Recensione
Metropolis
8.0/10
Il tema non è nuovo, come non lo è lo scenario apocalittico, ma Metropolis conferma l’ottimo feeling tra il cinema d’animazione nipponico e certe tematiche adulte, affatto spensierate e tradotte in un fantascientifico che non ha nulla né di ludico e né, a ben guardare, di troppo sdolcinato o “buonista”. Il film di Rintaro risulta addirittura angosciante, nella lunga sequenza pre-epilogo, a dispetto di un uso del colore che cerca fantasie assortite e rifugge lo stile gotico-dark tanto caro a questo tipo d’animazioni, ancorché dosando sapientemente la lucentezza restituita: mai veramente esibita.
Il tema principe di Metropolis, ovvero il rapporto affettivo tra umano e androide, è mutuato in maniera dolce e delicata da due capolavori del fantasy come Blade Runner e Terminator 2 (James Cameron, non a caso, ha espresso lodi entusiastiche per Metropolis), due film che insinuavano inquietanti interrogativi: può il robot, la macchina, essere programmata su registri emotivi? Può essere programmata all’empatia? All’amore? Addirittura alla filantropia, come tenta di fare con sorprendenti risultati Edward Furlog-John Connor con Arnold Shwarznegger-Terminator nel secondo episodio del gioiello di James Cameron? Terminator 2 è proprio il film che estende a macchia d’olio e che meglio restituisce dubbi, orrori e inquietudini legati al rapporto tra l’uomo e la macchina, in quanto le macchine prima distruggono e poi tornano indietro nel tempo, riprogrammate, per vegliare sul leader della futura ribellione umana. Come in Terminator e Blade Runner, anche in Metropolis risulta chiaro ed evidente il limite umano nella ricerca di contatto o quantomeno di avvicinamento all’idea di Assoluto. Tima, in effetti, è pensata come una sorta di semidio, concetto arcaico (ricordate la saga di Gilgamesh?) ma sempre fascinosamente attuale, una sorta di ponte tra cielo e terra (un tempo c’era il Pontifex, sempre nel mondo arcaico e tradizionale), tra umano e divino. Non a caso viene evocato nel film più volte lo Ziggurrat, torre dell’antica area mesopotamica, il cui emblema storico-mitologico-letterario è l’arcinota Torre di Babele, anch’essa mutuata da Tezuka come simbolo del crollo di una civiltà, della sua autodistruzione, di un’Apocalisse presentita cui l’uomo che perde la giusta distanza tra sé e le cose, nonché i concetti d’identità e alterità, principi primi della vita in comunità, è inevitabilmente destinato ad andare incontro.
Il tema principe di Metropolis, ovvero il rapporto affettivo tra umano e androide, è mutuato in maniera dolce e delicata da due capolavori del fantasy come Blade Runner e Terminator 2 (James Cameron, non a caso, ha espresso lodi entusiastiche per Metropolis), due film che insinuavano inquietanti interrogativi: può il robot, la macchina, essere programmata su registri emotivi? Può essere programmata all’empatia? All’amore? Addirittura alla filantropia, come tenta di fare con sorprendenti risultati Edward Furlog-John Connor con Arnold Shwarznegger-Terminator nel secondo episodio del gioiello di James Cameron? Terminator 2 è proprio il film che estende a macchia d’olio e che meglio restituisce dubbi, orrori e inquietudini legati al rapporto tra l’uomo e la macchina, in quanto le macchine prima distruggono e poi tornano indietro nel tempo, riprogrammate, per vegliare sul leader della futura ribellione umana. Come in Terminator e Blade Runner, anche in Metropolis risulta chiaro ed evidente il limite umano nella ricerca di contatto o quantomeno di avvicinamento all’idea di Assoluto. Tima, in effetti, è pensata come una sorta di semidio, concetto arcaico (ricordate la saga di Gilgamesh?) ma sempre fascinosamente attuale, una sorta di ponte tra cielo e terra (un tempo c’era il Pontifex, sempre nel mondo arcaico e tradizionale), tra umano e divino. Non a caso viene evocato nel film più volte lo Ziggurrat, torre dell’antica area mesopotamica, il cui emblema storico-mitologico-letterario è l’arcinota Torre di Babele, anch’essa mutuata da Tezuka come simbolo del crollo di una civiltà, della sua autodistruzione, di un’Apocalisse presentita cui l’uomo che perde la giusta distanza tra sé e le cose, nonché i concetti d’identità e alterità, principi primi della vita in comunità, è inevitabilmente destinato ad andare incontro.