Recensione
Miodio! Mettendo da parte tutti i possibili perché che potrebbero spingere alla visione del Tenkai Hen, non ti viene proprio altro da esclamare dopo la fine (?) del film. Miodio! Tuttavia, al di là dell’indecenza del film in sé, fa ancora più specie leggere alcuni degli osanna a esso rivolti. Siamo seri, su.
Ma lasciamo perdere. Anzi, sarebbe meglio lasciare perdere tutto quanto, film in primis. Non che l'universo Saint Seiya in generale sia tutta ’sta bellezza. Da un punto di vista grafico, non c’è un prodotto – uno tra le migliaia dedicati ai bronzini e compagnia briscola – degno di nota, o al massimo di una a piè di pagina. Analizzando invece le storie delle saghe, queste sono come delle equazioni tutte con gli stessi termini fissi e con la stessa soluzione: cambiano via via solo le incognite e magari qualche passaggio di poco conto. A parlare dei personaggi poi si corre il rischio di appallarsi più che a una lezione di semiotica, con tutto il rispetto per quest’ultima.
Ogni cavaliere, almeno quelli che Kurumada, nel sacro furore della sua ispirazione, ha scelto per protagonisti, è come un monolite. Nel senso, è sempre uguale a se stesso, fa sempre le stesse cose, si comporta sempre nello stesso modo e ha sempre gli stessi pensieri dal 1986, rivestendo all’infinito la parte ideata per lui 24 anni fa.
Per dire, pure ai tempi di Omero i vari dèi ed eroi erano sempre immutabili, ma lì comunque i personaggi facevano parte di un preesistente immaginario comune, erano incarnazione di altro e la loro statura mitica li innalzava a uno statuto eterno. E oltretutto d’Iliade una ce n’è.
Qui si parla di Pegasus e co., cioè di personaggi ridotti a macchiette da una reiterazione che frantuma le pelotas.
Passi, tu dici: “Ma cosa mi frega, piglio il Tenkai Hen, mi godo un po’ di robusta ultraviolenza e buonanotte”. Considerazione che funzionerebbe se il comparto tecnico e la “sceneggiatura” accompagnassero i malandati bronzini. Illusion. Per il comparto tecnico, gli autori avranno avuto a disposizione gli spiccioli avanzati dalla produzione di Hades. Se i disegni sono sbilenchi e approssimativi in tutti i campi – lunghi, medi e primi piani – e le animazioni latitano peggio di Messina Denaro, le inquadrature all’inizio sembrano azzeccate, ma poi si capisce che Yamauchi (il regista di ’sto maximum epic fail, n.d.m.) ne ha scelte tre e ci ha fatto tutto il film. Inoltre la computer grafica potrebbe causare la congiuntivite per la sua bruttezza e i colori sono campiti in maniera raffazzonata, con tra l’altro una povertà di valori chiaroscurali, anche nelle armature, imbarazzante, per chi se n’è occupato.
La “sceneggiatura” da parte sua non è pervenuta, soprattutto nei dialoghi. Cioè, per tutto il film non si fa altro che sentire i lamenti di tutti i buoni, i quali al massimo si lasciano andare a qualche canonico slancio verbale prima di essere massacrati di botte e di frignare sconnessamente. Grande da questo punto di vista è Pegasus, o meglio Ivo de Palma, che fa sfoggio della sua ineguagliabile abilità gutturale durante tutto il film.
Tutto si riduce a ciò, e il filo conduttore della “trama” segue il medesimo schema già riciclato delle saghe della serie TV. Per tornare al parallelismo matematico, le incognite del Tenkai Hen sono un’Artemide piuttosto inconsueta rispetto alla sua iconologia classica e gli “angeli” della dèa, nonché un redivivo Apollo che, nella sua qualità di divinità, fa un’apparizione finale alla deus ex machina – Ohhh!
Tutto procede secondo copione e l’articolazione dello schema, in aggiunta, è alquanto sconclusionata: si passa da un luogo a un altro senza riferimenti, è presente la solita illogicità legata alla capacità di ripresa dei bronzini e allo svolgimento dei combattimenti, e alcuni colpi di scena sono buttati così, come coriandoli.
