’70, esprimendosi per mezzo di colori sgargianti e architetture eccentriche. Le locazioni più avanzate del gioco vantano morfologie bizzarre e inventive, a metà fra le opere di Jack Vance e la Guida Galattica per Autostoppisti, il tutto mentre gli arrangiamenti musicali di Mark Morgan sottolineano con uno stile a metà fra il sintetizzato e l’orchestrale l’anormalità di un mondo che fa del sense of wonder la sua stessa ragion d’essere.

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Il talento dei designer non si limita però ai meri orpelli scenografici: in fondo, parliamo di un gioco di ruolo classico con quest e subquest. In Torment, sia le prime che le seconde sono piacevolmente contraddistinte da una vasta gamma di scelte che è possibile compiere nel corso delle stesse, e se è pur vero che il numero di sottotrame non è elevatissimo, è anche frequentemente possibile notare come esse si intreccino a vicenda in più di una, piacevole occasione. Genericamente parlando, ogni contenuto principale e secondario del gioco mette a disposizione più modi per essere portato a termine, proponendo sempre un’ampia gamma di esiti differenti in base alle disposizioni del nostro personaggio, a sottolineare la flessibilità di un sistema di creazione e sviluppo che offre una grande varietà di talenti e capacità sviluppabili, che vanno dalla rapidità di mano alla persuasione, per arrivare persino alla capacità di ricordare eventi vissuti nei panni del Dio Mutevole - che il titolo stesso chiama una “anamnesi”, intesa nella concezione classicamente platonica del termine. Tali capacità sono raggruppate in tre macro-categorie, Forza, Velocità e Intelletto, e ogni personaggio del gioco dispone di un certo numero di punti assegnati ad ognuna di queste, che devono essere spesi per aumentare le probabilità di riuscire in una determinata azione, che si tratti di ingannare un mercante o cercare di colpire un nemico.
 

 
Tale sistema, quantunque in principio leggermente confusionario, è capace, una volta superate le primissime ore di gioco, di offrire una ricchissima flessibilità di approcci atti alla risoluzione delle varie situazioni che il giocatore si trova ad affrontare. Non si tratta di fare min-maxing prendendo la combinazione più soddisfacente di abilità, né di presumere per partito preso che un determinato esito di una particolare vicenda sia necessariamente il migliore sul piano morale e pratico: in Torment, ogni personaggio, ogni Last Castoff che è possibile immaginare, dal guerriero più ottuso all’incantatore più affabile, ha una propria ragione di essere, e non capita di rado che il fallimento di un’azione o persino la morte in battaglia produca esiti anche più vantaggiosi rispetto all’eventuale successo. Che si decidi di utilizzare il bastone o la carota, però, Torment sa sempre regalare un appropriato feedback grazie all’utilizzo delle Tides, un sistema di moralità sfaccettato e dissimile dalle ideologie assolutistiche bene/male spesso propugnate dalla concorrenza: le cinque Tide coprono una pluralità di filosofie e attitudini di vita, che spaziano dalle inclinazioni introspettive della Blu alla pura emotività della Rossa, passando per il senso di legge e ordine della Viola, e così via. Ogni Tide può piegarsi fino ad assumere connotazioni sia positive che negative, e lungi dall’essere una meccanica di gameplay fine a sé stessa, rappresentano nell’universo di Numenera forze psichiche capaci di influenzare il tessuto stesso della realtà.

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Nonostante i fiumi di parole, anche in Torment si può scegliere l’approccio più guerrafondaio, all’occorrenza. Il combat system è imperniato su un classico sistema a turni vagamente ispirato ai più recenti XCOM, ma senza il sistema di coperture, abbandonando quindi il “real-time-with pause” che aveva contraddistinto Planescape come i seminali titoli basati sul vetusto Infinity Engine. Ma anche tali incontri-scontri, fedeli all’orientamento “dialettico” di Torment, offrono diverse possibilità in base alla mentalità del giocatore: nel caso, infatti, non si riesca ad evitare di sguainare la spada, è spesso (ma non sempre) disponibile un certo numero di opzioni tese a rendere gli scontri qualcosa di più che un semplice spargimento di sangue. Già la prima “crisi” – questo il nome del singolo combattimento nel gioco – presenta l’opportunità di terminare lo scontro prima del tempo uccidendo il leader nemico e demoralizzando così gli avversari, intimidire lo stesso costringendolo alla fuga, oppure sfruttare le proprie conoscenze di meccanica per rivolgere gli antichi meccanismi che costellano l’arena contro i nemici. Non tutti gli scontri di Torment offrono, sfortunatamente, tale molteplicità di tattiche. Che il titolo, poi, non si concentri sull’aspetto marziale dell’esperienza è cosa assodata fin da subito, sbilanciato com’è verso i personaggi più dialettici a discapito di quelli più portati al combattimento, e la semplicità di meccaniche di quest’ultimo, nonché la bassa difficoltà generale dell’avventura, porta di frequente a preferire la soluzione pacifica. In fondo, l’orientamento di Torment tende più verso un romanzo interattivo che verso un gioco di ruolo tradizionalmente inteso.
 
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I tagli menzionati in apertura all’articolo sono, nonostante l’abbondanza di testi e contenuti, tuttavia presenti. È facile notare, infatti, come i propri compagni di avventura, cinque in totale, siano stati svantaggiati dalle rimozioni effettuate da InXile: lo si denota dalla mancanza di interazioni significative con gli stessi, dalla relativa semplicità delle loro personalità che impallidisce in confronto a quella di certi NPC. Un paio di loro possono forse godere di un approfondimento psicologico meglio costruito, ma i companions rappresentano, a conti fatti, uno dei punti deboli di Torment, ed è senza dubbio un peccato se si tengono in considerazione gli individui che componevano il party del Planescape originale, casi umani originali e stravaganti eppure capaci di generare empatia.

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Giunti a questo punto, arriva la domanda fatidica: Torment: Tides of Numenera riesce ad eguagliare l’illustre e osannato predecessore? Difficile dirlo. Lo stesso originale Planescape acquisì la venerazione di cui gode ancora oggi solo dopo un lungo periodo di limbo, tra passaparola e compravendita nel mercato dell’usato. Ciò che possiamo affermare qui e ora è che Tides of Numenera è un cavallo di razza nel panorama moderno del videogioco. Ermetico, arduo da decifrare, racchiude in sé una scala di significati filosofici e morali inapprezzabili da chi, magari, cerca un’esperienza più diretta e guidata, se vogliamo più tradizionale. Chi avrà la pazienza di svelare i significati reconditi dietro il writing aulico e volutamente oscuro, scoprirà una ricchezza narrativa che è assai rara in un videogioco; un'opera di rara caratura, che osa oscillare fra dissertazione sull’etica, trattato sul valore dell'identità e immaginifico viaggio personale.