Recensione
Your Name.
7.5/10
Un primo sguardo: il successo
Il legame tra persone distanti è la tematica che ha accompagnato l’intera carriera di Makoto Shinkai. Ne “Il giardino delle parole” è una distanza emotiva che si staglia sullo sfondo iper-realistico di una Tokyo perfettamente riprodotta, mentre in “5 cm al secondo” è più una lontananza fisica che evolve nel tempo. Dopo quindici anni di carriera è diventato un po’ un elemento rappresentativo del regista, quello dell’amore maledetto: protagonisti che non riescono a comunicare, adolescenti alle prese con una società che in un modo o nell’altro ne reprime i sentimenti; storie drammatiche, amori impossibili e, diciamolo, personaggi piatti e inespressivi. Colpa di Shinkai, del suo voler gestire tutto dei suoi film e non dedicarsi solo al lato artistico, campo in cui effettivamente riesce a comunicare qualcosa. Insomma, dalla visione dei precedenti lavori del regista ci si chiede se sia maggiore l’incomunicabilità tra protagonista maschile e femminile o tra autore e pubblico.
“Your Name.” non differisce dai propri predecessori nelle premesse, tuttavia è una storia col giusto potenziale narrativo che arriva nel momento giusto della carriera del regista. Ne “Il giardino delle parole” egli raggiunge l’apice della propria poetica visiva, ma a livello di intreccio manca ancora molto; manca l’intrattenimento, manca una storia coinvolgente che evidentemente non riesce a trovare nel quotidiano - e nelle corde del genere tragico, aggiungo io. Una prima causa del successo di questo titolo, nonché di distacco dai suoi predecessori, lo trovo quindi nel genere: “Your Name.” piace prima di tutto perché sa divertire, sa creare qualche situazione equivoca per far sorridere il pubblico, in modo un po’ furbo forse, ma efficace, e senza rinunciare all’elemento tragico amato da Shinkai; un buon timing, un po’ abusato, ma efficace almeno nella prima metà.
Il secondo motivo, sempre di distacco, è proprio la caratterizzazione dei personaggi, resa possibile da una trama che gode di una complessità e un’articolazione maggiore rispetto ai lavori precedenti. Meno distanti e più palpabili nei sentimenti e nelle emozioni, i personaggi vengono calati negli stessi problemi e in situazioni analoghe, ma l’ottica è diversa. Il character design aiuta molto in questo senso: linee dolci, morbide, un po’ più approssimate, ma decisamente più espressive, descrivono meglio quello specchio dell’animo che ogni artista con qualcosa da dire dovrebbe essere in grado di ricreare. Aggiungiamoci un elemento fantastico trattato con una naturalezza abbastanza genuina e non troppo forzata - nella prima parte - e otteniamo un prodotto finalmente scorrevole, volendo anche incalzante, o se non altro godibile dal punto di vista narrativo.
Il setting è l’ultima causa, sebbene la più banale, perché raccoglie tutti gli elementi che hanno portato il regista al successo, dall’iper-realismo dell’ambiente cittadino alla magia dei colori caldi di quelli rurali; un uso sapiente della luce che, anche in questo caso, riesce per primo a colpire lo spettatore.
Il vecchio: l’arte
La maturità artistica Shinkai l’ha raggiunta già durante la produzione de “Il giardino delle parole”, opera in cui riesce a ricreare e a gestire alla perfezione un ambiente cittadino così maniacalmente rifinito da sembrare reale. Esprime in questo modo tutto il potenziale del disegno digitale e dà prova della tanta pazienza e perizia dei propri disegnatori e animatori; colpisce, e lo fa con forza. In questo senso “Your Name.” differisce dal lavoro precedente e il regista si trova a curare contemporaneamente un ambiente rurale, dominato dalla vegetazione, dai colori accesi e da una luce calda, e uno cittadino, la sua Shinjuku, dai riflessi sui vetri dei palazzi e dalla caratteristica skyline. C’è un po’ una summa dei precedenti lavori, il Giappone tradizionale e quello moderno, il pacato e il frenetico, sempre cinti e circonfusi dell’elemento comune che ha fatto la fortuna di Shinkai: la luce.
