Recensione
Rainbow (Masasumi Kakizaki)
8.0/10
"Con lo stomaco vuoto e con il dolore nel cuore, sei giovani furono portati in un riformatorio speciale. Fu proprio come se delle foglie cadute da un albero fossero state inghiottite da un vortice."
Lasciando ad altre sedi, sicuramente più adatte, ogni tipo di discorso relativo al ruolo e all'utilità sociale, e focalizzando l'attenzione esclusivamente sul lato umano, il carcere resta comunque quel luogo capace di far tremare i polsi anche all'individuo caratterialmente più forte e navigato: un'esperienza emotivamente sconvolgente capace di cambiare radicalmente il carattere se non l'esistenza stessa di una persona. Pensate, dunque, come possa essere devastante se a varcare la soglia del carcere siano dei ragazzini appena entrati nell'adolescenza, e che vivono già in condizioni di pura indigenza, come i protagonisti di questo manga.
Rainbow ci porta nel 1955, in un Giappone dove sono ancora aperte le ferite della seconda guerra mondiale. Una nazione ben lontana da quella tutta grattacieli e tecnologia a cui siamo abituati oggi e che, anzi, deve convivere con lo straniero invasore, mentre nel frattempo dilagano fame e povertà come solo in un paese dilaniato dalla follia della guerra può accadere. Si tratta di quell'atmosfera che in fondo noi italiani di oggi possiamo ad esempio ritrovare nei vecchi film del neorealismo.
George Abe con una certa vena autobiografica - come vedremo in seguito - ci racconta le vicende di sette adolescenti finiti dietro le sbarre di un riformatorio, vittime di eventi più grandi di loro.
Questo non è ovviamente un manga con power-up o poteri magici, ma un titolo che appartiene a quel filone prolifico del fumetto giapponese che tratta temi gravi e maturi. Rainbow è un crudo e aberrante racconto di un incubo fatto di crudeltà, abusi fisici e morali. Un corollario di personaggi al limite tra la totale perdizione e la speranza di una vita diversa. Nessuna novità eclatante rispetto ad altre opere che hanno toccato l'argomento della detenzione minorile, come ad esempio il film americano Sleepers (1996) di Barry Levinson, ma per contesto e temi trattati, risulta senza dubbio un titolo piuttosto particolare nel panorama fumettistico nipponico di questi ultimi anni, pur celebrando un sentimento di per sé piuttosto abusato. Questo manga è, infatti, un inno all'unico vero collante capace di unire personalità - i protagonisti del manga di Abe - tanto diverse quanto disperate: l'amicizia.
I sette ragazzi, tutti con età comprese tra i sedici e i diciassette anni, rinchiusi nella cella 2 del blocco 6 del riformatorio speciale Shonan, troveranno nel diciottenne Rokurota Sakuragi una figura carismatica cui appigliarsi nel vitale tentativo di mantenere una propria dignità in grado di restituirli a una vita normale una volta scampati alla reclusione forzata. Essi lo chiameranno Fratellone a testimonianza di un legame unico, quasi familiare, e inizieranno con lui non solo la lunga e penosa attesa della libertà, ma soprattutto una lunga e determinata lotta contro le umiliazioni e le crudeltà perpetrate dalla perfida guardia Ishihara e dal corrotto e libidinoso Dottor Sasaki.
Dicevamo della vena autobiografica in questa storia di "vite spezzate" in cerca di redenzione. George Abe, non può dirsi certo il classico mangaka, ruolo a cui è giunto alla soglia dei settant'anni dopo un'esistenza "romanzesca" che lo ha visto più volte finire dietro le sbarre, la prima delle quali a diciannove anni con l'accusa di furto, tentato omicidio e porto d'armi illegale. Un dettaglio nella vita di chi ha fatto il pugile, il commentatore di kickboxing, il gestore di locali, il promoter, il ristoratore, il commerciante di droghe... senza dimenticarsi le sue collaborazioni con la Yakuza.
Scrittore quindi solo dal 1987, anche se raggiunto quasi subito dal successo, avendo tanto a cui ispirarsi.
In "Rainbow", la sua prima prova nel fumetto, egli riversa molti aspetti della sua vita variegata e "al limite" anche con piccoli appunti prettamente personali tra un capitolo e l'altro. Visione personalizzata della sceneggiatura quindi a cui va ascritta una certa propensione alla retorica, forse anche ricercata e voluta, per far calare maggiormente la trama nell'epoca in cui è ambientata.
Non ci sono argomenti tabù in questo manga che già dal primo numero arriva diretto come un pugno allo stomaco del lettore: violenza, crimini e abusi di ogni tipo fuoriescono senza pietà dalle sue pagine, come un fiume in piena.
A maggior ragione però era lecito aspettarsi, almeno nella prima parte della storia (quella fino ad ora uscita in Italia) una certa profondità psicologica dei vari personaggi che a mio avviso sono ritratti in maniera troppo dicotomica: buoni o cattivi, senza grandi sfumature intermedie; in maniera piuttosto idealizzata e semplicistica, quindi.
