Recensione
D.Gray-man
9.0/10
Se ne son dette davvero di tutti i colori su questo manga, troppe a mio avviso, ma non sono qui, e né sarebbe mia intenzione esserlo, per disquisire di questo, tutt’altro.
D.Gray Man ha come protagonista Allen Walker, un ragazzino al primo impatto, un uomo al secondo, un adolescente maturo e fin troppo assennato in seguito che non esito a definire l’eroe per eccellenza, e badate bene che in queste mie parole non c’è sarcasmo o alcuna forma di ironia.
Sin dalle prime pagine, ancor prima che comparissero personaggi principali del calibro di Bookman, Noah ed Esorcisti vari, Allen mi aveva colpito e catturato al primo sguardo.
La mano nera che sembrava in putrefazione, gli occhi dolci e infinitamente tristi, mi sembrava una specie di piccolo eroe dal cuore d’oro. Ora posso dire quanto la mia prima impressione fosse sbagliata e giusta al tempo stesso. La vena malinconica che avevo riscontrato in quel “bambino” lo accompagna fino in fondo, sempre smorzata dal sorriso. Ed ecco il mio errore. Allen non è un piccolo eroe, ma l’eroe, quello che noi tutti aneliamo ad essere, quello irraggiungibile dei nostri sogni, che è un superuomo nella sua umanità e che di accentuato non ha solo la forza e quelle abilità aliene alla natura comune, ma anche e soprattutto il cuore, una sensibilità troppo grande per essere contenuta in una persona sola, un senso di colpa che tormenta e funge da adito e monito in un futuro che non si desidera, ma si ha, che si è costretti a vivere per tentare di espiare quell’errore passato e impossibile da dimenticare.
Allen dal cuore di burro e nessuna scorza d’acciaio a proteggerlo se non il braccio maledetto, che non vuole combattere, ma non può fare altro per proteggere le persone che tanto male gli hanno procurato e non poco dolore nella loro indifferenza odiosa e incapacità di comprenderlo, nel loro emarginarlo e metterlo al bando perché diverso, unico nel suo genere. Potrebbe sembrare il classico protagonista dal passato burrascoso costellato di delusioni e solitudine e lo è, è una storia nota, banale nel suo essere ripetitiva, ma a chi dare la colpa se non a noi stessi? È forse cambiato il mondo in cui viviamo, il modo malignamente ottuso e vecchio della massa di non accettare ciò che non corrisponde al proprio modo di essere e vedere la realtà? Affatto. Allora perché dovrebbero essere cambiati gli eroi impavidi e cavalieri scintillanti che ci difendono? Perché non possono rimanere ancorati alla loro classicità, quella fermezza d’animo che ci fa sentire al sicuro e ce li fa tanto apprezzare? Sono fin troppo buoni, il loro desiderio è quello di riuscire sempre a salvare tutti, non una vita, ma ogni vita ed una missione fallita non è semplice tacca alla loro immacolata reputazione, ma segna una croce in mente, un fallimento che si aggiunge alla sofferenza che li anima e li spinge ad andare avanti. Non vedo nulla di sbagliato nella loro natura volenterosa e altruistica, generosa e gentile, se non nella maschera che tale scelta di lavoro comporti essi indossino. Quel velo impalpabile che li dissacra dalla loro semplice essenza di uomini quali sono e sappiano bene d’essere nonostante tutto, costringendoli ad innalzarsi sopra ogni cosa e persona, compresi amici e familiari. Pur rimanendo ancorati alla vita precedente, il momento in cui non erano ancora diventati, non avevano ancora scelto di essere promesse per il Bene comune, c’è una sottile, ma sostanziale differenza. Si tratta delle emozioni, dell’anima che deve essere sottoposta ad una strenua battaglia con se stessa e contro i suoi stessi primordiali ed istintivi desideri, la sensazione che tutto perda di significato acquisendo tutt’altra importanza. I valori e le virtù che possiedono, le sensazioni imprigionate che si costringono a non provare più se non in modo ridotto, artefatto.
Sin dall’antichità si è sempre paragonato i grandi eroi quali Ercole a semidivinità, essendone tralaltro figli, ma io ritengo che ora più che mai si sia trovata l’espressione di questa trasformazione nella parola “robot”, essere artificiale. Gli eroi si sottopongono all’effetto contrario dell’antropomorfismo, da uomini ad esseri privi di una qualche coscienza, tutto per raggiungere quella totale imparzialità, la capacità di distinguere senza problema tra ciò che vi è di giusto e sbagliato. Potrà sembrare esagerato, ma osservando Allen, scrutandone l’aspetto glaciale, i comportamenti da gentiluomo privi di quell’emotività tutta umana, ho visto questo.
