Recensione
Scum's Wish
5.0/10
Quella di "Kuzu no Honkai" è una parabola che si esplica in due momenti, sempre presenti sulla scena, con pesatura diversa e variabile: l’immagine e la vacuità. La prima è la maschera necessaria a far passare la seconda per quello che non è: matura; l’immagine, d’altro canto, è il classico strumento che in un’opera pretenziosa come quella in questione riveste il ruolo, estremamente delicato, di traghettatore di sensazioni e amplificatore di carica patetica. Dietro alla grafica estremamente semplice e delicata di "Kuzu no Honkai", dietro ai colori tenui e alla poetica dell’evanescenza c’è questo, la necessità di decorare, atta a cristallizzare un messaggio altrimenti troppo debole e irrealistico per essere apprezzato. Il desiderio è quello di spogliare la perversione dell’animo umano del senso di impurità che comunemente le si attribuisce e raccontare una storia che, similmente, riesca a dare la parvenza che anche un cartone animato possa trasmettere contenuti maturi, se non addirittura sofisticati.
Il protagonista indiscusso della serie, a dispetto di quanto uno possa credere, non è un personaggio in carne e ossa, ma la frustrazione: la frustrazione di Hanabi Yasuraoka e Mugi Awaya, le maschere della solitudine; la frustrazione di Akane Minagawa, la maschera dell’insoddisfazione; la frustrazione di Sanae Ebato, la maschera dell’inadeguatezza. I primi sono i personaggi principali, una coppia apparentemente perfetta che si regge sulla necessità di colmare il vuoto lasciato dalla persona amata con un rimpiazzo di carne.
Hanabi e Mugi, due figure apatiche, sospese nella malinconia di una vita che non riesce a concedere loro l’accettazione del proprio amore da parte delle persone che stanno loro più a cuore. Essi consumano una passione che dovrebbe essere rivolta ad altri, immaginando di essere altrove, tra le braccia del proprio tutto, sperimentando, ancora inesperti, i piaceri della carne. Due reietti dall’amore. Vi si contrappone Akane, insegnante di musica e femme fatale incapace di rinunciare al desiderio di essere desiderata; non concede il proprio cuore a nessuno, ma arde e fa terra bruciata di chiunque, incrociata la sua strada, cada ai suoi piedi. Accortasi del debole di Hanabi per il suo professore, nonché amico di infanzia, decide di farlo suo al solo scopo di essere odiata dalla ragazzina e gettarla nella disperazione. Le premesse di "Kuzu no Honkai" sono ora servite: un racconto che vuole trasmettere frustrazione, fisica e psicologica, al fine di far riflettere sulla dicotomia intrinseca che contraddistingue l’amore: miraggio di salvezza e crudele fonte di sofferenza.
La mentalità contorta di cui tutti personaggi fanno sfoggio è la materializzazione di quel vuoto che aleggia, etereo, in tutti gli episodi e che la sceneggiatura, tramite dialoghi approssimativi, fintamente profondi e spesso inconsistenti, tenta di mascherare. La frustrazione e la perversione sono necessarie per enfatizzare, fino alla mitizzazione, sensazioni normali che ogni persona passata sotto il torchio dell’amore ha provato almeno una volta. In questo modo il coinvolgimento diventa più facile, come una sorta di Sturm und Drang distorto che prova disperatamente a travolgere lo spettatore, proprio come fa con i suoi personaggi, attraverso l’iperbole e l’estremizzazione dei sentimenti.
La manchevolezza più imperdonabile è dunque quella delle pretese prive di contenuto, troppo pesante per mantenere intatta la maschera dell’immagine, che ben presto si spezza e rivela a tutti - o quasi - la carenza di idee del soggetto originale e dell’adattamento. Le vicende della seconda metà della serie costringono a un cambiamento di punto di vista radicale, focalizzandosi sull’antagonista e sulla sua progressiva umanizzazione, e accantonando i veri personaggi principali. È lapalissiano che il soggetto attiri di più, che possa dare adito a tutta una serie di situazioni piccanti e ben più appetibili agli occhi del pubblico; tuttavia queste finiscono, a causa della già citata sceneggiatura lacunosa, per mettere ancora in ridicolo una psicologia dei personaggi già in partenza spiccia, ora ben oltre il limite del credibile. Rimangono l’involucro grafico e un sonoro gradevoli, magra consolazione a fronte di una mancata occasione di dire effettivamente qualcosa di diverso, come a suo tempo "Aku no Hana" aveva provato a fare, che invece sfocia in una banalità e un’inconsistenza di cui il panorama dell’animazione attuale, in tutta onestà, non sente ulteriore necessità.