A parte questo, la storia è piuttosto avvincente, e riesce a catturare l'attenzione del lettore anche perché è davvero impossibile rimanere indifferenti di fronte alle tavole disegnate da Masasumi Kakizaki. I personaggi di questo mangaka sono realizzati in maniera estremamente caricaturale, soprattutto nei particolari e nei primi piani, come se trascinati in un gorgo di alienazione e perdizione ai limiti del sogno, anzi, dell'incubo. Un prepotente utilizzo di giochi di luce e ombra, nonché una meticolosa cura del dettaglio che dà il meglio di se nel rendere l'espressività ed emozioni umane come rabbia e paura, fanno sì che non sia certo un caso che i manga realizzati da Kakizaki trattino argomenti forti, o addirittura l'horror, come il volume unico Hideout recentemente portato in Italia dalla stessa Planet Manga.
Rainbow è stato pubblicato per la prima volta in Giappone dal 2003 al 2010 sulle riviste Big Comic Spirits e Young Sunday dell'editore Shogakukan e raccolto poi in ventidue tankobon. Nel 2005 viene premiato da suo editore nella categoria miglior seinen agli Shogakukan Manga Award e infine riceve la giusta consacrazione grazie alla trasposizione animata ad opera dello studio Madhouse, grazie alla quale inizia a farsi conoscere anche fuori dai confini giapponesi pur rimanendo un'opera piuttosto di nicchia, forse anche a causa degli argomenti trattati.
Planet Manga lo propone con un'edizione standard da 13x18 cm, in bianco e nero, senza sovraccoperta o tavole a colori. Non un'edizione di lusso quindi, ma comunque discreta nella sua semplicità, a giudicare dai sei volumi fino ad oggi pubblicati. Niente da eccepire invece sull'adattamento: la lettura risulta scorrevole, com'è giusto che sia in un titolo la cui forza evocativa proviene in buona parte dalla maestria del disegnatore.
Rainbow è quindi un titolo non adatto a tutti a causa dei temi forti trattati. Un manga drammaticamente coinvolgente che ci porta in una dimensione angosciante, sbattendoci in faccia temi, immagini e un linguaggio di una crudezza accentuata in maggior misura dallo stile di disegno di un Kakizaki in stato di grazia. Il lettore finirà per affezionarsi ai personaggi e allo loro disavventure, nonostante un certo abuso di retorica ed un ricorso un po' ingenuo ad alcuni stereotipi, specie nei cattivi che a volte sembrano ridursi a macchiette.
Quello di George Abe vuole essere un porre l'accento sulle condizioni del Giappone nel primo dopoguerra, molto prima del boom industriale. L'affresco di un'epoca in cui gli eroi pativano la fame e subivano le angherie del più forte, ma continuavano a credere nei sogni e nell'amicizia.
Lasciando ad altre sedi, sicuramente più adatte, ogni tipo di discorso relativo al ruolo e all'utilità sociale, e focalizzando l'attenzione esclusivamente sul lato umano, il carcere resta comunque quel luogo capace di far tremare i polsi anche all'individuo caratterialmente più forte e navigato: un'esperienza emotivamente sconvolgente capace di cambiare radicalmente il carattere se non l'esistenza stessa di una persona. Pensate, dunque, come possa essere devastante se a varcare la soglia del carcere siano dei ragazzini appena entrati nell'adolescenza, e che vivono già in condizioni di pura indigenza, come i protagonisti di questo manga.
Rainbow ci porta nel 1955, in un Giappone dove sono ancora aperte le ferite della seconda guerra mondiale. Una nazione ben lontana da quella tutta grattacieli e tecnologia a cui siamo abituati oggi e che, anzi, deve convivere con lo straniero invasore, mentre nel frattempo dilagano fame e povertà come solo in un paese dilaniato dalla follia della guerra può accadere. Si tratta di quell'atmosfera che in fondo noi italiani di oggi possiamo ad esempio ritrovare nei vecchi film del neorealismo.
George Abe con una certa vena autobiografica - come vedremo in seguito - ci racconta le vicende di sette adolescenti finiti dietro le sbarre di un riformatorio, vittime di eventi più grandi di loro.
Questo non è ovviamente un manga con power-up o poteri magici, ma un titolo che appartiene a quel filone prolifico del fumetto giapponese che tratta temi gravi e maturi. Rainbow è un crudo e aberrante racconto di un incubo fatto di crudeltà, abusi fisici e morali. Un corollario di personaggi al limite tra la totale perdizione e la speranza di una vita diversa. Nessuna novità eclatante rispetto ad altre opere che hanno toccato l'argomento della detenzione minorile, come ad esempio il film americano Sleepers (1996) di Barry Levinson, ma per contesto e temi trattati, risulta senza dubbio un titolo piuttosto particolare nel panorama fumettistico nipponico di questi ultimi anni, pur celebrando un sentimento di per sé piuttosto abusato. Questo manga è, infatti, un inno all'unico vero collante capace di unire personalità - i protagonisti del manga di Abe - tanto diverse quanto disperate: l'amicizia.
