Recensione
A ’sto punto tanto valeva continuare sulla falsa riga del <i>1.11</i>. Se il risultato di una rielaborazione deve essere il declassamento a puro intrattenimento fracassone, allora sarebbe stato meglio rimettere insieme un’altra fetta di episodi, magari un po’ più piccola di quella fagocitata da <b>Evangelion 2.22: You Can (Not) Advance</b>, e riprogettarne soltanto l’apparato grafico, inserendo in aggiunta le solite enigmatiche piccole varianti dall’opera originaria. Invece il secondo capitolo della nuova tetralogia non è che un’apologia di se stesso, un circo di magniloquenza visiva gigantesca e ridondante che poggia su una struttura di stuzzicadenti.
Va bene, la parte tecnica è notevolissima, per una volta non spendo un casino di righe ad analizzarla in quanto è identica a quella del primo capitolo, se non per il fatto che stavolta viene risparmiato il riciclo di frame presi dalla serie e ogni immagine è stata creata ex novo. Però tutta la visione è un macello di sequenze che cercano la spettacolarizzazione a ogni costo. Tali sequenze sono intervallate da intermezzi e siparietti a volte superflui, a volte mal gestiti, nella maggior parte dei casi privi di raccordi logici con il tutto. Spesso il film procede da un’unità all’altra in maniera arbitraria, con conseguente randomizzazione del ritmo degli eventi. Nel patchwork disomogeneo della narrazione poche sono le parti, e ancora meno le scene, ben integrate e organizzate; molte delle altre, specie le battaglie, mentre il resto del film si perde in cose che, nell’economia della storia, hanno un peso ridicolo o addirittura nullo, girano a velocità doppia. È come se il lungometraggio fosse divorato dall’ansia di mostrare, un’ansia che ne anestetizza il linguaggio e ne schiaccia ogni profondità.
Difatti, è piuttosto deprimente ammetterlo, il <b>2.22</b>, il <b>Rebuild</b> in generale, per quello che ha dimostrato, non ha sensibilità. Non c’è intimismo. Non c’è poesia. Non c’è anima. Perché l’anima la danno i personaggi. E se Misato è relegata a elargitrice di qualche discorso retorico e di un paio di uscite enfatiche, se Kaji perde la sua ironia amara e ci fa per lo più la figura del piacione, se Ritsuko manco è pervenuta, e se tutti i ricordi, le conversazioni, le frasi complici tra i tre vengono meno, si perde l’umanità adulta e dolorosa dell’anime. Per di più non resta nemmeno quella adolescenziale, di umanità.
Infatti si può effettuare la riduzione dei termini di una frazione senza conseguenze, ma con le personalità non funziona. Prendi Asuka e minimizzane la problematica complessità, e i complessi: ciò che ottieni è una piattezza tristissima. Tanto valeva non metterla proprio, considerando anche lo spazio ridicolo dedicato a quello che nella serie – alla luce anche di <i>The End of Evangelion</i> – era, con Shinji, il personaggio più scandagliato e sofferto. Almeno ci sarebbe stato più spazio per Mari, la nuova children molto fuori dagli schemi, molto sciroccata, la quale non ha trovato, pure lei, spazi degni di nota.
Nella coralità raffazzonata del film, causa problemi di tempo, tutte le figure sembrano togliersi aria a vicenda e alla fine tutte ne escono sconfitte, per un motivo o per un altro. Tu diresti «Ok, però Shinji e Rei sono il centro del film». All’atto pratico sì, ma con quali conseguenze, appunto? (Per le conseguenze, vedi i due paragrafi sopra). E in ogni caso le loro stesse caratterizzazioni ne escono a pezzi non solo a confronto con quelle seriali, ma anche analizzandole senza paragoni. Personalmente ritengo avesse più senso e coerenza lo Shinji autistico e bloccato, soprattutto nell’ottica del suo sviluppo; tuttavia, pure preso a sé, il nuovo Shinji del <b>Rebuild</b> è del tutto scialbo e incomprensibile. O vive d’inettitudine relazionale-comportamentale negli approcci tentati, o all’improvviso si dispera e s’incazza se gli tolgono un compagno con il quale ha avuto solo contatti occasionali e di cui ha una conoscenza ancora più scarsa. Il perché non si capisce, in quanto la sua stasi, e personale e nei “legami affettivi”, regna imperturbabile e non giustifica tali reazioni.
Se poi passiamo a Rei, cos’è adesso se non una liceale timida e imbarazzata alle prese con la sua prima cotta? Anzi, a dirla proprio tutta, il <b>2.22</b> stesso, in moltissimi tratti, non pare un harem con al centro Shinji e nel quale pure Kaji ha una parte da spasimante? Dovrebbe comparire tra i generi d’appartenenza del film, l’harem, sul serio. La qual cosa la racconta molto lunga sulla “normalizzazione” del secondo capitolo del <b>Rebuild</b> rispetto all’opera originaria.