C’è un calmo controllo, una razionalità e una continua vigilanza su se stesso, quasi volesse arrivare a rispondere al quesito irrisolvibile "Quis custodiet ipsos custodes?" (chi sorveglierà i sorveglianti stessi), portarsi oltre i livelli di autodisciplina sopportati, un autocontrollo ferreo e senza limiti o tregue, il completo dominio sul proprio potere e ciò che comporti.
Allen rinnega quasi il proprio lato umano, l’ha bandito confinandolo nei ricordi insieme a quelli del padre adottivo morto all’inizio della sua avventura. Ora sopravvive solo in funzione del suo compito, il dovere che deve compiere e il volerlo realizzare a tutti i costi, portarlo a termine anche a costo della vita. Dopotutto è proprio di ogni eroe dare tanto valore alla vita di un altro e tanto poco alla propria, decidere di sacrificarsi senza rimpianto o rimorso, quasi come una sorta di liberazione, di assoluzione, il sollievo di essere sgravati dal peso della colpa.
Si potrebbe pensare che stando a stretto contatto con tante persone, affezionandosi e sentendole parte della propria famiglia un cuore ce lo si debba avere per forza. Non è necessariamente così. Non ho detto che non provino nulla, ma che arrivi attutito, quasi ovattato sì.
Pur essendo circondato da tanti compagni e alleati, Allen non mi ha dato l’impressione di essere affezionato a nessuno in modo particolare. Ama ognuno e nessuno in ugual modo e gli dedica attenzione senza distinzione alcuna, tratta tutti, amici, a volte anche nemici, sconosciuti o persone appena conosciute con lo stesso garbo raffinato ed elegante, signorile, che riserva alle persone maggiormente care.
Quasi evitasse di oltrepassare un certo stadio onde evitare di stringere rapporti ritenuti da lui troppo intimi.
Questo discorso vale grosso modo per ogni personaggio. Tutti sono eroi e paladini della giustizia anche chi non combatte in prima linea e ognuno, chi più chi meno, è preda di questi dubbi, del terrore di non riuscire a svolgere il proprio incarico. Tutti credono di temere la morte quando alcuni, in realtà, la bramano e la ricercano pur involontariamente. Tra questi spicca Allen per il solo fatto che nel suo caso il tutto sia aggravato dalla sua identità e dal tentativo di rifuggirla.
L’essere a così stretto contatto con il Male, la guerra, forzati ad essere assassini, giustificati in senso lato in quel si fa e del sangue che non sgorga essendo gli avversari, gli Akuma, anime innocenti di persone morte manovrate, ma dell’ombra che comunque sembra offuscare e sporcare ogni cosa, non rende la situazione più semplice o serve ad agevolarla, al contrario.
C’è tutta la fragilità degli esseri umani, la loro essenza forte nella debolezza, nella personalità femminile e falsamente delicata di Linalee, nell’indecisione di Lavi, nell’indifferenza apatica e indolente di Yu Kanda, nella solidarietà che unisce l’intero Ordine Oscuro, insieme per vincere l’infelicità. D.Gray Man è uno spettacolo sullo stile della tragicommedia e ognuno riveste il ruolo che più gli si addice. Allen è un Pierrot così come il nemico, il Conte del Millennio, e ognuno indossa un costume, prigioniero di se stesso o del proprio travestimento. Ambientato in un’ipotetica Europa ottocentesca, sfondo costante è la luna lontana e mestamente irrisoria a cui Allen, da bravo Pierrot, sembra anelare in sogno ed uno scenario gotico nero e avorio che gioca sul chiaroscurato.
Nel corso dei volumi si assiste ad un mutamento nella grafica e nel modo in cui vengono resi i personaggi, ma non ritengo sia giusto parlare di una migliore o peggiore qualità di realizzazione quanto di una crescita in generale dei personaggi e delle loro metamorfosi.
Per concludere, un’opera profonda, toccante e mai noiosa, dove cliché e luoghi comini diventano forme conosciute, modi comuni di intendere e interpretare quel che ci circonda, preconcetti che tutti conoscono fin troppo bene, ma nessuno ha il coraggio di distruggere, abitudini e tradizioni secolari dure a morire. Fino al momento decisivo, quello in cui verrà calato il sipario, si prospetta un’ardua lotta tra l’innocenza vincolata che non è più tale se non nel nome e il vizioso e immorale circolo della corruzione e della depravazione.
