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9.0/10
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Attenzione, contiene spoiler! Questa recensione andrebbe letta dopo aver visto l'opera, ma se siete tra quelli che non si fanno spaventare dagli spoiler (o che non hanno intenzione di vederla) leggetela a vostro rischio e pericolo

"WataMote!" non è altro che l'abbreviazione del ben più lungo titolo "Watashi ga motenai no wa dō kangaetemo omaera ga warui!", che tradotto dal giapponese significa letteralmente: "Dite quello che volete, ma è colpa vostra se non sono popolare (ovvero, se sono una sfigata)". Tratto dal manga di Nico Tanigawa e dispiegato nel classico formato a dodici puntate, "WataMote!" (tuttora inedito in Italia e guardabile solo online con sottotitoli) è un anime che inganna. Appare subito come il più classico degli slice of life, pieno di episodi autoconclusivi il cui unico fine, se non quello di mostrarci qualche pezzetto di vita "vera", sembra essere quello di farci ridere e farci passare qualche oretta spensierata. E bisogna dire che all'inizio ci riesce, anche bene. Probabilmente avrà ingannato persino chi si era auto-spoilerato la trama fin da subito. Situazioni grottesche, al limite del fantozziano, fanno da sfondo a una protagonista squisitamente naif, deliziosa nel suo cercare in tutti i modi di raggiungere l'obiettivo che si è prefissata: diventare popolare nella sua scuola. E così l'obiettivo sembra quello di far ridere lo spettatore. E le risate, in effetti, scorrono. Risate a crepapelle, che divertono fin dalla prima puntata. Ed è proprio qui che c'è l'inghippo. "Fin dalla prima puntata". Quindi anche nella seconda. Nella terza. Nella quarta. Ma per quanto tempo un anime si può reggere sulle risate? Forse fino a quando non ci accorgiamo che il suo scopo, in realtà, non era far ridere ma era un altro? Far piangere? Commuovere? O magari... far riflettere? Un'opera può concentrare tutta la sua attrattiva per il pubblico nella risata selvaggia e mantenere invece il suo vero contenuto, il suo messaggio più autentico, in una profondità che risale sempre più a galla man mano che, episodio dopo episodio, arriviamo alla sua conclusione? Sembrerebbe di sì, ed è proprio questo ciò che rende "WataMote!" un anime di ben altro spessore rispetto alla media, come potrebbe essere la differenza che passa tra un capolavoro letterario del '900 a caso nella mischia e un qualsiasi romanzetto finto-romantico da supermercato tanto di moda ai giorni nostri.

"WataMote!" è uno slice of life, si diceva; in quanto tale, il suo compito è esattamente quello di rappresentare la realtà. Ma la realtà non è tutta rose e fiori, e tutti gli stereotipi che ritroviamo negli anime cadono giù come foglie di un albero sbattuto dal vento d'autunno. E questo vento non si accontenta di buttarle giù, no, vuole farsi beffe di loro. Beffe non solo degli anime (e dei manga, delle visual novel, dei simulatori di vita online, ecc.), ma anche di chi li guarda, che trova la propria incarnazione nella stessa protagonista, una Tomoko completamente alienata dal mondo che la circonda proprio perché ha la propria residenza non in Giappone (quello vero), ma nel bel più confortante mondo dei sogni e delle fantasie adolescenziali. Non è un caso che un anime come questo rappresenti, parodiandole, tutte le assurdità che si ritrovano in altri anime, rappresentate per quel che sono, assurdità appunto. Tanto più assurde quando sono rappresentate da un personaggio come Tomoko, che non ha niente di assurdo, anzi, è estremamente reale nella sua delirante umanità, che le fa paragonare il suo sudore a quello di "un personaggio di un manga da basket". E a volte ciò avviene in modo esplicito, come nell'azzeccato paragone tra Light di "Death Note", che muove epicamente la penna sul diario nero, e Tomoko, che muove (altrettanto epicamente) il suo mouse sul suo deprimente e sfigato computer come se stesse brandendo una spada in una battaglia. Quante volte vi è capitato di sentirvi come il personaggio di un film, di un romanzo, di un fumetto? Alla protagonista questa cosa non solo capita continuamente, ma lei stessa crede di essere "davvero" così, ed è proprio questo che rende "WataMote!" un anime "reale", in quanto rappresenta proprio "l'irrealtà" dei pensieri umani e il loro contrasto con quello che hanno davanti al proprio naso.
Ogni pretesa all'ottimismo, lieto fine compreso, viene spazzato via da una crudezza subdola, che si fa beffe delle nostre difese interiori e ci ferisce nel profondo proprio perché noi, accogliendola insieme alla "comicità" della visione, non riusciamo a riconoscerla. Qualcosa dentro di noi ci fa nettamente distinguere le opere comiche da quelle drammatiche, motivo per cui siamo assolutamente inermi quando questa differenza è più sfumata, senza capire dove finisce una e dove inizi l'altra. La tragedia sembra cedere il passo alla commedia, ma appunto, "sembra": non è che un'illusione, e la tragedia, che non ha nessuna voglia di farsi imbavagliare, nascosta in una cassa, continua a scalciare fino a liberarsi, ma non con violenza, poco a poco, mangiando pezzetto per pezzetto il cuore dello spettatore che credeva di potersi rilassare con qualche oretta di visione spensierata e si ritrova gettato in un abisso di sofferenza e solitudine.

