Tomb Raider I-III Remastered - Recensione

L'icona degli anni '90 ritorna con le sue prime avventure in versione rimasterizzata

di TWINKLE

È curioso, di come si assista, nel corso degli anni, a corsi e ricorsi storici, di riscoperte e di rivalutazioni, e in tal senso la saga di Tomb Taider è un caso emblematico. Nel 2003, dopo il disastroso sviluppo di Angel of Darkness, Core Design fu fatta fuori senza tanti complimenti da Eidos, privando il team artefice della serie della possibilità di un’altra occasione, nella fattispecie un previsto remake per PSP del primo capitolo, concettualmente simile a questi nuovi remaster, più che a ciò che sarà poi Anniversary. La struttura è vecchia e gli inglesi non sono più al passo coi tempi, era ciò che emergeva, il testimone passa quindi agli americani Crystal Dynamics, che con l’eccezionale Legacy of Kain: Soul Reaver avevano dimostrato il loro talento nella realizzazione di avventure tridimensionali, portando il genere su un nuovo livello. Nel 2008 la storia si ripete, Tomb Raider Underworld perde il confronto con il nuovo che avanza, che risponde al nome di Nathan Drake, sparatorie e spettacolari inseguimenti divengono la formula vincente per un’avventura dinamica di nuova concezione cinematografica, dunque nuovo reset e nuovo riavvio con il Tomb Raider del 2013, con Eidos nel frattempo finita sotto l’egida di Square Enix.



Dal 2018, anno di uscita di Shadow of the Tomb Raider, ultimo della trilogia della “giovane” Lara Croft, altro è cambiato, a partire dal fatto che ora Eidos, e di conseguenza le sue proprietà intellettuali, è di nuovo passata di mano, da Square Enix a Embracer Group, realtà europea sulle cui vicissitudini finanziare forse è meglio sorvolare, anche se è difficile non pensare al momento che sta passando l’industria occidentale dei videogiochi. In attesa di scoprire cosa ci riserverà il futuro di Lara Croft, Eidos o chi per lei decide di rispolverare le sue prime avventure, con un’operazione di recupero non troppo dissimile da quanto fatto con i coevi Crash Bandicoot o il Medievil di Sony, attuando un processo di lifting grafico premunendosi di mantenere però fedeltà alla struttura di gameplay originale.
Intitolazione a parte, in questi casi il confine tra remaster e remake si fa labile, poiché laddove le rimasterizzazioni dovrebbero in teoria limitarsi a rimasterizzare, per l’appunto, la qualità audiovisiva, alzando risoluzione, frame rate e via di questo passo, mettendo poco o nulla mano alla grafica di gioco (vedasi la recente Metal Gear Solid Master Collection), per la Tomb Raider I-III Remastered il team incaricato, ossia Aspyr, ha eccome effettuato modifiche estetiche, tra nuovi modelli poligonali, texture aggiornate ed effetti di luce alieni ai giochi originali, al che sarebbe più corretto coniare il termine “Enhanced Remaster”, come nel caso della già citata Crash Bandicoot N. Sane Trilogy, per descrivere questo tipo di operazioni. Per cui l’interrogativo sorge spontaneo, giocare Tomb Raider I-III Remastered è effettivamente come giocare i Tomb Raider originali? A chi è rivolta questa raccolta, ai soli nostalgici, ai fan della serie oppure anche ai curiosi che all’epoca della prima PlayStation neanche erano nati?



Sfatiamo innanzitutto il mito che “Tomb Raider nacque per Saturn”, se è pur vero che debuttò prima sulla console Sega, è altresì appurato che a Toby Gard, creatore del primo videogioco e della sua celebre protagonista, venne in mente il soggetto di un’avventura poligonale in seguito ad un incontro negli Stati Uniti con Ken Kutaragi nel 1994, il quale gli mostrò la PlayStation, annunciando poi a tutti, al suo ritorno negli studi di Derby, che “quello è il futuro”, con il progetto che inizia a prendere corpo poco dopo. Paul Douglas ha poi confermato la cosa su X condividendo un devkit della PlayStation, Tomb Raider è uscito un mese prima su Saturn per semplici accordi commerciali con Sega, e nulla più, dopodiché sarà Sony a strappare l'esclusiva per i due sequel. Per ritornare, comunque, al discorso di apertura, in questa epoca di revisionismo non di rado si leggono elogi, con un fare un po’ nostalgico, a questo tipo di avventura poligonale, effettivamente scomparso insieme alla generazione 32-bit, di cui fanno parte anche titoli certamente meno famosi come Deathrap Dungeon (1998), lo sfortunato Prince of Persia 3D (1999) oppure il meritevole Indiana Jones e la Macchina Infernale (1999). Questi videogiochi erano caratterizzati da un sistema di controllo, il cosiddetto “tank”, in cui è necessario far ruotare il personaggio servendosi della croce direzionale, prima di indirizzarlo verso una direzione specifica con la freccia in avanti, indubbiamente un sistema più rigido rispetto a quanto proposto da Nintendo con The Legend of Zelda: Ocarina of Time (1998), che invece fa del controllo analogico il suo fulcro. Il DualShock debutta sul mercato nel 1997, ma è solo l’anno successivo, con l’uscita di giochi del calibro di Gran Turismo, ISS Pro ‘98 e soprattutto Ape Escape (per il quale il nuovo controller diviene addirittura obbligatorio), che l’ausilio della levetta analogica diventa mainstream anche per la console Sony. Eppure, Tomb Raider, così come Resident Evil, rimane ancorato al suo sistema di controllo tank, poiché è con questo sistema che è stato strutturalmente ideato il primo capitolo del 1996; di fatto i successivi, usciti al folle ritmo annuale (al punto che i Core Design, esasperati, hanno tentato di far fuori la protagonista alla fine del IV), si sono limitati a migliorare e ampliare la formula, senza alcun tipo di stravolgimento.