Shinkai piace prima di tutto per la propria poetica del colore, per i contrasti delicati e la ricchezza di tonalità, oltre che di dettagli fisici. Controlla ogni aspetto della grafica in modo da renderlo il più realistico possibile e finalmente abbatte quella barriera che fino al lavoro precedente si ergeva tra personaggi e fondali, portando tutto su un unico livello. Le animazioni sono fluide e dai movimenti precisi, in qualche punto dinamiche e virtuose, altrove un po’ carenti; nel complesso è un lavoro più che buono e che viene ripagato in termini di impatto sullo spettatore. Ogni momento della giornata e ogni ambiente, interno o esterno che sia, ha le proprie tonalità e la propria luce, le proprie ombre e le proprie sfumature, ognuna diversa dall’altra. È nuovamente l’apice del realismo, ma stavolta non in dissonanza coi personaggi e la parte dinamica della scena, il che conferisce un tocco in più di magia.
L’aggiunta di effetti come gradienti e lens flare, l’ombreggiatura e la rifinitura in 2D degli elementi in computer grafica e i ritocchi a spigoli e bordi con colori chiari, atti ad accentuare l’immersione degli oggetti in una luce intensa, si sposano bene con una regia che vuole valorizzare i dettagli, anche in modo un po’ eccessivo, nell’alternare costantemente campi lunghi a primi piani un po’ troppo spinti. Tuttavia ogni cosa è calcolata, tutto ha una sua precisa funzione, e il gioco, anche stavolta, funziona alla grande.
Il nuovo: l’intreccio
Uno dei punti di stacco è rappresentato proprio dall’intreccio, cioè da come Shinkai abbia deciso di passare da storie semplici e lineari - per non dire banali - la cui unica funzione era quella di orpello del comparto grafico, a una trama sensibilmente più complessa che si sviluppa su più piani spaziali e temporali, sufficientemente ampi da permettere una caratterizzazione adeguata dei personaggi.
Taki è un ragazzo di Tokyo, vive in un appartamento con il padre nella frenetica Sinjuku, dove frequenta il liceo, lavora part-time in un ristorante e si gode la propria adolescenza assieme ai compagni di scuola. Mitsuha è una coetanea di Taki, abita nella cittadina di montagna di Itomori e vive col desiderio di riuscire ad andarsene dal proprio paese natale per trasferirsi in una grande città e sperimentare una vita da normale adolescente. I due non si sono mai incontrati, eppure per qualche motivo condividono l’uno i sogni dell’altra e viceversa; si scambiano, vivono vite diverse dalla loro e al mattino si risvegliano nel proprio letto, senza memoria alcuna di quanto accaduto durante il sonno, ma con una sensazione opprimente di malinconia a stringer loro il cuore. Questo genere di esperienza evolve, all’inizio del film, in uno scambio fisico, sebbene simile nelle modalità: Taki si sveglia nel corpo di Mitsuha e viceversa, vivono una giornata in un corpo a loro estraneo e la mattina seguente tornano in sé stessi. Lasciandosi note e appunti su quaderni e diari, i due tentano di superare con raziocinio l’imbarazzo e le difficoltà che il destino ha voluto porre loro davanti, sviluppando un rapporto di complicità che va presto oltre l’ordinaria amicizia.
La scelta di virare verso la commedia da un lato rende il film più appetibile al grande pubblico, ma dall’altro crea forti disequilibri nella bilancia dei contenuti. Le atmosfere inizialmente pacate della prima metà inquadrano le difficoltà dei due protagonisti a relazionarsi col sesso opposto in una prospettiva del tutto diversa da quella ordinaria; differenze fisiche e comportamentali, rapporti interpersonali e realtà inizialmente sconosciute, creano un simpatico - per quanto poco originale e alla lunga ripetitivo - gioco di equivoci che riesce a catturare lo spettatore.
Nella seconda parte i toni si fanno più cupi, la tensione e il ritmo incalzano e ritorna ad aleggiare sulla scena il fantasma dell’incomunicabilità delle sensazioni e dei sentimenti, mentre cresce sempre di più sia la “distanza” tra i protagonisti sia l’abuso che viene fatto dell’elemento sovrannaturale, con annesse forzature a livello di intreccio. Questo è un aspetto che penalizza parecchio l’intera opera; lo sceneggiatore - che è sempre Shinkai e sottolineo ancora che non fa, in generale, un cattivo lavoro - sembra quasi che stavolta abbia esagerato nell’infarcire il proprio lavoro di colpi di scena e situazioni che risultano poco credibili anche in un contesto fantastico, al solo fine di porre quella sfumatura tragica con la quale ama firmare i propri film. Il risultato è un connubio un po’ dissonante di ilarità e pathos, che sebbene sia atto a rappresentare quell’imprevedibilità che caratterizza la vita e trovi quindi nel film una propria raison d’être, trova comunque difficoltà nel passare in modo elegante dall’una all’altra.