Il punto è proprio questo: una continuità di situazioni comiche che ruotano attorno a un protagonista "tragico" non potrà condurre per sempre al sorriso. Fantozzi ci farà pure sganasciare dalle risate, anche per via della scelta stilistica dei suoi film, ma prima o poi qualcuno mosso da compassione che inizia a dire "Fa ridere, però... poveretto..." lo si trova pure. "WataMote!" estremizza questo schema. Le situazioni comiche reggono nei primi quattro episodi, massimo cinque. A un certo punto subentra la noia. Noia che poi si trasforma in nausea. La nausea in depressione. E la depressione in angoscia esistenziale. Quei rari spiragli di speranza, di luce in fondo al tunnel che fanno capolino qua e là ogni tanto, non fanno altro che rendere ancora più drammatica la tensione che cresce, episodio dopo episodio, nell'atmosfera dell'anime. Pura sofferenza interiore mascherata da un velo di divertissement. Tomoko è sola, è un'emarginata, è una ragazza che vive un'esistenza diversa da quella delle ragazze della sua età: una vita piatta, misera, che va avanti per inerzia, senza uno scopo o qualcosa che le dia un senso. Lei non è nessuno, e la gente intorno a lei non fa altro che ricordarglielo, persistendo a ignorarla continuamente. Ma in fondo, la colpa è di chi ignora o di chi non fa nulla per evitare di essere ignorato? O meglio, che sembra fare di tutto per essere ignorato, salvo poi lamentarsi del contrario? Cerco di far provare compassione nello spettatore mentre mangio tutta sola il mio pranzo nella classe deserta dopo essere svenuta, ma non ero io stessa che fino a qualche ora prima cercavo volutamente di isolarmi e me ne andavo a mangiare nel posto più buio e nascosto che riuscissi a trovare? Questa è la domanda che l'anime ci pone. Ma è una domanda che trova anche una sua risposta? Per capirlo basta analizzare il titolo. "Se sono sfigata (e quindi emarginata), è colpa vostra, non mia". Ma ne siamo proprio sicuri? O forse questo titolo racchiude la stessa parodia che ritroviamo verso gli altri anime? Magari il punto è diverso e più complesso; quel titolo non è una parodia esplicitata dagli autori, ma è piuttosto il punto di vista che Tomoko ha di sé stessa e della propria vita.

