Recensione
Murnaghan
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Il ciangottio delle masse è forse il peggiore dei mali per una serie animata e, quando questa parte dal presupposto di voler dare alle masse esattamente ciò che esse richiedono, il rischio è forse anche maggiore. Si sa, la polemica è la regina delle pubblicità in casi come questi, e non stupisce che “Re:Zero”, di polemiche, ne abbia sollevate parecchie nei forum e nei blog a tema, tra chi lo eleva a nuovo capolavoro dell’animazione e chi a gioiello di realismo psicologico, azzardando spesso e volentieri paragoni ben oltre il limite di pertinenza di questo. Anche perché di suo, “Re:Zero”, aggiunge poco o niente alla carne già messa al fuoco dai predecessori illustri, prendendo a piene mani dalla corrente fantasy che vede in “Sword Art Online” il proprio archetipo - e, se possibile, eguagliandone pure il primato in fatto di infatuazione del fandom - e rubacchiando pari pari l’espediente del loop temporale da opere come “All You Need Is Kill”, giusto per citarne una; il sapore fresh è presto servito a chi di animazione ne mastica poco o facilmente si lascia abbagliare e circuire da uno scialbo cambio d’abiti, talvolta troppo impegnato a ricercare analogie barocche per squarciare il velo della sovra-interpretazione e scovare la verità che sta a un palmo dal suo naso.
Dal canto suo, la più grande delle colpe di “Re:Zero” è quella di prendersi troppo seriamente, provando e non riuscendo a caratterizzare i personaggi in modo credibile in risposta alle vicende che essi affrontano, e mandando in fumo la bella atmosfera creata dal setting piacevole e curato, e da un comparto tecnico abbondantemente sopra la media, persino nell’uso della CGI. Con pretensione e malizia, infatti, gli autori amano dilettarsi un po’ troppo col proprio protagonista - e perché no, anche con lo spettatore - imprimendogli in primis i connotati del ragazzo comune in cui il pubblico ama riconoscersi - e per il quale non per forza deve provare empatia, termine più che abusato di questi giorni -, per poi trascinarlo nell’insensatezza di una follia cieca e immotivata; ciò che ne risulta è una sterile personificazione dei vizi umani in toto, scaturita all’improvviso e senza presupposti, dalla quale similmente egli riesce a guarire, non senza l’harakiri della sceneggiatura, però, in quell’osannato diciottesimo episodio. Perché gli osanna del pubblico, di fatto, non hanno tardato a palesarsi, tanto inebriato questo dalla fatiscente, fascinosa involuzione del personaggio.
È questo che non va: non tanto l’atteggiamento imbarazzante del protagonista, non i flashback dei personaggi secondari, piazzati lì con preterintenzione giusto per suscitare qualche lacrimuccia, nemmeno il rossore e l’imbarazzo delle protagoniste, elevate a feticci, atto solo a solleticare le fantasie dei meno casti. Se si perde la consequenzialità logica delle azioni dei personaggi, cosa resta? Le sensazioni e le emozioni così facilmente volubili, con cui lo spettatore viene giocato, l’epica degli scontri e la qualità tecnica già menzionata non sono certo sufficienti a reggere soli la sceneggiatura e l’intreccio, ma paiono bastevoli per divenire domma della validità della serie agli occhi dei più, risparmiando allo staff la fatica di un adattamento con più sostanza e meno cliffhanger, che non obblighi a prendere in mano l’opera originale per vedere chiariti i propri dubbi - ammesso e non concesso che almeno questa sia esente da dolo.
E siamo arrivati al punto cardine della recensione. C’entra quel tormentone che tanto va di moda, quello dell’invettiva contro l’animazione contemporanea, e più di tutto c’entrano i fan. O per meglio dire i fanboy, quelli tutti occhi e velo di prosciutto davanti, quelli delle metafore forzate a cui alludevo prima, quelli dei sermoni verbosi senza capo né coda. Il web è letteralmente ammattito per “Re:Zero”, facendo valere quella massima un po’ desueta, “vox populi, vox Dei”, e imponendo come verità i pensieri e le interpretazioni dei più fanatici tra i fan, senza considerare che, mentre la saggezza deriva dalla capacità di farsi delle domande, la stupidità della gente viene dal pretendere di avere una risposta per ogni cosa - parafrasando Kundera.