Conclusioni: il superamento dell'incomunicabilità
Il tema centrale su cui il film è basato, quello dell’intrecciarsi del tempo e delle relazioni, del condividere una parte del tutto, dell’amore che supera la barriera dell’incomunicabilità e che per quanto sembri perdersi, prima o poi si ricollega, non è un tema trattato in modo approssimativo, anzi. Forse è proprio l’elemento che mi ha stupito di più del modo in cui Shinkai ha approcciato la sceneggiatura. Quello del musubi è un messaggio di speranza: se ognuno è parte di un tutto, di un intero, se si condividono delle esperienze, delle sensazioni e delle emozioni, allora quello diventa il filo rosso del destino che lega due persone e, per quanto esso si aggrovigli, si arrotoli e si spezzi, alla fine si ricomporrà e sarà di nuovo intero. Può non essere del tutto manifesto, ma c’è; così è come la nonna della protagonista, non a caso, definisce anche lo scorrere del tempo. Questo elemento funge da filo conduttore e attraversa l’intero sviluppo della storia, partendo da una situazione, sviluppando delle difficoltà e arrivando finalmente a una - per quanto forzata - conclusione. È un passo in avanti per Shinkai, sia a livello di contenuti sia di esperienza come sceneggiatore. Quello che va meno del resto, come già detto, sono le forzature dell’intreccio e una sceneggiatura che non sa gestire le informazioni da fornire allo spettatore, quasi costretta in più di un punto a mettere in scena dialoghi poco sensati e innaturali al solo fine di spiegare scelte e azioni dei personaggi. Tutto questo inficia fino a un certo punto la fruibilità del racconto, che di per sé rimane buono e scorre in modo abbastanza fluido. Sono aspetti che spero vivamente di vedere corretti - e non avrei mai pensato di dire una cosa del genere - in un prossimo ipotetico lavoro del regista, tanto mi ha incuriosito la sua inaspettata evoluzione. Non ritengo dunque “Your Name.” un capolavoro, ma, nonostante i suoi limiti, penso sia riuscito bene a comunicare il messaggio di cui si è fatto portatore, risultando nel complesso un film apprezzabile anche da chi, come il sottoscritto, non provasse particolare affezione verso Makoto Shinkai e i suoi precedenti lavori.
Il legame tra persone distanti è la tematica che ha accompagnato l’intera carriera di Makoto Shinkai. Ne “Il giardino delle parole” è una distanza emotiva che si staglia sullo sfondo iper-realistico di una Tokyo perfettamente riprodotta, mentre in “5 cm al secondo” è più una lontananza fisica che evolve nel tempo. Dopo quindici anni di carriera è diventato un po’ un elemento rappresentativo del regista, quello dell’amore maledetto: protagonisti che non riescono a comunicare, adolescenti alle prese con una società che in un modo o nell’altro ne reprime i sentimenti; storie drammatiche, amori impossibili e, diciamolo, personaggi piatti e inespressivi. Colpa di Shinkai, del suo voler gestire tutto dei suoi film e non dedicarsi solo al lato artistico, campo in cui effettivamente riesce a comunicare qualcosa. Insomma, dalla visione dei precedenti lavori del regista ci si chiede se sia maggiore l’incomunicabilità tra protagonista maschile e femminile o tra autore e pubblico.
“Your Name.” non differisce dai propri predecessori nelle premesse, tuttavia è una storia col giusto potenziale narrativo che arriva nel momento giusto della carriera del regista. Ne “Il giardino delle parole” egli raggiunge l’apice della propria poetica visiva, ma a livello di intreccio manca ancora molto; manca l’intrattenimento, manca una storia coinvolgente che evidentemente non riesce a trovare nel quotidiano - e nelle corde del genere tragico, aggiungo io. Una prima causa del successo di questo titolo, nonché di distacco dai suoi predecessori, lo trovo quindi nel genere: “Your Name.” piace prima di tutto perché sa divertire, sa creare qualche situazione equivoca per far sorridere il pubblico, in modo un po’ furbo forse, ma efficace, e senza rinunciare all’elemento tragico amato da Shinkai; un buon timing, un po’ abusato, ma efficace almeno nella prima metà.