Questo punto non è affatto da sottovalutare, anzi, è qui che ritroviamo il senso dell'intero anime. Se azzardiamo un parallelismo improbabile (ma non tanto) tra storia letteraria europea e animazione giapponese, "WataMote!" non è realista in senso ottocentesco, come poteva essere l'influsso dell'ambiente circostante nelle opere di Balzac e Zola (il tipo di realismo, visto che parliamo di letteratura francese, che forse potremmo trovare più consono a un'opera come "i Fiori del Male" di Shuzo Oshimi), quanto piuttosto in senso psicologico, con quell'introspezione tipica del monologo interiore novecentesco di Joyce o Svevo. In pratica, la realtà non è ciò che è ma è piuttosto ciò che la protagonista crede che sia. Le stesse scelte stilistiche, che raffigurano a volte i personaggi dotati solo di bocca e dall'aspetto uguale gli uni gli altri, rappresentano un'estremizzazione del concetto (inconscio) che Tomoko ha della società e del mondo. "Non importa cosa pensate, è colpa vostra se sono impopolare". Esattamente. Non perché sia la verità, ma perché è quella che Tomoko "crede essere la verità". E il problema è che l'intero anime si fonda sulla percezione soggettiva della realtà, mostrando allo spettatore non quello che succede realmente, ma piuttosto quello che succede negli occhi e nel cervello della protagonista.
Tomoko è una disadattata sociale, una reclusa, un'emarginata, non perché siano gli altri a volerla ridurre così, ma piuttosto perché è lei stessa a cercare quell'emarginazione, quella rassicurazione che può ottenere solo nella solitudine. Esatto, "rassicurazione". Perché la povera Mokocchi (soprannome "kawaii" di Tomoko) soffre come una cagna bastonata, come un povero pulcino indifeso in balia del temporale. Ma una cagna bastonata e un pulcino indifeso potrebbero uscire dalla loro condizione di sofferenza, se solo volessero, perché ne hanno facoltà: è sufficiente far uscir fuori gli artigli e il becco, attaccare, reagire, non subire passivamente gli eventi. Azzannare la mano di chi ti bastona, cercare un riparo dalla pioggia. Ma non lo fanno. Perché non ne hanno il coraggio, forse. O magari, proprio perché è più "rassicurante" non fare nulla e accettare il proprio destino, nella speranza che un giorno le cose cambino, piuttosto che fare qualcosa per cambiarle. E chi li guarda non fa certo nulla per impedire questa visione delle cose: spinto dalla pietà e dalla compassione nei loro confronti, cercherà di fare qualcosa per farli uscire dalla loro situazione. Tomoko cerca esattamente questo, cerca qualcuno che, "proprio come succede negli anime", potrà salvarla dalla quella solitudine che lei stessa si è imposta proprio per poter essere salvata. Il problema è che non solo Tomoko non riuscirà a trovare nessuno che possa salvarla (o meglio, che abbia un qualche interesse nel volerla salvare), ma quando si presenterà una possibile occasione, invece di accoglierla, fuggirà a gambe levate. Perché anche farsi salvare significa avere un po' di coraggio, quel coraggio che serve a uscire da una condizione esistenziale in cui siamo invischiati da tempo per avventurarci nella realtà. Perché compatirsi e aspettare che la vita cambi da sola è molto più comodo che reagire alla propria situazione con autocoscienza, o almeno accettare di cambiare il nostro stato di cose quando qualcuno ci tende la mano. Ed è proprio questo che succede con la Presidentessa, che arriva a travestirsi da orso per superare le barriere imposte da Tomoko e stringerla in un abbraccio liberatorio. Tomoko desiderava quell'abbraccio, lo bramava con tutta sé stessa, almeno a livello inconscio. Ma le sue barriere in superficie le avrebbero impedito di accettarlo da una persona in carne e ossa visibile in quanto tale. Occorreva un occultamento alla coscienza, magari un bel travestimento. Da orso, appunto. E così Tomoko si fa abbracciare, ed è forse questo il primo passo verso una presa di coscienza dei propri sentimenti più reconditi. Ma quando poi, guarda caso proprio alla fine dell'anime, Tomoko ha l'occasione di poter reagire alla sua solitudine e decide di prendere l'iniziativa per parlare con la Presidentessa (e non più con l'orso), ecco che tutta la sua determinazione crolla. Da quei deriva la tragicità di tutto l'anime. Dal fallimento della protagonista di fronte al contrasto tra i suoi obiettivi e agli ostacoli che deve superare per raggiungerli. Quindi, di fronte alla vita.

Che poi, siamo sinceri, il mondo non gira sempre a questo modo e non sempre si trova gente disposta a compatirci e a salvarci. Tomoko lo capisce a sue spese. Quando un'attività tutto sommato banale come un'uscita serale al cinema sembra quasi essersi trasformata nello scopo di tutta la vita, la sua unica amica deve rinunciare per motivi di lavoro. Ovvero, per motivi che, nella realtà del mondo vero e non nella realtà del "mondo finto" del cervello di Tomoko, sono ben più importanti di un'uscita con un'amica che può benissimo essere rinviata senza conseguenze. Ma per Tomoko le cose funzionano diversamente, e queste conseguenze ci sono eccome. Se non nella realtà, almeno nella sua psiche, dilaniata dal conflitto tra illusione e realtà. Così, sarà il suo cervello a farle credere che "lavorare è bello" e che nel lavorare con le torte potrà trovare un riscatto da sé stessa. L'illusione si spezza tragicamente quando, in una scena che è forse uno degli apici emotivi dell'intero anime, i bellissimi sogni del lavoro da cameriera vengono travolti dall'angosciosa alienazione dell'operaia stretta nella catena di montaggio di una fabbrica che produce torte. Ma com'è possibile, lavorare con le torte non doveva essere un sogno bellissimo? Perché invece quest'incubo delirante? Bene, questo è esattamente il "risveglio alla realtà" che avranno i bambini quando non saranno più tali, quando il loro "sogno di diventare astronauta" si scontrerà con il vero mondo del lavoro e con una società sempre più competitiva (specialmente quella giapponese in cui è ambientato l'anime). Tomoko è ancora una liceale, ma non è più una bambina delle elementari, quindi è abbastanza grande per accorgersi finalmente di questo tragico scarto. Scarto che, ricordiamocelo, è fondamentale per la nostra vita, perché ci fa diventare adulti. Proprio come quando un semplice "Ci vediamo" di un ragazzo è in grado di dar luogo a una lunga e complessa rete di fantasie romantiche ed erotiche da cui, una volta imbrigliati, non si riesce più a uscire, finendo per scambiarle con la realtà e per voler far credere anche agli altri che proprio quella sia la realtà, come a una cuginetta di dodici anni che vede in noi degli esempi da seguire. Ma se la realtà è una cosa nella nostra testa, può essere un'altra cosa nella testa di qualcun altro. E Tomoko lo capirà solo quando sarà costretta a scusarsi, umiliata, a capo chino, davanti al ragazzo che suo malgrado verrà reso partecipe di quel velo di menzogne.