“Re:Zero” non è nulla di nuovo, nulla di rivoluzionario e nulla di spregiudicatamente complesso e realistico; è solo l’ennesima operucola otaku-oriented che come un abile prestigiatore di strada riesce a farsi beffa di un pubblico sufficientemente credulone da incantarsi ed esaltarsi per l’ennesima variante del gioco della pallina sotto ai bicchieri.
Dal canto suo, la più grande delle colpe di “Re:Zero” è quella di prendersi troppo seriamente, provando e non riuscendo a caratterizzare i personaggi in modo credibile in risposta alle vicende che essi affrontano, e mandando in fumo la bella atmosfera creata dal setting piacevole e curato, e da un comparto tecnico abbondantemente sopra la media, persino nell’uso della CGI. Con pretensione e malizia, infatti, gli autori amano dilettarsi un po’ troppo col proprio protagonista - e perché no, anche con lo spettatore - imprimendogli in primis i connotati del ragazzo comune in cui il pubblico ama riconoscersi - e per il quale non per forza deve provare empatia, termine più che abusato di questi giorni -, per poi trascinarlo nell’insensatezza di una follia cieca e immotivata; ciò che ne risulta è una sterile personificazione dei vizi umani in toto, scaturita all’improvviso e senza presupposti, dalla quale similmente egli riesce a guarire, non senza l’harakiri della sceneggiatura, però, in quell’osannato diciottesimo episodio. Perché gli osanna del pubblico, di fatto, non hanno tardato a palesarsi, tanto inebriato questo dalla fatiscente, fascinosa involuzione del personaggio.
È questo che non va: non tanto l’atteggiamento imbarazzante del protagonista, non i flashback dei personaggi secondari, piazzati lì con preterintenzione giusto per suscitare qualche lacrimuccia, nemmeno il rossore e l’imbarazzo delle protagoniste, elevate a feticci, atto solo a solleticare le fantasie dei meno casti. Se si perde la consequenzialità logica delle azioni dei personaggi, cosa resta? Le sensazioni e le emozioni così facilmente volubili, con cui lo spettatore viene giocato, l’epica degli scontri e la qualità tecnica già menzionata non sono certo sufficienti a reggere soli la sceneggiatura e l’intreccio, ma paiono bastevoli per divenire domma della validità della serie agli occhi dei più, risparmiando allo staff la fatica di un adattamento con più sostanza e meno cliffhanger, che non obblighi a prendere in mano l’opera originale per vedere chiariti i propri dubbi - ammesso e non concesso che almeno questa sia esente da dolo.
E siamo arrivati al punto cardine della recensione. C’entra quel tormentone che tanto va di moda, quello dell’invettiva contro l’animazione contemporanea, e più di tutto c’entrano i fan. O per meglio dire i fanboy, quelli tutti occhi e velo di prosciutto davanti, quelli delle metafore forzate a cui alludevo prima, quelli dei sermoni verbosi senza capo né coda. Il web è letteralmente ammattito per “Re:Zero”, facendo valere quella massima un po’ desueta, “vox populi, vox Dei”, e imponendo come verità i pensieri e le interpretazioni dei più fanatici tra i fan, senza considerare che, mentre la saggezza deriva dalla capacità di farsi delle domande, la stupidità della gente viene dal pretendere di avere una risposta per ogni cosa - parafrasando Kundera.
“Re:Zero” non è nulla di nuovo, nulla di rivoluzionario e nulla di spregiudicatamente complesso e realistico; è solo l’ennesima operucola otaku-oriented che come un abile prestigiatore di strada riesce a farsi beffa di un pubblico sufficientemente credulone da incantarsi ed esaltarsi per l’ennesima variante del gioco della pallina sotto ai bicchieri.