Il secondo motivo, sempre di distacco, è proprio la caratterizzazione dei personaggi, resa possibile da una trama che gode di una complessità e un’articolazione maggiore rispetto ai lavori precedenti. Meno distanti e più palpabili nei sentimenti e nelle emozioni, i personaggi vengono calati negli stessi problemi e in situazioni analoghe, ma l’ottica è diversa. Il character design aiuta molto in questo senso: linee dolci, morbide, un po’ più approssimate, ma decisamente più espressive, descrivono meglio quello specchio dell’animo che ogni artista con qualcosa da dire dovrebbe essere in grado di ricreare. Aggiungiamoci un elemento fantastico trattato con una naturalezza abbastanza genuina e non troppo forzata - nella prima parte - e otteniamo un prodotto finalmente scorrevole, volendo anche incalzante, o se non altro godibile dal punto di vista narrativo.
Il setting è l’ultima causa, sebbene la più banale, perché raccoglie tutti gli elementi che hanno portato il regista al successo, dall’iper-realismo dell’ambiente cittadino alla magia dei colori caldi di quelli rurali; un uso sapiente della luce che, anche in questo caso, riesce per primo a colpire lo spettatore.
Il vecchio: l’arte
La maturità artistica Shinkai l’ha raggiunta già durante la produzione de “Il giardino delle parole”, opera in cui riesce a ricreare e a gestire alla perfezione un ambiente cittadino così maniacalmente rifinito da sembrare reale. Esprime in questo modo tutto il potenziale del disegno digitale e dà prova della tanta pazienza e perizia dei propri disegnatori e animatori; colpisce, e lo fa con forza. In questo senso “Your Name.” differisce dal lavoro precedente e il regista si trova a curare contemporaneamente un ambiente rurale, dominato dalla vegetazione, dai colori accesi e da una luce calda, e uno cittadino, la sua Shinjuku, dai riflessi sui vetri dei palazzi e dalla caratteristica skyline. C’è un po’ una summa dei precedenti lavori, il Giappone tradizionale e quello moderno, il pacato e il frenetico, sempre cinti e circonfusi dell’elemento comune che ha fatto la fortuna di Shinkai: la luce.
Shinkai piace prima di tutto per la propria poetica del colore, per i contrasti delicati e la ricchezza di tonalità, oltre che di dettagli fisici. Controlla ogni aspetto della grafica in modo da renderlo il più realistico possibile e finalmente abbatte quella barriera che fino al lavoro precedente si ergeva tra personaggi e fondali, portando tutto su un unico livello. Le animazioni sono fluide e dai movimenti precisi, in qualche punto dinamiche e virtuose, altrove un po’ carenti; nel complesso è un lavoro più che buono e che viene ripagato in termini di impatto sullo spettatore. Ogni momento della giornata e ogni ambiente, interno o esterno che sia, ha le proprie tonalità e la propria luce, le proprie ombre e le proprie sfumature, ognuna diversa dall’altra. È nuovamente l’apice del realismo, ma stavolta non in dissonanza coi personaggi e la parte dinamica della scena, il che conferisce un tocco in più di magia.
L’aggiunta di effetti come gradienti e lens flare, l’ombreggiatura e la rifinitura in 2D degli elementi in computer grafica e i ritocchi a spigoli e bordi con colori chiari, atti ad accentuare l’immersione degli oggetti in una luce intensa, si sposano bene con una regia che vuole valorizzare i dettagli, anche in modo un po’ eccessivo, nell’alternare costantemente campi lunghi a primi piani un po’ troppo spinti. Tuttavia ogni cosa è calcolata, tutto ha una sua precisa funzione, e il gioco, anche stavolta, funziona alla grande.
Il nuovo: l’intreccio
Uno dei punti di stacco è rappresentato proprio dall’intreccio, cioè da come Shinkai abbia deciso di passare da storie semplici e lineari - per non dire banali - la cui unica funzione era quella di orpello del comparto grafico, a una trama sensibilmente più complessa che si sviluppa su più piani spaziali e temporali, sufficientemente ampi da permettere una caratterizzazione adeguata dei personaggi.
Taki è un ragazzo di Tokyo, vive in un appartamento con il padre nella frenetica Sinjuku, dove frequenta il liceo, lavora part-time in un ristorante e si gode la propria adolescenza assieme ai compagni di scuola. Mitsuha è una coetanea di Taki, abita nella cittadina di montagna di Itomori e vive col desiderio di riuscire ad andarsene dal proprio paese natale per trasferirsi in una grande città e sperimentare una vita da normale adolescente. I due non si sono mai incontrati, eppure per qualche motivo condividono l’uno i sogni dell’altra e viceversa; si scambiano, vivono vite diverse dalla loro e al mattino si risvegliano nel proprio letto, senza memoria alcuna di quanto accaduto durante il sonno, ma con una sensazione opprimente di malinconia a stringer loro il cuore. Questo genere di esperienza evolve, all’inizio del film, in uno scambio fisico, sebbene simile nelle modalità: Taki si sveglia nel corpo di Mitsuha e viceversa, vivono una giornata in un corpo a loro estraneo e la mattina seguente tornano in sé stessi. Lasciandosi note e appunti su quaderni e diari, i due tentano di superare con raziocinio l’imbarazzo e le difficoltà che il destino ha voluto porre loro davanti, sviluppando un rapporto di complicità che va presto oltre l’ordinaria amicizia.
