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"Kimochi warui", citando la celeberrima sentenza a chiusura di ciò che già tradiva l'allontanamento dalla felice contingenza che fu l'"Evangelion" del '95-96, in ciò si potrebbe concentrare l'estenuata baraonda di pallide emozioni che sorgono nel visionare l'agonizzante trascinamento di un titolo tanto fulgido quanto controverso, impenetrabile ai più, anzitutto al suo padre artistico.
Prima d'equivocare, non è risentimento a muovere le parole di chi scrive, né il disinganno nel vedere caduta un'ingenua speranza d'assistere alla messa in scena di un'opera equiparabile all'originale, bensì l'amarezza nel vedere il pavido spirito dell'animazione orientale ripararsi dietro la lievità d'animo del grande pubblico e le sue piccole pretese.
De vanitate, la scena terza d'un sin troppo prolisso preludio, un'inappropriata ed estenuante parodo che tanti anni ha impiegato a far entrare in orchestra un coro sin troppo banale, di caratteri accennati, vivi della sola reminiscenza delle loro controparti del '95, che con tanto trambusto ha accompagnato in scena un protagonista timido e impacciato, apatico e distante, ben lungi dalla grande umanità di cui l'originale Shinji aveva saputo farsi portavoce.
Non sarebbe tuttavia corretto, né tanto meno il titolo in questione ne sarebbe meritevole, confrontare puntualmente quest'opera, che appare chiaramente un lavoro originale e che devia tanto bruscamente quanto infelicemente dallo spirito originario di "Evangelion", con quest'ultimo; nondimeno, per comodità di analogia, porrò costanti paragoni proprio con il primigenio eponimo, per chiarezza d'esposizione, pur potendo rinviare a qualsivoglia altra opera d'elevato valore ed eccellente strutturazione.

Ecco dunque cosa ci troviamo a considerare volgendoci al terzo capitolo dei "Rebuild", al contempo il più grande difetto che l'unica salvezza che scampi questo titolo dalle disamine più feroci: una storia semplice, leggera, che non ha presunzioni se non di dipingere per lunghe pennellate oscuri sottofondi politici. Questo relegamento di "Evangelion" all'ambito denotativo è il grande rifiuto di Anno, il diniego all'ardire di ergersi sulle alte e impervie vette dell'arte, la rinuncia ad affrontare qualsiasi istanza conflittuale, in definitiva la grande paura di far scontento il suo capriccioso mecenate, il grande pubblico.
Una semplice storia, s'è detto, ove al fastoso trionfalismo del secondo capitolo s'è sostituita una forsennata corsa ai ripari che ripiega sull'estremo opposto: un minimalismo che va a pieno detrimento della totalità dell'intero progetto, nel quale Shinji resta l'unico personaggio di scena, spaesato in un mondo irriconoscibile e accompagnato dal rapido scorrere delle figure secondarie, che persistono solo in forza dell'eco della serie originaria ancora possente negli ascoltatori, ormai deperite psicologicamente e scarne spiritualmente, grottesche ombre di ciò che furono.
I toni sono tutti ridimensionati e scemano verso il pianissimo, fallendo però nell'ambizione di rievocare l'abissale delicatezza del patimento esistenziale che si distendeva sulle tediose giornate del primo Shinji di Neo-Tokyo 3. D'altro canto è ben difficile scrutare nelle profondità dell'animo umano stanti le premesse dei due lungometraggi precedenti, dove nulla s'è fatto per dare spessore al giovane.
Sull'altro versante, l'alienazione, altrettanta è la dismisura, ma in verso contrario: portata al parossismo estremo, in una tensione annichilente, non trova motivazioni adeguate nell'irrealistica psiche di Shinji.

Considerando anzitutto le figure secondarie, ben rapidamente si concluderebbe la trattazione. Asuka, improbabilmente scampata al dominio di Plutone e la signorina Misato, silenziosa e collerica effige, sono ambedue degradate dalle luci del proscenio, nel quale recitavano le altre due componenti del terzetto di protagonisti nel '95, al ruolo di comparse, che ben poco hanno a incidere su un corso di eventi che per meccanica consequenzialità impressa dal motore registico si fa beffe di coerenza e spontaneità.
Per quanto concerne la bella Rei, se nel secondo capitolo s'era decisamente intrapresa l'esiziale via della sua umanizzazione, ora la personalità le viene prontamente sradicata, eccedendo però in tale versante senza sapere e probabilmente nemmeno curandosi di correre ai ripari, lasciando non la problematica ed eterea fanciulla in grado d'affascinare i più pur nella sua vuotezza caratteriale, alla quale venivano affidati i due monologhi sulla definizione dell'identità, bensì un guscio che ancora più radicalmente della terza Rei è crollato nell'aporia più completa, incapace di compiere alcun passo, priva di volizione, dubbi e della minima possibilità di sviluppare empatia, un corpo che viene in modo aleatorio trascinato sul palco nel corso dell'azione.
Giungiamo a Kaworu, il personaggio dei celeberrimi tredici minuti più possenti della serie originaria. E' anzitutto da notare che si è rivelata felice, e anzi obbligata, la scelta di lasciargli ben poca presenza scenica, sì da non spingere eccessivamente gli spontanei e severissimi paralleli che chiunque avrà sollevato fra i due. Un Kaworu che ha così poco da dire, perché non molto ha per agire, la cui gnomica è ben semplificata e la cui presenza è poco incisiva, non riuscendo a scrollarsi di dosso il suo glorioso antesignano né osandone superare il passo, calcando piuttosto, spesso testualmente in un profuso citazionismo, quanto quest'ultimo sentenziava soavemente sulle vie dell'umanità e le possibilità della felicità. In conseguenza di tale timore reverenziale, la sua azione risulta una delle tante voci che non danno giustificazione all'implacabile penna dello sceneggiatore né al tirannico verbo del regista, e la sua uscita di scena appare l'ovvia conseguenza dell'insopprimibile anánke che grava su di lui, la quale, splendidamente intuibile, avrebbe potuto ben dare adito a un tragico avvicendarsi contro le maglie del fato o a un'ineluttabile e romantica dannazione al mondo. Nulla di tutto ciò, nemmeno la virtuosa rassegnazione del Kaworu dell'episodio 24°, bensì l'esistenza del giovane viene divorata dallo scorrere dei fotogrammi, che impassibili quanto il pubblico assistono alla sua dissoluzione da tutti attesa.
Le restanti comparse non meritano alcuna attenzione, come per altro non la meritavano le succitate figure, eccezion fatta per Kaworu.