I sette ragazzi, tutti con età comprese tra i sedici e i diciassette anni, rinchiusi nella cella 2 del blocco 6 del riformatorio speciale Shonan, troveranno nel diciottenne Rokurota Sakuragi una figura carismatica cui appigliarsi nel vitale tentativo di mantenere una propria dignità in grado di restituirli a una vita normale una volta scampati alla reclusione forzata. Essi lo chiameranno Fratellone a testimonianza di un legame unico, quasi familiare, e inizieranno con lui non solo la lunga e penosa attesa della libertà, ma soprattutto una lunga e determinata lotta contro le umiliazioni e le crudeltà perpetrate dalla perfida guardia Ishihara e dal corrotto e libidinoso Dottor Sasaki.
Dicevamo della vena autobiografica in questa storia di "vite spezzate" in cerca di redenzione. George Abe, non può dirsi certo il classico mangaka, ruolo a cui è giunto alla soglia dei settant'anni dopo un'esistenza "romanzesca" che lo ha visto più volte finire dietro le sbarre, la prima delle quali a diciannove anni con l'accusa di furto, tentato omicidio e porto d'armi illegale. Un dettaglio nella vita di chi ha fatto il pugile, il commentatore di kickboxing, il gestore di locali, il promoter, il ristoratore, il commerciante di droghe... senza dimenticarsi le sue collaborazioni con la Yakuza.
Scrittore quindi solo dal 1987, anche se raggiunto quasi subito dal successo, avendo tanto a cui ispirarsi.
In "Rainbow", la sua prima prova nel fumetto, egli riversa molti aspetti della sua vita variegata e "al limite" anche con piccoli appunti prettamente personali tra un capitolo e l'altro. Visione personalizzata della sceneggiatura quindi a cui va ascritta una certa propensione alla retorica, forse anche ricercata e voluta, per far calare maggiormente la trama nell'epoca in cui è ambientata.
Non ci sono argomenti tabù in questo manga che già dal primo numero arriva diretto come un pugno allo stomaco del lettore: violenza, crimini e abusi di ogni tipo fuoriescono senza pietà dalle sue pagine, come un fiume in piena.
A maggior ragione però era lecito aspettarsi, almeno nella prima parte della storia (quella fino ad ora uscita in Italia) una certa profondità psicologica dei vari personaggi che a mio avviso sono ritratti in maniera troppo dicotomica: buoni o cattivi, senza grandi sfumature intermedie; in maniera piuttosto idealizzata e semplicistica, quindi.
A parte questo, la storia è piuttosto avvincente, e riesce a catturare l'attenzione del lettore anche perché è davvero impossibile rimanere indifferenti di fronte alle tavole disegnate da Masasumi Kakizaki. I personaggi di questo mangaka sono realizzati in maniera estremamente caricaturale, soprattutto nei particolari e nei primi piani, come se trascinati in un gorgo di alienazione e perdizione ai limiti del sogno, anzi, dell'incubo. Un prepotente utilizzo di giochi di luce e ombra, nonché una meticolosa cura del dettaglio che dà il meglio di se nel rendere l'espressività ed emozioni umane come rabbia e paura, fanno sì che non sia certo un caso che i manga realizzati da Kakizaki trattino argomenti forti, o addirittura l'horror, come il volume unico Hideout recentemente portato in Italia dalla stessa Planet Manga.
Rainbow è stato pubblicato per la prima volta in Giappone dal 2003 al 2010 sulle riviste Big Comic Spirits e Young Sunday dell'editore Shogakukan e raccolto poi in ventidue tankobon. Nel 2005 viene premiato da suo editore nella categoria miglior seinen agli Shogakukan Manga Award e infine riceve la giusta consacrazione grazie alla trasposizione animata ad opera dello studio Madhouse, grazie alla quale inizia a farsi conoscere anche fuori dai confini giapponesi pur rimanendo un'opera piuttosto di nicchia, forse anche a causa degli argomenti trattati.
Planet Manga lo propone con un'edizione standard da 13x18 cm, in bianco e nero, senza sovraccoperta o tavole a colori. Non un'edizione di lusso quindi, ma comunque discreta nella sua semplicità, a giudicare dai sei volumi fino ad oggi pubblicati. Niente da eccepire invece sull'adattamento: la lettura risulta scorrevole, com'è giusto che sia in un titolo la cui forza evocativa proviene in buona parte dalla maestria del disegnatore.
Rainbow è quindi un titolo non adatto a tutti a causa dei temi forti trattati. Un manga drammaticamente coinvolgente che ci porta in una dimensione angosciante, sbattendoci in faccia temi, immagini e un linguaggio di una crudezza accentuata in maggior misura dallo stile di disegno di un Kakizaki in stato di grazia. Il lettore finirà per affezionarsi ai personaggi e allo loro disavventure, nonostante un certo abuso di retorica ed un ricorso un po' ingenuo ad alcuni stereotipi, specie nei cattivi che a volte sembrano ridursi a macchiette.
Quello di George Abe vuole essere un porre l'accento sulle condizioni del Giappone nel primo dopoguerra, molto prima del boom industriale. L'affresco di un'epoca in cui gli eroi pativano la fame e subivano le angherie del più forte, ma continuavano a credere nei sogni e nell'amicizia.