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Nella fuligginosa città industriale c'è una sola fonte di luce... il Club della Luce. Una confraternita segreta composta da giovani ragazzi che ha sede in una sporca fabbrica abbandonata. Essi sono al punto di avviare il coronamento del loro sogno, una sofisticata "macchina pensante" umanoide il cui scopo primario è quello di rapire belle ragazze. Allo stesso tempo, i collegiali, e la loro solidarietà reciproca, stanno devolvendo in una melma neonazista coronata da paranoie omicide, estetismo perverso e, talvolta, omosessualità repressa...

"Litchi Hikari Club" rientra perfettamente in quel sottogenere che nasce dalla commistione di horror, nichilismo e provocazioni varie. Provocazioni unite ad una metafora finale la quale dà un senso a tutti gli eventi assurdi e raccapriccianti ai quali il lettore dovrà assistere. "Midori Shoujo Tsubaki" rientra perfettamente in questa categoria, con tutta la sua disturbante carica di inquietanti violenze e deliri visuali, i quali in realtà sono tra le righe moniti di stampo buddhista verso l'insensatezza delle passioni umane, con tanto di metafora finale sul mondo/illusione figlia della filosofia orientale. Seguendo lo stesso stile, "Litchi Ikari Club", tratto da un'omonima produzione del Tokyo Grand Guignol, utilizza il linguaggio dell'horror e dello splatter truculento per mettere in scena l'umana follia in tutte le sue più disparate manifestazioni: l'illusione dell'immortalità, della bellezza, l'ambivalenza della scienza e del potere... sono presenti anche metafore più filosofiche in senso lato, come ad esempio il fatto che alla fin fine l'uomo sia in realtà una sorta di ottusa macchina la quale viene sfruttata dal suo insensato burattinaio, sia esso la natura, Dio... nel nostro caso Zera, il perverso capo del Club della Luce.

Ognuno dei membri del folle club rappresenta una determinata caricatura delle pulsioni umane, nel contesto della moderna società industriale (le fabbriche e il grigiore non sono stati messi lì a caso): c'è il capo, l'autorità, colui il quale detiene il potere, la cui follia omicida trova realizzazione nel taciturno consenso popolare; lo scienziato che crea programmi e macchine le quali, nonostante la loro complessità, trovano impiego nel soddisfacimento delle pulsioni irrazionali e negli istinti più bassi dell'uomo (il sofisticatissimo robot viene costruito appositamente per rubare ragazze e uccidere); c'è la macchietta che vive unicamente in funzione delle sue pulsioni sessuali; l'ex capo umiliato il quale serba un forte rancore omicida; la bella ragazza vittima della follia maschile, Kanon, la quale simboleggia anche la bellezza e la consapevolezza che hanno abbandonato l'uomo. La grande metafora nichilista del fallimento totale dell'umanità viene sottolineata dal truculento e sanguinario finale, pessimista e cupo come pochi. "Litchi Ikari Club" ha la stessa atmosfera opprimente del grigio disco dei Pink Floyd "Animals", il quale è ispirato al romanzo "La fattoria degli animali" di Orwell, anche se i testi pieni di cattiveria e di odio allo stato puro delle canzoni di Roger Waters non si limitano unicamente alla parodia della rivoluzione russa, ma sono totalizzanti e casualmente affini alle varie provocazioni del manga.

Difetto di tale malata opera è senz'altro la solita storia d'amore cliché tra bella ragazza e robot senza sentimenti il quale diventa progressivamente umano; tuttavia, in modo molto intelligente, fin dal principio il robot viene dipinto, con tutta la sua carica inquietante e anomala, come un essere non molto diverso dagli uomini. I membri del Litchi Club sono infatti assimilabili anch'essi a delle macchine, programmate a loro volta da un determinato Dio/natura/società; dei freddi ingranaggi di un asettico meccanismo più grande di loro, eretto da una qualche entità superiore la quale non si cura delle sorti delle sue creature. Essi sono anche dei bambini che non vogliono crescere, disgustati dal mondo degli adulti; ergo l'umanità patriarcale tutta è paragonabile ad un grande bambino, il quale si rifiuta di passare all'età adulta e continua a marcire ad oltranza nelle sue futili illusioni, fino all'inevitabile catastrofe finale.