Andando al versante angeli il lungometraggio sta messo in maniera identica, cioè male. Quelli rimasti – perché sono ben cinque gli angeli liquidati dalla nuova sceneggiatura: una decisione acutissima – rimarcano la vocazione baroccheggiante del lungometraggio. Il loro restyling è tanto pirotecnico e superfluo da risultare fastidioso. Sul piano estetico l’unica revisione riuscita è quella di Zeruel, più affascinante e sinistro delle sua controparte seriale; quelle dei restanti tre, anzi due, perché Bardiel non ha una forma propria, scadono senza ritegno nel parossismo dell’elaborazione formale.
Purtroppo anche gli scontri tra Eva e angeli perdono di epos, chi per rapidità, chi per grandiosità esagerata, chi per ridicolaggine delle musiche. Sì, perché un brano in particolare, scelto come accompagnamento per l’epilogo della battaglia con il nono angelo, e non solo purtroppo, ammazza tutta la crudezza e la ferocia del frangente, svilendolo con la melodia allegra e con le “dolcissime” vocine bianche che lo contraddistinguono. Proprio dalla colonna sonora arriva infatti un'altra brutta mazzata, poiché da essa sono scomparsi tutti i pezzi di musica classica gestiti secondo la lezione di quel genio di <i>Kubrick</i>. Pure la OST non è quindi esente da colpe, tutt’altro, nella globale inconsistenza artistico-espressiva del lungometraggio.
Detto senza tante perifrasi, il secondo capitolo del <b>Rebuild</b> corre cercando di arraffare quanto più possibile, ma alla fine della fiera in mano non si ritrova nemmeno la metà di quello che s’è lasciato per strada. Anzi, proprio alla fine c’è il disastro assoluto, l’esondazione oltre ogni limite della volontà sensazionalistica del <b>2.22</b>: il delirio del caos. Ogni cosa è lecita per fare vedere quant’è strabiliante l’impianto scenico del film e quanto a fondo si può premere il pedale della spettacolarità. La logica di ciò cui si assiste non serve.
Il film sembra essere stato concepito seguendo questo diktat. Difatti il finale è solo l’apogeo convulsivo di un’impossibilità cognitiva dovuta all’assenza di connessione tra quello che accade e le cause per le quali accade. <i>Anno</i> sembra essere stato ossessionato dalla ricreazione di un orgasmo visuale a qualsiasi costo e come prezzo s’è venduto il suo figlio prediletto. La prostituzione di un <b>Evangelion</b> degno del peggior <i>Bay</i> gli avrà fruttato di sicuro un botto di soldi, ma se questo è ciò che conta veramente siamo alla frutta, o meglio <i>Anno</i> è alla frutta.
Così dopo cotanto <b>Evangelion 2.22</b> si entra in paranoia anche solo a pensare al terzo capitolo. Perché un luogo comune afferma: «Quando si tocca il fondo, si può soltanto risalire»; ma dice un mio amico: «Arrivati al fondo, si può sempre scavare».
Va bene, la parte tecnica è notevolissima, per una volta non spendo un casino di righe ad analizzarla in quanto è identica a quella del primo capitolo, se non per il fatto che stavolta viene risparmiato il riciclo di frame presi dalla serie e ogni immagine è stata creata ex novo. Però tutta la visione è un macello di sequenze che cercano la spettacolarizzazione a ogni costo. Tali sequenze sono intervallate da intermezzi e siparietti a volte superflui, a volte mal gestiti, nella maggior parte dei casi privi di raccordi logici con il tutto. Spesso il film procede da un’unità all’altra in maniera arbitraria, con conseguente randomizzazione del ritmo degli eventi. Nel patchwork disomogeneo della narrazione poche sono le parti, e ancora meno le scene, ben integrate e organizzate; molte delle altre, specie le battaglie, mentre il resto del film si perde in cose che, nell’economia della storia, hanno un peso ridicolo o addirittura nullo, girano a velocità doppia. È come se il lungometraggio fosse divorato dall’ansia di mostrare, un’ansia che ne anestetizza il linguaggio e ne schiaccia ogni profondità.
Difatti, è piuttosto deprimente ammetterlo, il <b>2.22</b>, il <b>Rebuild</b> in generale, per quello che ha dimostrato, non ha sensibilità. Non c’è intimismo. Non c’è poesia. Non c’è anima. Perché l’anima la danno i personaggi. E se Misato è relegata a elargitrice di qualche discorso retorico e di un paio di uscite enfatiche, se Kaji perde la sua ironia amara e ci fa per lo più la figura del piacione, se Ritsuko manco è pervenuta, e se tutti i ricordi, le conversazioni, le frasi complici tra i tre vengono meno, si perde l’umanità adulta e dolorosa dell’anime. Per di più non resta nemmeno quella adolescenziale, di umanità.
Infatti si può effettuare la riduzione dei termini di una frazione senza conseguenze, ma con le personalità non funziona. Prendi Asuka e minimizzane la problematica complessità, e i complessi: ciò che ottieni è una piattezza tristissima. Tanto valeva non metterla proprio, considerando anche lo spazio ridicolo dedicato a quello che nella serie – alla luce anche di <i>The End of Evangelion</i> – era, con Shinji, il personaggio più scandagliato e sofferto. Almeno ci sarebbe stato più spazio per Mari, la nuova children molto fuori dagli schemi, molto sciroccata, la quale non ha trovato, pure lei, spazi degni di nota.
