Recensione
Rewrite
3.0/10
Generalmente non amo sparare sulla Croce Rossa, l’accanimento su qualcosa che già di per sé è scarso, in modo palese ed eclatante per giunta, non mi è mai piaciuto, ma in questo caso c’è un qualcosa che ha sbrigliato la mia voglia di descrivere e di raccontare, di elogiare pure da un certo punto di vista e un po’ meno di valutare, trattandosi di un prodotto che di buono non ha davvero nulla. Quel qualcosa è il seno. Sì, una n sola, niente errori. Ci vuole davvero tanto coraggio per creare un’opera pretenziosamente seriosa e farla ruotare attorno al seno femminile - fallendo miseramente in fatto di seriosità, tra l’altro. La mente del lettore potrebbe già essere partita al galoppo come il Johnny di “The Tatami Galaxy”, ma no, in “Rewrite” non c’è neanche del fanservice così esplicito, o almeno non di quel tipo. Ci sto girando intorno al succo di quest’opera, ma non senza un motivo, perché “Rewrite”, in sostanza, non parla di nulla. La voglia di appropriarsi di un seno femminile è con ogni probabilità l’elemento più costante della serie, quello su cui lo spettatore fa leva per riuscire a seguire trama e svolgimenti, un po’ una chiave di lettura nascosta tra le righe dai produttori e dagli autori, nonché la più grande delle aspirazioni e vocazioni del protagonista.
Kotarou Tennouji è un ragazzo come tanti, circondato da ragazze come tante, che fa cose comuni, tipo pestarsi con il suo amico-rivale, corteggiare e molestare un po’ le compagne di scuola e godersi in questo modo la propria adolescenza. Ah, nulla di più apparentemente falso. Il corso degli episodi, che definire intreccio sarebbe oltremodo oltraggioso verso il significato stesso del termine, mostra come ciascuno dei personaggi, nessuno escluso, abbia in realtà delle abilità nascoste, stia lottando per il destino del pianeta e in segreto desideri ardentemente avere una relazione con Kotarou - pure l’amico-rivale, a giudicare da come si comporta, proprio per non farsi mancare nulla -, ma, stante che il materiale di partenza è una visual novel, ciò non desta troppo stupore. Quello che invece stupisce è come queste scoperte concatenate da parte del protagonista, e di conseguenza dello spettatore, non siano minimamente inerenti l’una all’altra; un gran bel calderone di sentimenti urlati in faccia, azioni sconsiderate, passati struggenti che farebbero invidia ai migliori personaggi di Dickens e tanto buonismo che in questi casi male non ha mai fatto. In mezzo a questo mare di noia e ripetitività il solo desiderio, sempre vivo nella mente di Kotarou, riesce a distrarre lo spettatore che non può che compatire il povero, frustrato protagonista, tanto vicino ogni volta a agguantare il proprio obbiettivo che invece, puntualmente, gli sfugge di mano.
C’è un però, ossia quel malsano tipo di intrattenimento vacuo e insensato che si può trarre da situazioni come questa. Parlo di quel piacere malsano che solo il trash riesce a regalare e che solo nel trash è lecito ricercare.
Tuttavia quell’espediente che era stato pensato come vero motore della serie assalta il perfetto equilibrio dettato dal nulla che nei primi sei episodi si era affermato; fosse rimasto un mediocre Quinto Fabio Massimo staremmo parlando di un altro anime e sicuramente con meno rammarico, ma il coraggio per rimanere un prodotto anticonformista era manchevole nello staff e la luce di una trama inizia quindi a filtrare nella coltre di nulla della settima puntata. Si scoprono le fazioni, gli schieramenti, i combattenti e le loro ragioni, ma si finisce per condensare forzatamente il tutto in uno spazio così limitato che per forza di cose stona e stride nel contesto che era stato fino a quel momento allestito; “Rewrite” tenta il passo più lungo della gamba, quasi si fosse svegliato all’ultimo momento e cercasse ora in ogni modo di rimettersi in carreggiata, ma cade, ridicolizzandosi ancor di più e stavolta senza far ridere chi guarda. Il finale, vien da sé, è un qualcosa di ibrido tra il susseguirsi di eventi casuali e inspiegati - nonché inspiegabili, giacché casuali - dietro ai quali pur si percepisce il tentativo di conferire al tutto una parvenza anche minima di senso compiuto; un groviglio insensato di nuovi drammi ed eventi tragicomici vengono riesumati dal passato dei protagonisti, sempre in modo totalmente casuale e dissonante. Né carne né pesce, mezzo fritto e mezzo lesso, uno Psy che interpreta il suo famoso balletto con i Pantera di sottofondo. Insomma, no.
Sul piano tecnico la serie non se la cava tanto meglio, illudendo al principio con un episodio introduttivo sì lungo e tremendamente noioso, stendendo un velo sul character design, ma altrettanto curato e ben realizzato nelle animazioni, per poi digradare lentamente verso quell’approssimazione e quella scarsezza che sanno tanto o di pochi soldi o di poco tempo. Restano le musiche, decenti almeno quelle, che si perdono però nel mare di nebbia generato da tutto il resto, sceneggiatura in primis.