Insomma, le uniche cose salvabili del Tenkai Hen sono i fondali, molto ispirati, evocativi e quasi surreali; la fotografia, la quale ha qualche lampo di classe; e le musiche, piacevoli e non troppo enfatiche. Tre cose, appunto. Tre. Bella Ouverture.
Ma lasciamo perdere. Anzi, sarebbe meglio lasciare perdere tutto quanto, film in primis. Non che l'universo Saint Seiya in generale sia tutta ’sta bellezza. Da un punto di vista grafico, non c’è un prodotto – uno tra le migliaia dedicati ai bronzini e compagnia briscola – degno di nota, o al massimo di una a piè di pagina. Analizzando invece le storie delle saghe, queste sono come delle equazioni tutte con gli stessi termini fissi e con la stessa soluzione: cambiano via via solo le incognite e magari qualche passaggio di poco conto. A parlare dei personaggi poi si corre il rischio di appallarsi più che a una lezione di semiotica, con tutto il rispetto per quest’ultima.
Ogni cavaliere, almeno quelli che Kurumada, nel sacro furore della sua ispirazione, ha scelto per protagonisti, è come un monolite. Nel senso, è sempre uguale a se stesso, fa sempre le stesse cose, si comporta sempre nello stesso modo e ha sempre gli stessi pensieri dal 1986, rivestendo all’infinito la parte ideata per lui 24 anni fa.
Per dire, pure ai tempi di Omero i vari dèi ed eroi erano sempre immutabili, ma lì comunque i personaggi facevano parte di un preesistente immaginario comune, erano incarnazione di altro e la loro statura mitica li innalzava a uno statuto eterno. E oltretutto d’Iliade una ce n’è.
Qui si parla di Pegasus e co., cioè di personaggi ridotti a macchiette da una reiterazione che frantuma le pelotas.
Passi, tu dici: “Ma cosa mi frega, piglio il Tenkai Hen, mi godo un po’ di robusta ultraviolenza e buonanotte”. Considerazione che funzionerebbe se il comparto tecnico e la “sceneggiatura” accompagnassero i malandati bronzini. Illusion. Per il comparto tecnico, gli autori avranno avuto a disposizione gli spiccioli avanzati dalla produzione di Hades. Se i disegni sono sbilenchi e approssimativi in tutti i campi – lunghi, medi e primi piani – e le animazioni latitano peggio di Messina Denaro, le inquadrature all’inizio sembrano azzeccate, ma poi si capisce che Yamauchi (il regista di ’sto maximum epic fail, n.d.m.) ne ha scelte tre e ci ha fatto tutto il film. Inoltre la computer grafica potrebbe causare la congiuntivite per la sua bruttezza e i colori sono campiti in maniera raffazzonata, con tra l’altro una povertà di valori chiaroscurali, anche nelle armature, imbarazzante, per chi se n’è occupato.
La “sceneggiatura” da parte sua non è pervenuta, soprattutto nei dialoghi. Cioè, per tutto il film non si fa altro che sentire i lamenti di tutti i buoni, i quali al massimo si lasciano andare a qualche canonico slancio verbale prima di essere massacrati di botte e di frignare sconnessamente. Grande da questo punto di vista è Pegasus, o meglio Ivo de Palma, che fa sfoggio della sua ineguagliabile abilità gutturale durante tutto il film.
Tutto si riduce a ciò, e il filo conduttore della “trama” segue il medesimo schema già riciclato delle saghe della serie TV. Per tornare al parallelismo matematico, le incognite del Tenkai Hen sono un’Artemide piuttosto inconsueta rispetto alla sua iconologia classica e gli “angeli” della dèa, nonché un redivivo Apollo che, nella sua qualità di divinità, fa un’apparizione finale alla deus ex machina – Ohhh!
Tutto procede secondo copione e l’articolazione dello schema, in aggiunta, è alquanto sconclusionata: si passa da un luogo a un altro senza riferimenti, è presente la solita illogicità legata alla capacità di ripresa dei bronzini e allo svolgimento dei combattimenti, e alcuni colpi di scena sono buttati così, come coriandoli.
Insomma, le uniche cose salvabili del Tenkai Hen sono i fondali, molto ispirati, evocativi e quasi surreali; la fotografia, la quale ha qualche lampo di classe; e le musiche, piacevoli e non troppo enfatiche. Tre cose, appunto. Tre. Bella Ouverture.