Recensione
Il mio vicino Totoro
8.0/10
"Tonari no Totoro" (1988) è un'opera che fa della sua semplicità il proprio punto di forza. Non possiede una trama elaborata e riesce comunque a risultare godibile.
Satsuki e Mei si devono trasferire assieme al padre in un paesino di campagna, per assistere più da vicino la madre, ricoverata in ospedale.
I primi 20 minuti di film sono pura ambientazione dei personaggi e sfoggio registico di paesaggi meravigliosi, che però non fanno progredire la trama.
Con impassibile calma, Miyazaki utilizza le due sorelline come uno strumento per aprire le porte della fantasia allo spettatore.
Nell'entrata in scena di Totoro e degli spiritelli avviene una netta separazione dei mondi e una sospensione della realtà attuale, ed è qui che si può godere pienamente della malinconia e della purezza che può suscitare questo film.
Lo studio Ghibli pone particolare attenzione a questi rilevanti momenti, grazie sia all'abile regia sia al supporto delle musiche di Joe Hisashi, le quali si fondono con il mood e seguono perfettamente la linea emotiva del film.
La poca presenza di dialoghi favorisce il clima introspettivo, che dà il meglio di sé nelle scene oniriche.
La figura di Totoro merita un discorso a parte. Esteticamente esso ha un aspetto imponente e nello stesso tempo pigro e assonnato, che lo rendono simpatico - non per niente è stato scelto come mascotte e logo dello Studio.
Trovo inoltre corretta la scelta di non farlo parlare giapponese, evidenzia il distacco tra umano e spirito, e questa incapacità di comunicazione lo rende imprevedibile.
Se nelle prime apparizioni si concentra sulla semplice presenza, con lo sviluppo della trama diventerà un punto di riferimento.
Il suo aiuto si rivelerà fondamentale a sceneggiatura inoltrata, dove verranno sviluppati temi più seri, quali la crescita e la paura della perdita, che si concretizzeranno in un finale coerente con tutto ciò visto in precedenza.
Anche la figura del Nekobus, che personalmente ho amato anche più di Totoro, merita qualche riga. Innanzitutto essa ha due influenze. In primo luogo il suo corpo cavo e le innumerevoli zampe richiamano il Bakeneko, ossia uno spirito del folklore giapponese con le sembianze di un gatto mostruoso, e secondariamente la sua capacità di sparire e apparire e il ghigno sono una lampante citazione al Gatto del Cheshire (Stregatto) di Carroll.
Viene posta, come di consueto, una grande attenzione al tema dell'ambientalismo e al rispetto della natura, marchio di fabbrica delle produzioni di questa casa giapponese.
Il film è leggermente autobiografico, poiché anche lo stesso Miyazaki ha trascorso l'infanzia assieme ai suoi fratelli in assenza della madre, malata di tubercolosi.
Il ritmo lento rende questo lungometraggio sconsigliato a chi cerca azione e avventura. Questo è un film da guardare con spensieratezza, che fa regredire lo spettatore a bambino, in completa armonia con l'ambiente.
Satsuki e Mei si devono trasferire assieme al padre in un paesino di campagna, per assistere più da vicino la madre, ricoverata in ospedale.
I primi 20 minuti di film sono pura ambientazione dei personaggi e sfoggio registico di paesaggi meravigliosi, che però non fanno progredire la trama.
Con impassibile calma, Miyazaki utilizza le due sorelline come uno strumento per aprire le porte della fantasia allo spettatore.
Nell'entrata in scena di Totoro e degli spiritelli avviene una netta separazione dei mondi e una sospensione della realtà attuale, ed è qui che si può godere pienamente della malinconia e della purezza che può suscitare questo film.
Lo studio Ghibli pone particolare attenzione a questi rilevanti momenti, grazie sia all'abile regia sia al supporto delle musiche di Joe Hisashi, le quali si fondono con il mood e seguono perfettamente la linea emotiva del film.
La poca presenza di dialoghi favorisce il clima introspettivo, che dà il meglio di sé nelle scene oniriche.
La figura di Totoro merita un discorso a parte. Esteticamente esso ha un aspetto imponente e nello stesso tempo pigro e assonnato, che lo rendono simpatico - non per niente è stato scelto come mascotte e logo dello Studio.
Trovo inoltre corretta la scelta di non farlo parlare giapponese, evidenzia il distacco tra umano e spirito, e questa incapacità di comunicazione lo rende imprevedibile.
Se nelle prime apparizioni si concentra sulla semplice presenza, con lo sviluppo della trama diventerà un punto di riferimento.
Il suo aiuto si rivelerà fondamentale a sceneggiatura inoltrata, dove verranno sviluppati temi più seri, quali la crescita e la paura della perdita, che si concretizzeranno in un finale coerente con tutto ciò visto in precedenza.
Anche la figura del Nekobus, che personalmente ho amato anche più di Totoro, merita qualche riga. Innanzitutto essa ha due influenze. In primo luogo il suo corpo cavo e le innumerevoli zampe richiamano il Bakeneko, ossia uno spirito del folklore giapponese con le sembianze di un gatto mostruoso, e secondariamente la sua capacità di sparire e apparire e il ghigno sono una lampante citazione al Gatto del Cheshire (Stregatto) di Carroll.
Viene posta, come di consueto, una grande attenzione al tema dell'ambientalismo e al rispetto della natura, marchio di fabbrica delle produzioni di questa casa giapponese.
Il film è leggermente autobiografico, poiché anche lo stesso Miyazaki ha trascorso l'infanzia assieme ai suoi fratelli in assenza della madre, malata di tubercolosi.
Il ritmo lento rende questo lungometraggio sconsigliato a chi cerca azione e avventura. Questo è un film da guardare con spensieratezza, che fa regredire lo spettatore a bambino, in completa armonia con l'ambiente.