Recensione
Recensione di Pipebomb Teller
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Nel 1973 viene richiesto a Tezuka di scrivere una serie in quattro parti al fine di celebrare i suoi personaggi più conosciuti. Black Jack, creato solo per mantenere continuità nella storia, vi appare per la prima volta. Il successo riscosso è clamoroso: il manga si protrae per oltre un decennio, fino a incrociare gli anni ‘80, epoca di mutamenti e globalizzazione, dove l’interesse per la cultura nipponica si espande a dismisura all’estero. Per la realizzazione dell’opera tornano utili gli studi di medicina praticati dal maestro presso l’università di Osaka. Il mangaka diventa sempre più richiesto anche dai media internazionali, ma è solo dopo la sua morte che il geniale chirurgo spesso paragonato a Batman ottiene la propria trasposizione animata.
Siamo nel 1993, e per la regia non viene chiamato un nome a caso, bensì Osamu Dezaki, stretto collaboratore di Tezuka, fra i fondatori della Madhouse nonché uno degli uomini più stimati alla Tokyo Movie Shinsha, il quale, dopo un periodo trascorso fuori dal Paese, rientra in patria nello studio di animazione aperto dal maestro venticinque anni prima per gestire i suoi progetti fumettistici. Il character design, particolare e con maggiore propensione verso i volti femminili, è del fidato Akio Sugino. Al loro nome sono legate serie come “Rocky Joe”, “Jenny La Tennista”, “Space Adventure Cobra” e “Caro Fratello”.
Il lavoro viene rilasciato sul mercato degli OAV, formato redditizio che lungo gli anni ha permesso a numerosi registi di affinare la propria arte (Kawajiri su tutti), giacché utile a sperimentare tecniche alternative con un ritorno economico sicuro grazie alle licenze. Dopo infatti numerose battute a vuoto nei cinema, si comincia a stringere i fondi evitando rischi.
“Black Jack” è un viaggio all’interno del folklore nipponico, una storia matura e d’avanguardia che rispecchia la realtà contemporanea, che adegua l’animazione ai canoni del cinema e della letteratura, libera da futili convenzioni narrative, che soddisfa anche gli spettatori più giovani cresciuti con videogiochi e musica pop, mischiando innumerevoli generi. Si passa dal militarismo a vicende dai forti contorni storici e politici, evidenziando l’aspetto drammatico, attraverso una molteplicità di scelte stilistiche frutto della personalità poliedrica dell’autore, con un ritmo narrativo più lento e meno incline al pragmatismo. Ci viene presentato un prodotto duraturo e versatile dove egli ha la possibilità di dare libero sfoggio alla sua fantasia, con precisi rimandi sociali (corruzione, tradimento, violenza) e talvolta ambientalistici, in un contesto realistico privo tuttavia di riferimenti temporali. Attraverso l’anticonformismo del protagonista, Tezuka rigetta tutto il proprio disprezzo nei confronti delle istituzioni mediche.
In “Dieci indagini nel buio” affiora il significato della vita, di conseguenza scegliere la migliore fra queste dieci storie è un esercizio puramente soggettivo.
Inutile dire che siamo dinnanzi a uno dei capostipiti dell’ambito preso in esame, ne raccomando pertanto la visione assieme al lungometraggio “La Sindrome di Moira” del 1996.
Siamo nel 1993, e per la regia non viene chiamato un nome a caso, bensì Osamu Dezaki, stretto collaboratore di Tezuka, fra i fondatori della Madhouse nonché uno degli uomini più stimati alla Tokyo Movie Shinsha, il quale, dopo un periodo trascorso fuori dal Paese, rientra in patria nello studio di animazione aperto dal maestro venticinque anni prima per gestire i suoi progetti fumettistici. Il character design, particolare e con maggiore propensione verso i volti femminili, è del fidato Akio Sugino. Al loro nome sono legate serie come “Rocky Joe”, “Jenny La Tennista”, “Space Adventure Cobra” e “Caro Fratello”.
Il lavoro viene rilasciato sul mercato degli OAV, formato redditizio che lungo gli anni ha permesso a numerosi registi di affinare la propria arte (Kawajiri su tutti), giacché utile a sperimentare tecniche alternative con un ritorno economico sicuro grazie alle licenze. Dopo infatti numerose battute a vuoto nei cinema, si comincia a stringere i fondi evitando rischi.
“Black Jack” è un viaggio all’interno del folklore nipponico, una storia matura e d’avanguardia che rispecchia la realtà contemporanea, che adegua l’animazione ai canoni del cinema e della letteratura, libera da futili convenzioni narrative, che soddisfa anche gli spettatori più giovani cresciuti con videogiochi e musica pop, mischiando innumerevoli generi. Si passa dal militarismo a vicende dai forti contorni storici e politici, evidenziando l’aspetto drammatico, attraverso una molteplicità di scelte stilistiche frutto della personalità poliedrica dell’autore, con un ritmo narrativo più lento e meno incline al pragmatismo. Ci viene presentato un prodotto duraturo e versatile dove egli ha la possibilità di dare libero sfoggio alla sua fantasia, con precisi rimandi sociali (corruzione, tradimento, violenza) e talvolta ambientalistici, in un contesto realistico privo tuttavia di riferimenti temporali. Attraverso l’anticonformismo del protagonista, Tezuka rigetta tutto il proprio disprezzo nei confronti delle istituzioni mediche.
In “Dieci indagini nel buio” affiora il significato della vita, di conseguenza scegliere la migliore fra queste dieci storie è un esercizio puramente soggettivo.
Inutile dire che siamo dinnanzi a uno dei capostipiti dell’ambito preso in esame, ne raccomando pertanto la visione assieme al lungometraggio “La Sindrome di Moira” del 1996.