Come praticamente ogni studio britannico di quel periodo trasferitosi su PlayStation, quali Psygnosis, Team17, DMA Design (futuri Rockstar), anche Core Design, prima di conoscere un’improvvisa fama mondiale, proveniva da un glorioso passato di sviluppo nella piattaforma Amiga, con l’inevitabile punto di riferimento in capolavori come Prince of Persia di Jordan Mechner, Another World di Éric Chahi e Flashback di Paul Cuisset, avventure caratterizzate da un controllo preciso, mai approssimativo, necessario per salti ordinati e rincorse calcolate al pixel. I movimenti e le animazioni di Lara Croft prendono spunto, intenzionalmente o meno, esattamente da questi predecessori, con la differenza che il tutto viene traslato in un mondo tridimensionale, con l’infarinatura della bastardaggine di Rick Dangerous (1989), il predecessore esploratore di tombe di casa Core Design. Motivo per cui, i controlli cosiddetti moderni, configurati dalla successiva trilogia Legend, inseriti in questo contesto strutturale appaiono persino più scomodi di quelli tank. Poi, se qualcuno riesce a prendere confidenza con quelli, tanto di cappello.



Laddove sul finire del 2000, anno di uscita del già stantio Chronicles, la formula di Tomb Raider era ritenuta vetusta, spremuta fin troppo e da aggiornare con l’avvento della nuova generazione, oggi è quindi possibile, dopo aver preso la mano, farsi catturare da questo approccio così geometrico all’esplorazione, queste trappole studiate in maniera squisitamente perfida, questi luoghi persi nel tempo. Lungi da me fare confronti con le successive due trilogie, sarebbe ingeneroso nei confronti degli altrettanto meritevoli Crystal Dynamics, ma evidentemente, dopo un decennio e oltre di assassini che fanno automatici parkour sui tetti e di arrampicate in cui l’eroe di turno si aggrappa automaticamente alla sporgenza più vicina, facendo battute su quanto sia faticoso, ritornare ad impersonare questa archeologa che parla poco ma è tanto forte nei filmati quanto fragile al nostro reale controllo, che muore con una facilità impressionante rendendo ogni movimento prezioso, non è poi così male. E guai a parlare di nostalgia, come troppi fanno etichettando operazioni come questa, apprezzare questi primi Tomb Raider, il loro game design tanto spartano quanto funzionale, non vuol dire per forza essere nostalgici, può significare anche ricercare, per l’appunto, un’esperienza diversa da quella moderna, non è un caso se ancora oggi la scena dei Tomb Raider Level Editor sia ancora così vivida, tra gli appassionati. Poi, intendiamoci, c'è chi davvero potrebbe commuoversi anche solo a risentire la musica del titolo, non stiamo a sindacare sulle emozioni, ma verrebbe da chiedersi: se li hai amati così tanto perché aspettare 25 anni per rigiocarli?



La Tomb Raider I-III Remastered, come ormai noto visto che questa recensione arriva con colpevole ritardo, rimodella ambienti e oggetti poligonali, corregge qualche bug storico, altri rimangono e altri ancora si palesano come nuovi, ma il fatto che sia possibile passare alla vecchia versione con la semplice pressione di un tasto attesta l’assoluta fedeltà sul materiale originale e il suo attento cromatismo. Se c'è da segnalare una differenza visiva, è che alcune zone sono più buie nella nuova versione, più volte è capitato di passare alla vecchia per "vedere meglio". Alcune ambientazioni giovano meglio di altre del lifting grafico, non stiamo qui ad elencarle così come non vale la pena disquisire su quale sia il capitolo migliore, ma in generale è TRI, per forza di cose essendo il più datato, a brillare di rinnovata luce, mentre in TRIII alcuni effetti ambientali lasciano perplessi. Presenti i doppiaggi storici italiani di TRII e III (TRI era in inglese, qui sottotitolato), in linea di massima il sonoro è rimasto lo stesso, la novità forse più allettante è la presenza dei livelli extra delle espansioni Gold, Unfinished Business, Golden Mask e Lost Artifact, prerogativa all’epoca delle riedizioni PC, ovviamente rimasterizzati anch’essi. Azzeccata la scelta di non inserire alcun tipo di salvataggio automatico, decidere dove e quando salvare fa parte dell'esperienza di Tomb Raider. Forse di più si poteva fare sul fronte degli extra, una gallery con bozzetti, filmati, interviste o scanlation d’epoca non avrebbe guastato, da questo punto di vista “documentaristico” ii pacchetto è totalmente carente ed è un peccato, anche se i giochi sono più che sufficienti a giustificarne il prezzo. Curiosamente, la versione PS4 include tre scintillanti trofei di Platino mentre quella PS5 ne è priva, in ogni caso, gli oltre 200 achievement impegneranno non poco chiunque si prefiggerà lo scopo di completarli al 100%.

Che sia con le incredibili atmosfere del primo Tomb Raider, le iconiche ambientazioni del secondo o la complessità del terzo, le prime avventure di Lara Croft hanno dato tanto e tanto altro possono dare, sia come pura esperienza di scoperta che come lezione di game design. Magari non avranno lo stesso impatto del 1996, ma il prossimo che in sede di recensione liquida semplicemente tutto questo come operazione per nostalgici dovrebbe essere gettato nel Colosseo greco tra oranghi impazziti e leoni in via di estinzione. 


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