Il protagonista indiscusso della serie, a dispetto di quanto uno possa credere, non è un personaggio in carne e ossa, ma la frustrazione: la frustrazione di Hanabi Yasuraoka e Mugi Awaya, le maschere della solitudine; la frustrazione di Akane Minagawa, la maschera dell’insoddisfazione; la frustrazione di Sanae Ebato, la maschera dell’inadeguatezza. I primi sono i personaggi principali, una coppia apparentemente perfetta che si regge sulla necessità di colmare il vuoto lasciato dalla persona amata con un rimpiazzo di carne.
Hanabi e Mugi, due figure apatiche, sospese nella malinconia di una vita che non riesce a concedere loro l’accettazione del proprio amore da parte delle persone che stanno loro più a cuore. Essi consumano una passione che dovrebbe essere rivolta ad altri, immaginando di essere altrove, tra le braccia del proprio tutto, sperimentando, ancora inesperti, i piaceri della carne. Due reietti dall’amore. Vi si contrappone Akane, insegnante di musica e femme fatale incapace di rinunciare al desiderio di essere desiderata; non concede il proprio cuore a nessuno, ma arde e fa terra bruciata di chiunque, incrociata la sua strada, cada ai suoi piedi. Accortasi del debole di Hanabi per il suo professore, nonché amico di infanzia, decide di farlo suo al solo scopo di essere odiata dalla ragazzina e gettarla nella disperazione. Le premesse di "Kuzu no Honkai" sono ora servite: un racconto che vuole trasmettere frustrazione, fisica e psicologica, al fine di far riflettere sulla dicotomia intrinseca che contraddistingue l’amore: miraggio di salvezza e crudele fonte di sofferenza.
La mentalità contorta di cui tutti personaggi fanno sfoggio è la materializzazione di quel vuoto che aleggia, etereo, in tutti gli episodi e che la sceneggiatura, tramite dialoghi approssimativi, fintamente profondi e spesso inconsistenti, tenta di mascherare. La frustrazione e la perversione sono necessarie per enfatizzare, fino alla mitizzazione, sensazioni normali che ogni persona passata sotto il torchio dell’amore ha provato almeno una volta. In questo modo il coinvolgimento diventa più facile, come una sorta di Sturm und Drang distorto che prova disperatamente a travolgere lo spettatore, proprio come fa con i suoi personaggi, attraverso l’iperbole e l’estremizzazione dei sentimenti.
La manchevolezza più imperdonabile è dunque quella delle pretese prive di contenuto, troppo pesante per mantenere intatta la maschera dell’immagine, che ben presto si spezza e rivela a tutti - o quasi - la carenza di idee del soggetto originale e dell’adattamento. Le vicende della seconda metà della serie costringono a un cambiamento di punto di vista radicale, focalizzandosi sull’antagonista e sulla sua progressiva umanizzazione, e accantonando i veri personaggi principali. È lapalissiano che il soggetto attiri di più, che possa dare adito a tutta una serie di situazioni piccanti e ben più appetibili agli occhi del pubblico; tuttavia queste finiscono, a causa della già citata sceneggiatura lacunosa, per mettere ancora in ridicolo una psicologia dei personaggi già in partenza spiccia, ora ben oltre il limite del credibile. Rimangono l’involucro grafico e un sonoro gradevoli, magra consolazione a fronte di una mancata occasione di dire effettivamente qualcosa di diverso, come a suo tempo "Aku no Hana" aveva provato a fare, che invece sfocia in una banalità e un’inconsistenza di cui il panorama dell’animazione attuale, in tutta onestà, non sente ulteriore necessità.