Il coraggio di “Rewrite” è stato quello di costituire per più di metà serie la trashata perfetta, aria fritta all’ennesima potenza, il nulla più assoluto che si regge sul solo desiderio di seno del protagonista, ma, dal momento che pure questo è venuto meno e che ha tentato di prendersi un pelo sul serio, si gioca anche l’appellativo di trashata e rimane indefinito, come i suoi personaggi e la sua trama. La seconda stagione? Masochismo per esperti, si può immaginare, ma d’altronde per un seno prosperoso si fa questo e altro.
Kotarou Tennouji è un ragazzo come tanti, circondato da ragazze come tante, che fa cose comuni, tipo pestarsi con il suo amico-rivale, corteggiare e molestare un po’ le compagne di scuola e godersi in questo modo la propria adolescenza. Ah, nulla di più apparentemente falso. Il corso degli episodi, che definire intreccio sarebbe oltremodo oltraggioso verso il significato stesso del termine, mostra come ciascuno dei personaggi, nessuno escluso, abbia in realtà delle abilità nascoste, stia lottando per il destino del pianeta e in segreto desideri ardentemente avere una relazione con Kotarou - pure l’amico-rivale, a giudicare da come si comporta, proprio per non farsi mancare nulla -, ma, stante che il materiale di partenza è una visual novel, ciò non desta troppo stupore. Quello che invece stupisce è come queste scoperte concatenate da parte del protagonista, e di conseguenza dello spettatore, non siano minimamente inerenti l’una all’altra; un gran bel calderone di sentimenti urlati in faccia, azioni sconsiderate, passati struggenti che farebbero invidia ai migliori personaggi di Dickens e tanto buonismo che in questi casi male non ha mai fatto. In mezzo a questo mare di noia e ripetitività il solo desiderio, sempre vivo nella mente di Kotarou, riesce a distrarre lo spettatore che non può che compatire il povero, frustrato protagonista, tanto vicino ogni volta a agguantare il proprio obbiettivo che invece, puntualmente, gli sfugge di mano.
C’è un però, ossia quel malsano tipo di intrattenimento vacuo e insensato che si può trarre da situazioni come questa. Parlo di quel piacere malsano che solo il trash riesce a regalare e che solo nel trash è lecito ricercare.
Tuttavia quell’espediente che era stato pensato come vero motore della serie assalta il perfetto equilibrio dettato dal nulla che nei primi sei episodi si era affermato; fosse rimasto un mediocre Quinto Fabio Massimo staremmo parlando di un altro anime e sicuramente con meno rammarico, ma il coraggio per rimanere un prodotto anticonformista era manchevole nello staff e la luce di una trama inizia quindi a filtrare nella coltre di nulla della settima puntata. Si scoprono le fazioni, gli schieramenti, i combattenti e le loro ragioni, ma si finisce per condensare forzatamente il tutto in uno spazio così limitato che per forza di cose stona e stride nel contesto che era stato fino a quel momento allestito; “Rewrite” tenta il passo più lungo della gamba, quasi si fosse svegliato all’ultimo momento e cercasse ora in ogni modo di rimettersi in carreggiata, ma cade, ridicolizzandosi ancor di più e stavolta senza far ridere chi guarda. Il finale, vien da sé, è un qualcosa di ibrido tra il susseguirsi di eventi casuali e inspiegati - nonché inspiegabili, giacché casuali - dietro ai quali pur si percepisce il tentativo di conferire al tutto una parvenza anche minima di senso compiuto; un groviglio insensato di nuovi drammi ed eventi tragicomici vengono riesumati dal passato dei protagonisti, sempre in modo totalmente casuale e dissonante. Né carne né pesce, mezzo fritto e mezzo lesso, uno Psy che interpreta il suo famoso balletto con i Pantera di sottofondo. Insomma, no.
Sul piano tecnico la serie non se la cava tanto meglio, illudendo al principio con un episodio introduttivo sì lungo e tremendamente noioso, stendendo un velo sul character design, ma altrettanto curato e ben realizzato nelle animazioni, per poi digradare lentamente verso quell’approssimazione e quella scarsezza che sanno tanto o di pochi soldi o di poco tempo. Restano le musiche, decenti almeno quelle, che si perdono però nel mare di nebbia generato da tutto il resto, sceneggiatura in primis.
Il coraggio di “Rewrite” è stato quello di costituire per più di metà serie la trashata perfetta, aria fritta all’ennesima potenza, il nulla più assoluto che si regge sul solo desiderio di seno del protagonista, ma, dal momento che pure questo è venuto meno e che ha tentato di prendersi un pelo sul serio, si gioca anche l’appellativo di trashata e rimane indefinito, come i suoi personaggi e la sua trama. La seconda stagione? Masochismo per esperti, si può immaginare, ma d’altronde per un seno prosperoso si fa questo e altro.