La colonna sonora fa il suo dovere egregiamente in questo senso, alternando stili e generi musicali che spaziano in un vero e proprio abisso di situazioni che è possibile rappresentare, proprio a marcare questo scarto tra il mondo della mente e quello della realtà, tra meditazioni filosofiche cullate dalla musica tibetana e pensieri auto-distruttivi in situazioni imbarazzanti, squarciati da chitarroni death metal e accelerate quasi grindcore (che forse si ricollegano allo stile della bella opening, un misto tra pop e melodic death metal molto commerciale che richiama alla mente Sonic Syndicate e band affini).

Tutte queste situazioni rendono cosciente Tomoko di una profonda verità: gli altri non possono passare la loro vita a compatirci, e ancor meno lo fanno i familiari. Sua madre la considera una ragazza come tutte le altre, non si accorge del suo disagio interiore e non esita a sgridarla quando non vorrà collaborare alle pulizie domestiche. Il padre, che la vede addormentata in pieno delirio da sogno (auto)erotico, la solleva dolcemente da terra e in quel semplice gesto dimostra l'affetto che prova verso la figlia, ma è un affetto esente da qualsiasi introspezione psicologica nei suoi sentimenti: non vedremo mai alcun dialogo tra Tomoko e suo padre che cerca in qualche modo spiegazioni per quello che è successo. Anzi, suo padre è un padre qualunque, e infatti non vedremo mai neanche la sua faccia, coperta dall'ombra.
Il fratello Tomoki (a proposito, un punto per la fantasia...) non è esente da questa situazione, anzi la estremizza. Non solo non capisce sua sorella, ma non la accetta nemmeno. Non la accoglie a sé, nonostante lei cerchi in tutti i modi di attirare la sua attenzione (facile da capire: Tomoki è l'unico ragazzo nella vita della protagonista). La allontana, come infastidito. Eppure, forse senza volerlo, è proprio l'indifferenza del fratello che in qualche modo fa mantenere alla povera Tomoko un contatto con la realtà. Perché lei, anche se ormai adolescente, è rimasta al livello cerebrale di una bambina, con i suoi viaggi mentali, le sue fantasie (che crede reali), le sue illusioni in cui perdersi e rifiutare il mondo esterno, da lei percepito come ostile, invadente e pericoloso per la sua identità. Ma in un contesto del genere, un forte affetto familiare non avrebbe fatto altro che complicare le cose, avvolgendo ancora di più l'inquietante fanciulla in una bella copertina come quella che rimbocca la mamma a mezzanotte, sotto una campana di vetro scintillante. E invece niente di tutto questo, e Tomoko è costretta a cercare questa copertina calda da qualche altra parte: in un'amica delle medie che gli è rimasta fedele, in una ragazza che legge un libro che lei conosce, in uno sconosciuto che le compra un ombrello mosso da pietà, in un gattino che sembra farci le fusa perché abbiamo desiderato fortemente la compagnia di qualcuno. O magari in un ramen istantaneo ingurgitato in solitudine sotto le stelle.

Molti desiderano una seconda serie di "WataMote!" perché non c'è stato alcun finale, e lo ammetto, anche io faccio parte di questo gruppo. Ma altri criticano l'opera proprio in virtù di questa "mancanza di finale". Una critica di questo tipo dimostra che la visione è stata sterile e che lo spettatore non è riuscito a cogliere il messaggio e l'intento dell'opera.
Il finale di "WataMote!" non esiste, perché non si può dare un finale alla vita. Tomoko rimarrà quella che è perché l'intento dell'anime è quello di far riflettere lo spettatore mostrando la realtà della vita e non quella degli anime (e dei film, dei romanzi, dei fumetti, ecc.), nella sua deprimente interezza (forse persino esasperata), che non può essere risolta in un'amicizia ottenuta proprio sul più bello (ovvero, alla fine). Questo avrebbe trasformato l'anime in un vero anime. Ma "WataMote!" non vuole essere un anime. Vuole essere orrendo e meraviglioso, noioso e intrigante, triste e divertente, tutto allo stesso tempo, in una dialettica degli opposti tanto disturbante quanto reale. E, soprattutto, vuole essere una sciabola nei nostri cuori, che ci fa ridere, ci commuove e ci fa soffrire proprio come fa la vita vera.
Un piccolo capolavoro.