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Nonostante il noto girl group coreano Nine Muses abbia esordito nel 2010 sotto la guida della piccola agenzia Star Empire Entertainment, è solo nel 2013 che inizierà a godere di una notorietà abbastanza calorosa in patria, grazie a una serie di singoli di successo che segnano un vero e proprio salto di qualità rispetto al mediocre debutto. E a oggi, in quasi sette anni di attività sulla scena K-pop, le suddette idol sono andate incontro a innumerevoli sostituzioni nella formazione, rinnovandosi sui concept e migliorando continuamente la ricetta estetica e musicale per evitare di essere inghiottite dall’oblio.
Ma questo, durante la produzione di 9 Muses of Star Empire, era uno scenario teorico e quanto mai lontano. Realizzato interamente tra il 2010 e il 2011, il documentario testimonia le attività di un neonato gruppo idol che si prepara instancabilmente all’imminente “lancio” nello star system, assurgendo in tal modo a possibile “manifesto” dei tantissimi artisti K-pop che lottano, spesso senza risultato, per guadagnarsi un posto sotto le luci della ribalta. Nato da una collaborazione tra Minch & Films e Chosun Ilbo, sotto la sapiente regia del film-maker e reporter Hark-Joon Lee, 9 Muses of Star Empire è stato presentato in concorso a diversi festival internazionali, e nel 2014 persino proposto in una versione ridotta dalla nota emittente britannica BBC. A differenza della miriade di documentari e reality show coreani che seguono il debutto dei gruppi di maggior successo – prodotti solitamente a scopo promozionale dalle stesse agenzie o dai principali colossi televisivi – il film in questione, proprio per via della sua natura indipendente, sceglie forse per la prima volta di mettere a nudo il “lato oscuro” del K-pop, ovvero la dura realtà che ha luogo ogni giorno dietro le quinte di quel mondo apparentemente patinato, abbagliante e perfetto.

Il progetto Nine Muses, il cui nome deriva dalle omonime muse della mitologia greca, venne lanciato nel 2010 dall’agenzia di idol Star Empire Entertainment: negli anni precedenti erano state reclutate nove modelle di discreto successo, con l’intenzione da parte dei produttori di formare un super-gruppo indirizzato a dominare le classifiche principalmente per la sua spiccata presenza scenica. Per un lungo anno, abilmente condensato in 82 minuti di durata, l’occhio onnipresente del regista porrà silenziosamente l’attenzione sulla routine, gli allenamenti e le sofferenze quotidiane delle nove giovani idol in attesa del tanto agognato debutto. Hark-Joon Lee sceglie di filmare la realtà professionale e umana dell’agenzia con un approccio pressoché invisibile, infiltrandosi in punta di piedi negli ambienti personali delle nove ragazze, dei manager e dei dipendenti della compagnia, esplorandone la quotidianità con accurate inquadrature d’insieme ed espressivi primi piani. Gli studios della Star Empire in poco tempo diventano un luogo famigliare anche allo spettatore, mentre la macchina da presa ne esamina le palestre, gli uffici e i corridoi con uno sguardo formale sempre misurato e silenzioso, che prende il sopravvento sulla narrazione solo nei rari momenti emotivamente più intensi.
9 Muses of Star Empire trova il suo cuore pulsante e una splendida interprete in Sera, vocalist principale del gruppo e membro designato dalla compagnia ad assumere l’incarico di “leader”. Un ruolo alquanto oneroso, che le vede addossare tutte le responsabilità per gli errori e i fallimenti degli altri membri senza alcuna possibilità di appello, nonostante Sera sembri apparentemente la ragazza più talentuosa e motivata del gruppo.
Salta subito all’occhio come il dialogo creativo all’interno di quella realtà sia spesso un passaggio a senso unico, distorto dagli aspri diktat dei manager e dalla visione alquanto sfiduciata delle giovanissime ragazze, che nell’incertezza di riuscire a raggiungere il tanto ambito successo sperano quantomeno di ritagliarsi un trampolino di lancio per raggiungere i propri obiettivi personali – chi nella recitazione, chi nel canto, chi nella moda e via discorrendo. Le idol non sono che una minuscola componente di un gigantesco meccanismo produttivo, che nel nome del mero profitto economico le muove a proprio piacimento come marionette prive di un’anima e di una sensibilità. Un momento particolarmente esplicativo in tal senso è quello in cui il CEO e il comitato di produzione tengono una riunione per discutere quanto fosse carente la prima performance live del gruppo, con le ragazze confinate nella stanza adiacente e costrette a rivedere la registrazione innumerevoli volte, senza neanche la possibilità di partecipare al meeting, come bambini in punizione chiusi in camera a riflettere sui propri errori.

