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Cat Street colpisce. Tira dritto al punto e ci arriva, oh se ci arriva!
È come un pugno nello stomaco, una fitta al cuore e una spina nel fianco, tutto questo insieme e molto altro ancora. Il lettore non sa bene cosa pensare, non può pensare o riuscire a far altro che non sia tenere il passo e seguire il filo di pensieri dei protagonisti, immergersi nel sofferto accanimento con cui si autodistruggono e il loro crudele disfattismo, l’opera di demolizione cui sottopongono sé stessi e la loro quotidianità. Può e deve piangere insieme a loro, ridere, commuoversi, rallegrarsi o intristirsi. Immedesimarsi diventa quindi non solo qualcosa di obbligatorio, ma necessario e di una facilità disarmante ed il perché è semplice. Non c’è bisogno di concentrazione o di qualsiasi altra cosa che non sia predisposizione a dedicare un tot di tempo alle vicende dei “Leggendari Quattro”.

Ci si trova catapultati in una realtà che troppo spesso viene dimenticata e relegata in un angolo, quella dei “gatti di strada”, ragazzi che non sanno cosa sia la vita e cosa farsene, come servirsi del loro presente e non pensano al loro futuro se non come a qualcosa di oscuro e spaventoso, persone disconosciute dal resto del gruppo e considerate strambe nella loro non voluta a volte, tanto meno desiderata, antisocialità. Occupare il tempo quando non si ha nulla o non si vuole aver nulla da fare e non si può occuparlo in alcun modo, diventa un problema insormontabile. Qualcosa di seccante, ma che non turba più del dovuto la tranquilla monotonia del trascinarsi un giorno dopo l’altro, mese dopo mese e costringersi a compiere quelle minime azioni cicliche che permettono di definirsi ancora umani, che fanno capire di essere ancora vivi a detta delle apparenze e che spingono a continuare a fuggire dal ricordo doloroso del passato, la paura che perseguita e indice a rifugiarsi nell’oscurità più completa, nel totale isolamento, in una vita che non è vita.
Camminare tra le persone in mezzo alla strada senza vederne i volti, respirare senza sentire profumi, vedere senza osservare ciò che si ha intorno, colori, odori, suoni vuoti... Si è in un bozzolo ovattato, al sicuro forse, ma non al caldo. C’è quel freddo imperituro che tortura e le occhiate malevoli che filtrano e strisciando come serpi raggiungono stritolando tra le loro spire gelide. Il freddo di chi non riesce più a sentire il calore del sole che brilla sulla propria testa, non sa cosa sia un sorriso e lo scampanellio di una risata, di chi ha dimenticato come era prima che quel qualcosa che lo ha sconvolto e turbato accadesse, chi non sa o non vuole sapere cosa ha perso.

Spiazza, è un sorprendersi continuo di riconquiste, sentimenti che non si credeva più di poter provare, la sensazione di esser venuti di nuovo al mondo, di essere usciti da quel grembo sterile che nulla aveva in comune con quello materno, una rinascita, una felicità e una ricerca della felicità che non ha fine. Alla riscoperta del mondo e di stessi, di quei sogni nel cassetto e castelli in aria gettati nell’oblio e ora riportati alla luce. Il tutto senza la minima costrizione, un passo alla volta, incerti e malfermi, ma forti della propria decisione e del desiderio di riaprire gli occhi ed alzare il mento fieri di quel che si è e mostrare la testa al cielo orgogliosi.
Esiste un posto dove tutto questo è possibile, dove voler essere liberi non è sinonimo di eccentricità, il mutismo non è sintomo di poca intelligenza e neanche la loquace vivacità diventa un problema, dove il tempo non è troppo da colmare ma, al contrario, diventa troppo poco e le sere da trascorrere una volta a casa lunghe, l’alba lontana...

Quest’Isola che non c’è che accoglie Bimbi Sperduti dagli occhi selvatici e i modi bruschi, vagabondi e solitari è l’El Liston, un luogo accogliente e ospitale con un direttore alla Santa Claus, che spesso inizialmente viene frainteso nelle sue intenzioni e scambiato per un pervertito. Una curiosità che riguarda il nome della scuola è una coincidenza che ho scoperto esistere tra esso e una locuzione veneta “fare el liston”, che significa appunto "passeggiare per la piazza" e trova un riscontro perfetto con quella che è l’essenza stessa della scuola e il presupposto che ne fa da motore. Qui l’autogestione diventa un privilegio, l’autonomia una scelta, la diversità un talento, le capacità di ognuno doni di Dio, siano esse comprese o meno.

Su questo sfondo di benefica tolleranza, disponibilità e apertura, la vita di Keito, ex bambina attrice, dopo sette anni di reclusione nelle ombre della sua stanza e nei propri timori inconfessati sembra mutare quando, ormai sedicenne, incontra Rei, ragazzo della sua stessa età che ha abbandonato una brillante carriera professionistica come giocatore di calcio.
Si intreccia a quella di Momiji, ragazza dalla personalità solare e allegra, nonché un po’ manesca, che ama vestirsi in modo appariscente con abiti che si cuce e confeziona da sé, e Kouchi, mago dei computer e con un Q.I. altissimo.
Intraprende una via di cambiamenti e scelte, un cammino dove la luce sembra risplenderle intorno e non attraversarla, in mezzo a persone e amici che la capiscono e non la biasimano, dove non si è mostri né soli, ma uniti perché simili, anime affini, gemelle nella loro emarginazione.

L’introspezione è egregia, la resa dei personaggi e delle loro reazioni brillante, situazioni suggestive e coinvolgenti, disegni accurati nella loro semplicità e “trasparenti”, in cui i volti diventano specchi dei sentimenti. Una sottile e struggente malinconia, una nostalgia agrodolce che trapela da ogni pagina arrivando al lettore in tutta la sua toccante pienezza.
Cat Street è uno dei migliori manga che abbia mai letto e non posso far altro che consigliarlo con caloroso affetto a ognuno. Una lettura da non perdere assolutamente, emozionante e commovente come poche, un pianto e un sorriso indulgente e ininterrotto, soprattutto per chi ha un’indole sensibile e sentimentale.