La scelta di virare verso la commedia da un lato rende il film più appetibile al grande pubblico, ma dall’altro crea forti disequilibri nella bilancia dei contenuti. Le atmosfere inizialmente pacate della prima metà inquadrano le difficoltà dei due protagonisti a relazionarsi col sesso opposto in una prospettiva del tutto diversa da quella ordinaria; differenze fisiche e comportamentali, rapporti interpersonali e realtà inizialmente sconosciute, creano un simpatico - per quanto poco originale e alla lunga ripetitivo - gioco di equivoci che riesce a catturare lo spettatore.
Nella seconda parte i toni si fanno più cupi, la tensione e il ritmo incalzano e ritorna ad aleggiare sulla scena il fantasma dell’incomunicabilità delle sensazioni e dei sentimenti, mentre cresce sempre di più sia la “distanza” tra i protagonisti sia l’abuso che viene fatto dell’elemento sovrannaturale, con annesse forzature a livello di intreccio. Questo è un aspetto che penalizza parecchio l’intera opera; lo sceneggiatore - che è sempre Shinkai e sottolineo ancora che non fa, in generale, un cattivo lavoro - sembra quasi che stavolta abbia esagerato nell’infarcire il proprio lavoro di colpi di scena e situazioni che risultano poco credibili anche in un contesto fantastico, al solo fine di porre quella sfumatura tragica con la quale ama firmare i propri film. Il risultato è un connubio un po’ dissonante di ilarità e pathos, che sebbene sia atto a rappresentare quell’imprevedibilità che caratterizza la vita e trovi quindi nel film una propria raison d’être, trova comunque difficoltà nel passare in modo elegante dall’una all’altra.
Conclusioni: il superamento dell'incomunicabilità
Il tema centrale su cui il film è basato, quello dell’intrecciarsi del tempo e delle relazioni, del condividere una parte del tutto, dell’amore che supera la barriera dell’incomunicabilità e che per quanto sembri perdersi, prima o poi si ricollega, non è un tema trattato in modo approssimativo, anzi. Forse è proprio l’elemento che mi ha stupito di più del modo in cui Shinkai ha approcciato la sceneggiatura. Quello del musubi è un messaggio di speranza: se ognuno è parte di un tutto, di un intero, se si condividono delle esperienze, delle sensazioni e delle emozioni, allora quello diventa il filo rosso del destino che lega due persone e, per quanto esso si aggrovigli, si arrotoli e si spezzi, alla fine si ricomporrà e sarà di nuovo intero. Può non essere del tutto manifesto, ma c’è; così è come la nonna della protagonista, non a caso, definisce anche lo scorrere del tempo. Questo elemento funge da filo conduttore e attraversa l’intero sviluppo della storia, partendo da una situazione, sviluppando delle difficoltà e arrivando finalmente a una - per quanto forzata - conclusione. È un passo in avanti per Shinkai, sia a livello di contenuti sia di esperienza come sceneggiatore. Quello che va meno del resto, come già detto, sono le forzature dell’intreccio e una sceneggiatura che non sa gestire le informazioni da fornire allo spettatore, quasi costretta in più di un punto a mettere in scena dialoghi poco sensati e innaturali al solo fine di spiegare scelte e azioni dei personaggi. Tutto questo inficia fino a un certo punto la fruibilità del racconto, che di per sé rimane buono e scorre in modo abbastanza fluido. Sono aspetti che spero vivamente di vedere corretti - e non avrei mai pensato di dire una cosa del genere - in un prossimo ipotetico lavoro del regista, tanto mi ha incuriosito la sua inaspettata evoluzione. Non ritengo dunque “Your Name.” un capolavoro, ma, nonostante i suoi limiti, penso sia riuscito bene a comunicare il messaggio di cui si è fatto portatore, risultando nel complesso un film apprezzabile anche da chi, come il sottoscritto, non provasse particolare affezione verso Makoto Shinkai e i suoi precedenti lavori.