Recensione
Audition
3.0/10
Recensione di Franzelion
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Ho sempre ritenuto che i Giapponesi nelle loro opere siano intellettualmente onesti, ovvero che se scelgono di creare una storia profonda, sperimentale o da interpretare, avranno un loro perché, avranno cioè le carte in regola per stilare un'opera effettivamente profonda e narrativamente coerente. Questo è quello che ho sempre pensato. Fin quando non ho conosciuto Takashi Miike con "Audition" (e non solo, purtroppo).
Infatti io adoro film complessi ed ermetici come "Strange circus", "2001: Odissea nello spazio", "Eraserhead", "Donnie Darko", "Suicide club". Li adoro perché in questi film è chiaro che il regista ha un messaggio (o anche solo una "sensazione") che vuole trasmettere allo spettatore, e le situazioni, anche se apparentemente bizzare, trovano sempre un loro perché nella libera interpretazione e nelle emozioni che suscitano.
Qui no. "Audition" è il perfetto esempio di come non si dovrebbe fare un film ermetico: comincia in un modo, continua in un altro, e finisce in un altro ancora. Prologo, svolgimento ed epilogo sono totalmente sconnessi sia dal punto di vista logico sia da quello interpretativo sia da quello concettuale.
Detto terra terra: non c'è interpretazione che tenga a tutte quelle scene che vengono gettate alla rinfusa in un disordinato ordine temporale. O magari ci sarebbe potuta essere, non ci voleva molto, ma il nostro Miike preferisce concludere con una morale sì accettabile, ma allo stesso tempo banalotta e frivola (sembra detta da una tipica adolescente frustrata), che non riesce a tenere in piedi tutto il resto del film, il cui intreccio (?) va a farsi benedire.
Inizialmente sembra che il film voglia far comprendere la solitudine a cui è destinato l'essere umano. Sarebbe stato un bel messaggio da portare avanti, invece poi il lungometraggio prende un'altra strada con risultati insignificanti, nel senso più vuoto del termine. Un messaggio finale simile sarebbe anche potuto andare bene, ma cosa c'azzecca con la struttura di questo film?
La verità è che a Miike piace trollare lo spettatore, e i suoi poveri fan, che idolatrano questo film solo perché è di Miike - vorrei vedere se fosse di un regista sconosciuto come la penserebbero - non se ne sono ancora accorti. Ma io sì, e a rafforzare la mia tesi c'è una scena totalmente assurda e impossibile del suo film "Phoenix Wright", tratto da un videogioco; posso appunto dire che non ha senso perché ho giocato al videogioco, la cui storia è fedelmente (con qualche taglio) riportata nel film.
Insomma, il regista ci trova gusto a prendere per i fondelli lo spettatore medio. Ma io non ci casco. Questo film non merita la minima attenzione (a meno che siate amanti del trash), né è degno di qualsiasi riconoscimento artistico.
Ah, quasi dimenticavo: dopo una prima pessima impressione, ho deciso di dargli una seconda possibilità, come faccio sempre con titoli ritenuti ermetici e acclamati da molti. Così l'ho rivisto sapendo a cosa andavo incontro e cercando di guardarlo da un altro punto di vista. Risultato? Peggio della prima volta: il solito Miike, quindi il solito film enormemente sopravvalutato.
Infatti io adoro film complessi ed ermetici come "Strange circus", "2001: Odissea nello spazio", "Eraserhead", "Donnie Darko", "Suicide club". Li adoro perché in questi film è chiaro che il regista ha un messaggio (o anche solo una "sensazione") che vuole trasmettere allo spettatore, e le situazioni, anche se apparentemente bizzare, trovano sempre un loro perché nella libera interpretazione e nelle emozioni che suscitano.
Qui no. "Audition" è il perfetto esempio di come non si dovrebbe fare un film ermetico: comincia in un modo, continua in un altro, e finisce in un altro ancora. Prologo, svolgimento ed epilogo sono totalmente sconnessi sia dal punto di vista logico sia da quello interpretativo sia da quello concettuale.
Detto terra terra: non c'è interpretazione che tenga a tutte quelle scene che vengono gettate alla rinfusa in un disordinato ordine temporale. O magari ci sarebbe potuta essere, non ci voleva molto, ma il nostro Miike preferisce concludere con una morale sì accettabile, ma allo stesso tempo banalotta e frivola (sembra detta da una tipica adolescente frustrata), che non riesce a tenere in piedi tutto il resto del film, il cui intreccio (?) va a farsi benedire.
Inizialmente sembra che il film voglia far comprendere la solitudine a cui è destinato l'essere umano. Sarebbe stato un bel messaggio da portare avanti, invece poi il lungometraggio prende un'altra strada con risultati insignificanti, nel senso più vuoto del termine. Un messaggio finale simile sarebbe anche potuto andare bene, ma cosa c'azzecca con la struttura di questo film?
La verità è che a Miike piace trollare lo spettatore, e i suoi poveri fan, che idolatrano questo film solo perché è di Miike - vorrei vedere se fosse di un regista sconosciuto come la penserebbero - non se ne sono ancora accorti. Ma io sì, e a rafforzare la mia tesi c'è una scena totalmente assurda e impossibile del suo film "Phoenix Wright", tratto da un videogioco; posso appunto dire che non ha senso perché ho giocato al videogioco, la cui storia è fedelmente (con qualche taglio) riportata nel film.
Insomma, il regista ci trova gusto a prendere per i fondelli lo spettatore medio. Ma io non ci casco. Questo film non merita la minima attenzione (a meno che siate amanti del trash), né è degno di qualsiasi riconoscimento artistico.
Ah, quasi dimenticavo: dopo una prima pessima impressione, ho deciso di dargli una seconda possibilità, come faccio sempre con titoli ritenuti ermetici e acclamati da molti. Così l'ho rivisto sapendo a cosa andavo incontro e cercando di guardarlo da un altro punto di vista. Risultato? Peggio della prima volta: il solito Miike, quindi il solito film enormemente sopravvalutato.