Ciò che colpisce fin da subito è dunque una lampante carenza di umanità che avvolge l’industria. Giorno dopo giorno, le ragazze ripetono fino allo sfinimento i passi di danza, le linee di testo e le coreografie che conoscono a memoria; si allenano nel ballo e nel canto dalla mattina alla tarda sera, stravolte dalla stanchezza e costrette a mettere da parte la famiglia e qualsiasi tipo di svago, in quanto la pratica incessante è per il severissimo CEO l’unico modo per raggiungere un risultato ottimale.
Risulta interessante – quanto desolante – notare l’assetto mentale che, lentamente, l’agenzia va forgiando nelle idol in vista del loro debutto. Quando, in uno dei momenti più toccanti dell’opera, Sera si vede togliere il ruolo di leader da parte dei piani alti insoddisfatti dal suo operato – senza consultare minimamente i membri – non c’è alcun segno di protesta, alcuna discussione, alcuna parola di disappunto. Restano solo le sue lacrime e gli abbracci consolatori delle colleghe, che accettano passivamente la decisione dei manager rimarcando il controllo praticamente inesistente che loro stesse hanno sulla propria carriera artistica e sulla propria vita.

Pur in questo clima generale spietato e sconfortante, non mancano scene più luminose e delicate; attimi frammentari che colgono a brevi sprazzi il carattere solare di quelle nove adolescenti immesse in un sistema talmente rigido e competitivo che sarebbe insostenibile per chiunque. Ne è un esempio la bella sequenza in cui Eunji, in un breve periodo di pausa, si diverte a descrivere i ruoli che i membri del gruppo avrebbero all’interno di un ipotetico contesto scolastico – dalla “secchiona” alla ragazza che sta sempre seduta in disparte a guardare fuori dalla finestra. Uno dei rari momenti in cui, forse grazie all’ambientazione all’aria aperta e distante dai malumori della Star Empire, la giovane riesce per un momento a sembrare una spensierata ventenne come tante altre.

«Non so quanto sia utile, ma ciò che è cambiato essenzialmente è che prima del debutto tra di noi c’era umanità. Quella volta ce l’avevamo. Ora non ce l’abbiamo più.»

In queste durissime parole pronunciate da Sera è racchiusa l’intera summa del discorso che il regista porta avanti. L’agenzia Star Empire, come molte altre, si fa portatrice di un vero e proprio smontaggio fisico e psicologico ai danni delle “nove muse”, che paradossalmente si palesa solo dopo il debutto: se prima c’era ancora un senso di comunità che legava le ragazze in vista dei loro sogni, dopo tutto ciò che resta è un’enorme star system a cui le idol devono sottostare a ritmi disumani; un meccanismo perfetto pronto a gettare via gli ingranaggi più deboli al minimo segno di cedimento. Le prove e gli allenamenti per gli eventi di promozione diventano ancor più soffocanti, imposti anche quando le ragazze si sentono male o sono contuse e bendate a seguito di un incidente stradale. In un camerino buio, una Hyemi sofferente confessa all’amica di non poter dire ai manager di essere malata, perché questi le darebbero un antidolorifico e la rispedirebbero ad allenarsi come se nulla fosse: queste sono le condizioni fisiche e psicologiche a cui moltissimi idol vanno incontro solo per ottenere la performance perfetta. La stessa Sera afferma con amarezza che «sarebbe stato un bel documentario se si fosse concluso con il debutto», concordando come la loro vita sia diventata se possibile ancor più vuota e sfibrante. Le ragazze sono costrette a divorarsi a vicenda per sopravvivere, in un mondo dove il successo sarà raggiunto solo da una minuscola percentuale dei tantissimi giovani che abbandonano tutto per seguire i propri sogni. E, a mente fredda, la “colpa” di tutto ciò non è neanche imputabile alle agenzie, bensì a un mercato iper-saturo totalmente assuefatto all’apparenza fisica; un mercato che ormai detta canoni e tendenze in tutta l’Asia e che sta espandendosi a macchia d’olio anche in Occidente, costretto quindi a un ricambio velocissimo e disumanizzante.

E dunque cosa spinge centinaia di adolescenti, giorno dopo giorno, a mettere in gioco anni e anni della propria vita per un frammento di celebrità breve e incerto come l’ultima fiammata di un fuoco d’artificio destinato a morire? «Questa è la mia maggiore fonte di stress, ma allo stesso tempo riesco a liberarmi dallo stress solo cantando e ballando» asserisce Sera, «è un peso che mi incatena, ma è anche qualcosa senza il quale non riesco a vivere». E osservando così la giovane intonare con infinita passione le note di una dolcissima ballad, lo sguardo volge verso la solitaria, enigmatica lacrima che le segna il bel volto.