Recensione
Creepy
8.5/10
Recensione di traxer-kun
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Titolo emblematico, quello dell’ultimo film di Kiyoshi Kurosawa.
Già presentato alla Berlinale 2016 e a fine aprile proposto all’Horror Day del Far East Film Festival 18, Creepy (クリーピー) segna il ritorno dell’autore nipponico al cinema di stampo orrorifico, dopo la breve parentesi drammatica di Journey to the Shore. E, inutile dirlo, l’horror di Kiyoshi Kurosawa si conferma radicalmente diverso dalla quasi totalità dei film di tale genere.
Il regista di Kaïro e Cure sa bene che non c’è alcun bisogno di spargimenti di sangue per turbare lo spettatore, ma da profondo conoscitore della condizione umana ne squarcia con spietata precisione il velo di Maya che la offusca: il risultato è un film strisciante, opprimente, eccessivamente disturbante nel suo inarrestabile processo di distorsione e ridefinizione della realtà, che inesorabilmente insudicia lo scenario della quotidianità immergendolo nel Male più nero e assoluto.
Il breve incipit, nel suo crudo consumarsi, rivela già molte cose sul protagonista, il rampante detective Takakura (Hidetoshi Nishijima). Brillante e ambizioso, nella sua presunzione di riuscire a controllare l’essenza più profonda di un assassino psicopatico, si lascia sfuggire di mano la situazione, finendo per essere egli stesso dominato. Nel giro di qualche fatidico minuto il luminoso futuro che aveva in mente per sé va in frantumi insieme alla vita di due persone, e sei anni dopo lo ritroviamo dietro a una cattedra come docente di criminologia, mentre porta ancora sul corpo e nell’animo i gravosi segni del proprio passato.
Incapace di ribellarsi all’irresistibile richiamo del Male, Takakura, trasferitosi da poco insieme alla bella moglie Yasuko (Yūko Takeuchi) in un quartierino di periferia, per interessi ufficialmente “scientifici” si mette all’opera insieme a un collega su un caso archiviato ormai da anni, che vide un’intera famiglia scomparire nel nulla.
Kurosawa ci porta dunque con morbosità crescente su questa falsa pista volutamente compiacente, dove l’ego di Takakura e la sua ricerca di superiorità morale possono essere facilmente appagati.
E, nel mentre, i demoni che l’ex-detective andava cercando con tanto ardore iniziano a prendere forma proprio accanto a lui.
Nella sua quotidianità, nella sua vita privata, nella sua realtà famigliare.
A sua completa insaputa.
Chi guarda troppo lontano rischia di non vedere ciò che lo circonda, sembra volerci dire Kurosawa. Ancora una volta il regista torna sulle atmosfere malate e distorte che hanno reso grande il suo cinema, nel delineare un incubo inconscio che si materializza a poco a poco sopraffacendo una realtà apparentemente perfetta e intangibile, specchio della personalità squisitamente retta del protagonista.
Un eccellente Teruyuki Kagawa entra magistralmente negli scomodi panni dell’ambiguo e luciferino Nishino, il lunatico e ossessivo vicino di casa della coppia, capace di insinuarsi con agghiacciante scioltezza nella dimensione personale di ognuno, di distruggerne le certezze e manipolarne le volontà a proprio piacimento.
La famigliarità con la quale la macchina da presa si infiltra negli ambienti, scruta nei cortili e indugia sui vivaci arredamenti domestici ha quasi del parossistico, mentre l’incedere dell’intreccio ci cala in una dimensione sempre più disturbante e infetta; il verde abbacinante dei rigogliosi giardini del quartiere domina una fotografia spenta e desaturata, abbraccia il vuoto cromatico ed emotivo che pervade la pellicola con la stessa, glaciale disinvoltura con la quale il regista tratteggia le personalità dei teatranti.
E quando la coltre di normalità decade definitivamente dopo un inaspettato cambio di prospettiva, si apre lo sguardo sulle stanze segrete, su quella voragine del Male che rappresenta metaforicamente la stessa condizione dell’uomo contemporaneo. Distacco, incomunicabilità, alienazione: la moglie Yasuko, vittima (in?)consapevole della follia del vicino di casa, trascina l’ex-detective in un oscuro vortice di disperazione che inghiotte completamente le convinzioni morali dietro a cui si è da anni barricato. Tutti vivono blindati nel loro piccolo universo, riparandosi dietro a una maschera di finte certezze, convinti di essere al sicuro solo perché non ravvisano minacce palesi; Creepy ci pone di fronte all’essenza capovolta della nostra quotidianità, ci inserisce nell’occhio del ciclone, risucchiando tutte le convinzioni basilari su cui si fonda la nostra stessa identità.
Come il gelido respiro di una realtà che si insinua sottopelle consumandoci dall’interno, la pellicola di Kiyoshi Kurosawa scava nei meandri dell’animo umano riportando alla luce la totale alienazione che affligge l’umanità, quel distacco incolmabile che separa tutti gli individui. Il viaggio all’inferno di Takakura si sublima negli squarci di orrore nascosti dalle fredde mura domestiche, le buste di plastica, i corpi pallidi e irrigiditi, il sangue e i capelli rappresi; e la catarsi si suggella con l’urlo raccapricciante emesso da Yasuko mentre stringe il marito, che riecheggia sullo sfondo di un cielo plumbeo, carico della più lucida e nichilistica comprensione del Male.