“Tutto il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne sono solo attori."(William Shakespeare.) D.Gray Man non è da meno!
D.Gray Man ha come protagonista Allen Walker, un ragazzino al primo impatto, un uomo al secondo, un adolescente maturo e fin troppo assennato in seguito che non esito a definire l’eroe per eccellenza, e badate bene che in queste mie parole non c’è sarcasmo o alcuna forma di ironia.
Sin dalle prime pagine, ancor prima che comparissero personaggi principali del calibro di Bookman, Noah ed Esorcisti vari, Allen mi aveva colpito e catturato al primo sguardo.
La mano nera che sembrava in putrefazione, gli occhi dolci e infinitamente tristi, mi sembrava una specie di piccolo eroe dal cuore d’oro. Ora posso dire quanto la mia prima impressione fosse sbagliata e giusta al tempo stesso. La vena malinconica che avevo riscontrato in quel “bambino” lo accompagna fino in fondo, sempre smorzata dal sorriso. Ed ecco il mio errore. Allen non è un piccolo eroe, ma l’eroe, quello che noi tutti aneliamo ad essere, quello irraggiungibile dei nostri sogni, che è un superuomo nella sua umanità e che di accentuato non ha solo la forza e quelle abilità aliene alla natura comune, ma anche e soprattutto il cuore, una sensibilità troppo grande per essere contenuta in una persona sola, un senso di colpa che tormenta e funge da adito e monito in un futuro che non si desidera, ma si ha, che si è costretti a vivere per tentare di espiare quell’errore passato e impossibile da dimenticare.
Allen dal cuore di burro e nessuna scorza d’acciaio a proteggerlo se non il braccio maledetto, che non vuole combattere, ma non può fare altro per proteggere le persone che tanto male gli hanno procurato e non poco dolore nella loro indifferenza odiosa e incapacità di comprenderlo, nel loro emarginarlo e metterlo al bando perché diverso, unico nel suo genere. Potrebbe sembrare il classico protagonista dal passato burrascoso costellato di delusioni e solitudine e lo è, è una storia nota, banale nel suo essere ripetitiva, ma a chi dare la colpa se non a noi stessi? È forse cambiato il mondo in cui viviamo, il modo malignamente ottuso e vecchio della massa di non accettare ciò che non corrisponde al proprio modo di essere e vedere la realtà? Affatto. Allora perché dovrebbero essere cambiati gli eroi impavidi e cavalieri scintillanti che ci difendono? Perché non possono rimanere ancorati alla loro classicità, quella fermezza d’animo che ci fa sentire al sicuro e ce li fa tanto apprezzare? Sono fin troppo buoni, il loro desiderio è quello di riuscire sempre a salvare tutti, non una vita, ma ogni vita ed una missione fallita non è semplice tacca alla loro immacolata reputazione, ma segna una croce in mente, un fallimento che si aggiunge alla sofferenza che li anima e li spinge ad andare avanti. Non vedo nulla di sbagliato nella loro natura volenterosa e altruistica, generosa e gentile, se non nella maschera che tale scelta di lavoro comporti essi indossino. Quel velo impalpabile che li dissacra dalla loro semplice essenza di uomini quali sono e sappiano bene d’essere nonostante tutto, costringendoli ad innalzarsi sopra ogni cosa e persona, compresi amici e familiari. Pur rimanendo ancorati alla vita precedente, il momento in cui non erano ancora diventati, non avevano ancora scelto di essere promesse per il Bene comune, c’è una sottile, ma sostanziale differenza. Si tratta delle emozioni, dell’anima che deve essere sottoposta ad una strenua battaglia con se stessa e contro i suoi stessi primordiali ed istintivi desideri, la sensazione che tutto perda di significato acquisendo tutt’altra importanza. I valori e le virtù che possiedono, le sensazioni imprigionate che si costringono a non provare più se non in modo ridotto, artefatto.
Sin dall’antichità si è sempre paragonato i grandi eroi quali Ercole a semidivinità, essendone tralaltro figli, ma io ritengo che ora più che mai si sia trovata l’espressione di questa trasformazione nella parola “robot”, essere artificiale. Gli eroi si sottopongono all’effetto contrario dell’antropomorfismo, da uomini ad esseri privi di una qualche coscienza, tutto per raggiungere quella totale imparzialità, la capacità di distinguere senza problema tra ciò che vi è di giusto e sbagliato. Potrà sembrare esagerato, ma osservando Allen, scrutandone l’aspetto glaciale, i comportamenti da gentiluomo privi di quell’emotività tutta umana, ho visto questo.
