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Una realtà artefatta nasce dalla voglia d’idealizzare i fenomeni sovraesponendone alcuni aspetti, tipo l’eleganza e la poesia, o ricreandoli di sana pianta. Veicolata in rappresentazione, un’operazione del genere inscena l’illusione e dell’immagine originale sviluppa una caricatura. E se non la si porta all’eccesso, consapevoli della finzione con la quale si dovrebbe giocare, la costruzione finisce per prendersi sul serio, e diventa patetica. Ma non diciamolo a Yoko Matsushita. Non si sa mai cosa può succedere a fare crollare le case delle bambole con cui si trastullano – trastullando anche il loro pubblico – alcuni autori.

A onor di cronaca, il pubblico è costituito da ragazze e i balocchi sono tutti gli efebi effeminati di cui è costellato Yami no Matsuei. D’altronde la sublimazione di una determinata inclinazione sessuale, e a fortiori dei gay, è parte integrante di quel surrogato del reale di cui sopra. Difficile trovare una contestualizzazione comportamentale più leziosa di quella ricamata nell’anime. Si osserva un gioco manierato di sguardi, patemi, sussulti e desideri più o meno morbosi al quale manca solo il linguaggio ‘sospirante’ per toccare il clou. Ogni aspetto, su tutti quello tecnico – bello laccato, come da copione –, è subordinato a un’unica idea: stimolare la produzione di estrogeni.

Contenere gli eccessi è una proposizione sconosciuta alla maggioranza degli scrittori giapponesi. Così la stronzata più inutile dell’animazione, il fanservice, anziché fungere al massimo da merletto, diventa substrato del nulla cosmico – tanto la sceneggiatura è un pretesto, quindi un accidente. S’inscena un’omosessualità da feuilleton, la si fa calare a mo’ di spirito santo su ogni modello del circondario e viene sforato anche il bonus di boiate narrative. All’apparizione del cane dell’ENI la misura è colma.
Non è una questione di omofobia, ma di opportunità. Trasporre il manga di Yami no Matsuei, sospeso per ovvi motivi direi, cui prodest: soltanto alle fantasie femminili, masturbate con un mondo checca patinato quanto Vanity Fair.