Già presentato alla Berlinale 2016 e a fine aprile proposto all’Horror Day del Far East Film Festival 18, Creepy (クリーピー) segna il ritorno dell’autore nipponico al cinema di stampo orrorifico, dopo la breve parentesi drammatica di Journey to the Shore. E, inutile dirlo, l’horror di Kiyoshi Kurosawa si conferma radicalmente diverso dalla quasi totalità dei film di tale genere.
Il regista di Kaïro e Cure sa bene che non c’è alcun bisogno di spargimenti di sangue per turbare lo spettatore, ma da profondo conoscitore della condizione umana ne squarcia con spietata precisione il velo di Maya che la offusca: il risultato è un film strisciante, opprimente, eccessivamente disturbante nel suo inarrestabile processo di distorsione e ridefinizione della realtà, che inesorabilmente insudicia lo scenario della quotidianità immergendolo nel Male più nero e assoluto.
Il breve incipit, nel suo crudo consumarsi, rivela già molte cose sul protagonista, il rampante detective Takakura (Hidetoshi Nishijima). Brillante e ambizioso, nella sua presunzione di riuscire a controllare l’essenza più profonda di un assassino psicopatico, si lascia sfuggire di mano la situazione, finendo per essere egli stesso dominato. Nel giro di qualche fatidico minuto il luminoso futuro che aveva in mente per sé va in frantumi insieme alla vita di due persone, e sei anni dopo lo ritroviamo dietro a una cattedra come docente di criminologia, mentre porta ancora sul corpo e nell’animo i gravosi segni del proprio passato.
Incapace di ribellarsi all’irresistibile richiamo del Male, Takakura, trasferitosi da poco insieme alla bella moglie Yasuko (Yūko Takeuchi) in un quartierino di periferia, per interessi ufficialmente “scientifici” si mette all’opera insieme a un collega su un caso archiviato ormai da anni, che vide un’intera famiglia scomparire nel nulla.
Kurosawa ci porta dunque con morbosità crescente su questa falsa pista volutamente compiacente, dove l’ego di Takakura e la sua ricerca di superiorità morale possono essere facilmente appagati.
E, nel mentre, i demoni che l’ex-detective andava cercando con tanto ardore iniziano a prendere forma proprio accanto a lui.
Nella sua quotidianità, nella sua vita privata, nella sua realtà famigliare.
A sua completa insaputa.
Chi guarda troppo lontano rischia di non vedere ciò che lo circonda, sembra volerci dire Kurosawa. Ancora una volta il regista torna sulle atmosfere malate e distorte che hanno reso grande il suo cinema, nel delineare un incubo inconscio che si materializza a poco a poco sopraffacendo una realtà apparentemente perfetta e intangibile, specchio della personalità squisitamente retta del protagonista.
Un eccellente Teruyuki Kagawa entra magistralmente negli scomodi panni dell’ambiguo e luciferino Nishino, il lunatico e ossessivo vicino di casa della coppia, capace di insinuarsi con agghiacciante scioltezza nella dimensione personale di ognuno, di distruggerne le certezze e manipolarne le volontà a proprio piacimento.
La famigliarità con la quale la macchina da presa si infiltra negli ambienti, scruta nei cortili e indugia sui vivaci arredamenti domestici ha quasi del parossistico, mentre l’incedere dell’intreccio ci cala in una dimensione sempre più disturbante e infetta; il verde abbacinante dei rigogliosi giardini del quartiere domina una fotografia spenta e desaturata, abbraccia il vuoto cromatico ed emotivo che pervade la pellicola con la stessa, glaciale disinvoltura con la quale il regista tratteggia le personalità dei teatranti.
E quando la coltre di normalità decade definitivamente dopo un inaspettato cambio di prospettiva, si apre lo sguardo sulle stanze segrete, su quella voragine del Male che rappresenta metaforicamente la stessa condizione dell’uomo contemporaneo. Distacco, incomunicabilità, alienazione: la moglie Yasuko, vittima (in?)consapevole della follia del vicino di casa, trascina l’ex-detective in un oscuro vortice di disperazione che inghiotte completamente le convinzioni morali dietro a cui si è da anni barricato. Tutti vivono blindati nel loro piccolo universo, riparandosi dietro a una maschera di finte certezze, convinti di essere al sicuro solo perché non ravvisano minacce palesi; Creepy ci pone di fronte all’essenza capovolta della nostra quotidianità, ci inserisce nell’occhio del ciclone, risucchiando tutte le convinzioni basilari su cui si fonda la nostra stessa identità.
Come il gelido respiro di una realtà che si insinua sottopelle consumandoci dall’interno, la pellicola di Kiyoshi Kurosawa scava nei meandri dell’animo umano riportando alla luce la totale alienazione che affligge l’umanità, quel distacco incolmabile che separa tutti gli individui. Il viaggio all’inferno di Takakura si sublima negli squarci di orrore nascosti dalle fredde mura domestiche, le buste di plastica, i corpi pallidi e irrigiditi, il sangue e i capelli rappresi; e la catarsi si suggella con l’urlo raccapricciante emesso da Yasuko mentre stringe il marito, che riecheggia sullo sfondo di un cielo plumbeo, carico della più lucida e nichilistica comprensione del Male.