C’è un calmo controllo, una razionalità e una continua vigilanza su se stesso, quasi volesse arrivare a rispondere al quesito irrisolvibile "Quis custodiet ipsos custodes?" (chi sorveglierà i sorveglianti stessi), portarsi oltre i livelli di autodisciplina sopportati, un autocontrollo ferreo e senza limiti o tregue, il completo dominio sul proprio potere e ciò che comporti.
Allen rinnega quasi il proprio lato umano, l’ha bandito confinandolo nei ricordi insieme a quelli del padre adottivo morto all’inizio della sua avventura. Ora sopravvive solo in funzione del suo compito, il dovere che deve compiere e il volerlo realizzare a tutti i costi, portarlo a termine anche a costo della vita. Dopotutto è proprio di ogni eroe dare tanto valore alla vita di un altro e tanto poco alla propria, decidere di sacrificarsi senza rimpianto o rimorso, quasi come una sorta di liberazione, di assoluzione, il sollievo di essere sgravati dal peso della colpa.
Si potrebbe pensare che stando a stretto contatto con tante persone, affezionandosi e sentendole parte della propria famiglia un cuore ce lo si debba avere per forza. Non è necessariamente così. Non ho detto che non provino nulla, ma che arrivi attutito, quasi ovattato sì.
Pur essendo circondato da tanti compagni e alleati, Allen non mi ha dato l’impressione di essere affezionato a nessuno in modo particolare. Ama ognuno e nessuno in ugual modo e gli dedica attenzione senza distinzione alcuna, tratta tutti, amici, a volte anche nemici, sconosciuti o persone appena conosciute con lo stesso garbo raffinato ed elegante, signorile, che riserva alle persone maggiormente care.
Quasi evitasse di oltrepassare un certo stadio onde evitare di stringere rapporti ritenuti da lui troppo intimi.
Questo discorso vale grosso modo per ogni personaggio. Tutti sono eroi e paladini della giustizia anche chi non combatte in prima linea e ognuno, chi più chi meno, è preda di questi dubbi, del terrore di non riuscire a svolgere il proprio incarico. Tutti credono di temere la morte quando alcuni, in realtà, la bramano e la ricercano pur involontariamente. Tra questi spicca Allen per il solo fatto che nel suo caso il tutto sia aggravato dalla sua identità e dal tentativo di rifuggirla.
L’essere a così stretto contatto con il Male, la guerra, forzati ad essere assassini, giustificati in senso lato in quel si fa e del sangue che non sgorga essendo gli avversari, gli Akuma, anime innocenti di persone morte manovrate, ma dell’ombra che comunque sembra offuscare e sporcare ogni cosa, non rende la situazione più semplice o serve ad agevolarla, al contrario.
C’è tutta la fragilità degli esseri umani, la loro essenza forte nella debolezza, nella personalità femminile e falsamente delicata di Linalee, nell’indecisione di Lavi, nell’indifferenza apatica e indolente di Yu Kanda, nella solidarietà che unisce l’intero Ordine Oscuro, insieme per vincere l’infelicità. D.Gray Man è uno spettacolo sullo stile della tragicommedia e ognuno riveste il ruolo che più gli si addice. Allen è un Pierrot così come il nemico, il Conte del Millennio, e ognuno indossa un costume, prigioniero di se stesso o del proprio travestimento. Ambientato in un’ipotetica Europa ottocentesca, sfondo costante è la luna lontana e mestamente irrisoria a cui Allen, da bravo Pierrot, sembra anelare in sogno ed uno scenario gotico nero e avorio che gioca sul chiaroscurato.
Nel corso dei volumi si assiste ad un mutamento nella grafica e nel modo in cui vengono resi i personaggi, ma non ritengo sia giusto parlare di una migliore o peggiore qualità di realizzazione quanto di una crescita in generale dei personaggi e delle loro metamorfosi.
Per concludere, un’opera profonda, toccante e mai noiosa, dove cliché e luoghi comini diventano forme conosciute, modi comuni di intendere e interpretare quel che ci circonda, preconcetti che tutti conoscono fin troppo bene, ma nessuno ha il coraggio di distruggere, abitudini e tradizioni secolari dure a morire. Fino al momento decisivo, quello in cui verrà calato il sipario, si prospetta un’ardua lotta tra l’innocenza vincolata che non è più tale se non nel nome e il vizioso e immorale circolo della corruzione e della depravazione.
“Tutto il mondo è un palcoscenico, e gli uomini e le donne sono solo attori."(William Shakespeare.) D.Gray Man non è da meno!