Resta così Shinji, assurto a protagonista esclusivo, chiuso letteralmente in un mondo di sé solo, per citare la signorina Misato nell'episodio 25°, che tuttavia non ha più quell'umanità che permetteva al pubblico di sviluppare fortemente empatia con il giovane, che nell'episodio successivo sarebbe assurto a modello generalissimo dell'essere umano. Oramai Shinji è un caso particolare, sbozzato grossolanamente, il tipico protagonista di un'opera d'animazione ben mediocre, che lascia assai a desiderare nella componente psicologica, abbandonato in un mondo d'alienante desolazione che tuttavia è troppo profonda e impetuosa perché egli vi si possa immergere senza essere scaraventato a riva dai suoi spietati flutti. Insomma, Shinji è un protagonista inappropriato al suo contesto e a qualsiasi speculazione ulteriore.
Infine, l'intera opera si regge sul riverbero dell'eco del nome dannato ed eccellentissimo di "Evangelion" e solo su questo regge i suoi gracili arti, mancando al contempo sia di una solida impalcatura narrativa sia della possibilità, come nell'originale, di disfarsi completamente di una qualsivoglia trama in vista della pura speculazione. Ecco dunque che i personaggi sono ormai ombre estenuate, carcasse che si trascinano per costrizione nella recitazione, tanto che più nulla hanno da dire, donde le diffuse afasie, rotte da locuzioni ben poco memorabili, perché ormai già tutto è stato detto.

In tutto ciò, avendo ripiegato lungi da qualsiasi sperimentalismo o virtuosismo estetico nella confortante culla della storia semplice, la mano di Anno riesce pur sempre delicata e precisa, colmando questa vuotezza con un'oculata direzione, salvo le avvilenti cadute stilistiche, quali inutili decine di minuti di combattimenti a mostrare la spasmodica cura che la Khara ha operato, un discutibile utilizzo dei fondi dello studio.
Altra e anzi massima pecca è l'incapacità di volgere a proprio favore l'imperante istanza anticipatrice che domina il lungometraggio, sorta dalla rievocazione di un'icona quale Kaworu. Nondimeno nessun páthos sorge in petto a chi assista all'ineluttabile intessersi di una vicenda già vista, ben lungi da qualsiasi aristotelici pietà e terrore cui il moto tragico dovrebbe muovere.
Ma tutto ciò vale certamente pure per coloro i quali, loro malgrado, s'avvicinassero per la prima volta a "Evangelion" tramite questa parodia, perché i personaggi in scena sono irraggiungibili emotivamente e rigidi nel dipanarsi dell'azione, incapaci di far patire con loro gli spettatori.
Concludendo, eccezionalmente a onore del terzo "Rebuild" va l'inaspettata onestà rivelata da Anno, che finalmente abbassa potentemente il tiro e rinuncia ai perniciosi paralleli con l'originale del '95, in vista, per l'appunto, di una storia convenzionale e scevra di sperimentalismi, sebbene questi siano solo i primi passi mossi in tale direzione e il capitolo si presenti tuttora come un titubante cittadino di due mondi, teso alle gesta gloriose del passato ormai solo nelle lampanti citazioni, ma decisamente incamminato verso un futuro genuinamente nuovo, donde discende il carattere fortemente disarmonico dell'opera.

Il terzo capitolo dei "Rebuild" risulta ben arduo da valutare compiutamente, allacciandosi da un lato ai due episodi precedenti nel chiudere il prologo della vicenda, ma, dall'altro lato, pienamente troncato dalla sua continuazione nella conclusione della tetralogia, ben più saldo nella tensione verso quest'ultima di quanto fossero forti i nessi fra i precedenti.
Da quanto detto cagiona il mio giudizio, in conclusione estremamente e, anzi, immeritatamente benevolo verso questo titolo, l'ennesima manifestazione della protervia e della vanità di Anno, un capitolo, a conti fatti, inutile nella sua gran parte, riducibile a un quarto d'ora di effettiva progressione, l'ultimo mezzuccio della magistrale strategia economica dello studio, ma forse anche le prime note di un requiem aeternam che finalmente lasci riposare ciò che fu "Evangelion" negli episodi 25°-26°, libero ormai dalle ricuse dell'eredità lasciataci.