Nella coralità raffazzonata del film, causa problemi di tempo, tutte le figure sembrano togliersi aria a vicenda e alla fine tutte ne escono sconfitte, per un motivo o per un altro. Tu diresti «Ok, però Shinji e Rei sono il centro del film». All’atto pratico sì, ma con quali conseguenze, appunto? (Per le conseguenze, vedi i due paragrafi sopra). E in ogni caso le loro stesse caratterizzazioni ne escono a pezzi non solo a confronto con quelle seriali, ma anche analizzandole senza paragoni. Personalmente ritengo avesse più senso e coerenza lo Shinji autistico e bloccato, soprattutto nell’ottica del suo sviluppo; tuttavia, pure preso a sé, il nuovo Shinji del <b>Rebuild</b> è del tutto scialbo e incomprensibile. O vive d’inettitudine relazionale-comportamentale negli approcci tentati, o all’improvviso si dispera e s’incazza se gli tolgono un compagno con il quale ha avuto solo contatti occasionali e di cui ha una conoscenza ancora più scarsa. Il perché non si capisce, in quanto la sua stasi, e personale e nei “legami affettivi”, regna imperturbabile e non giustifica tali reazioni.
Se poi passiamo a Rei, cos’è adesso se non una liceale timida e imbarazzata alle prese con la sua prima cotta? Anzi, a dirla proprio tutta, il <b>2.22</b> stesso, in moltissimi tratti, non pare un harem con al centro Shinji e nel quale pure Kaji ha una parte da spasimante? Dovrebbe comparire tra i generi d’appartenenza del film, l’harem, sul serio. La qual cosa la racconta molto lunga sulla “normalizzazione” del secondo capitolo del <b>Rebuild</b> rispetto all’opera originaria.
Andando al versante angeli il lungometraggio sta messo in maniera identica, cioè male. Quelli rimasti – perché sono ben cinque gli angeli liquidati dalla nuova sceneggiatura: una decisione acutissima – rimarcano la vocazione baroccheggiante del lungometraggio. Il loro restyling è tanto pirotecnico e superfluo da risultare fastidioso. Sul piano estetico l’unica revisione riuscita è quella di Zeruel, più affascinante e sinistro delle sua controparte seriale; quelle dei restanti tre, anzi due, perché Bardiel non ha una forma propria, scadono senza ritegno nel parossismo dell’elaborazione formale.
Purtroppo anche gli scontri tra Eva e angeli perdono di epos, chi per rapidità, chi per grandiosità esagerata, chi per ridicolaggine delle musiche. Sì, perché un brano in particolare, scelto come accompagnamento per l’epilogo della battaglia con il nono angelo, e non solo purtroppo, ammazza tutta la crudezza e la ferocia del frangente, svilendolo con la melodia allegra e con le “dolcissime” vocine bianche che lo contraddistinguono. Proprio dalla colonna sonora arriva infatti un'altra brutta mazzata, poiché da essa sono scomparsi tutti i pezzi di musica classica gestiti secondo la lezione di quel genio di <i>Kubrick</i>. Pure la OST non è quindi esente da colpe, tutt’altro, nella globale inconsistenza artistico-espressiva del lungometraggio.
Detto senza tante perifrasi, il secondo capitolo del <b>Rebuild</b> corre cercando di arraffare quanto più possibile, ma alla fine della fiera in mano non si ritrova nemmeno la metà di quello che s’è lasciato per strada. Anzi, proprio alla fine c’è il disastro assoluto, l’esondazione oltre ogni limite della volontà sensazionalistica del <b>2.22</b>: il delirio del caos. Ogni cosa è lecita per fare vedere quant’è strabiliante l’impianto scenico del film e quanto a fondo si può premere il pedale della spettacolarità. La logica di ciò cui si assiste non serve.
Il film sembra essere stato concepito seguendo questo diktat. Difatti il finale è solo l’apogeo convulsivo di un’impossibilità cognitiva dovuta all’assenza di connessione tra quello che accade e le cause per le quali accade. <i>Anno</i> sembra essere stato ossessionato dalla ricreazione di un orgasmo visuale a qualsiasi costo e come prezzo s’è venduto il suo figlio prediletto. La prostituzione di un <b>Evangelion</b> degno del peggior <i>Bay</i> gli avrà fruttato di sicuro un botto di soldi, ma se questo è ciò che conta veramente siamo alla frutta, o meglio <i>Anno</i> è alla frutta.
Così dopo cotanto <b>Evangelion 2.22</b> si entra in paranoia anche solo a pensare al terzo capitolo. Perché un luogo comune afferma: «Quando si tocca il fondo, si può soltanto risalire»; ma dice un mio amico: «Arrivati al fondo, si può sempre scavare».