Recensione
The Big O
8.5/10
Il periodo a cavallo del nuovo millennio è stato una fucina di idee per quanto riguarda il genere robotico: sono anni in cui il genere si svincola completamente dalle sue origini di prodotto per l'infanzia e si prende una reputazione di prodotto sofisticato, simbolico, filosofico e riflessivo, rivolto a un pubblico postmoderno ed esigente. E così a cavallo tra il 1998 e il 2002 escono opere come "Brain Powerd", "Gasaraki" e "RahXephon"; negli stessi anni esce anche "Big O".
Scritto da Chiaki J. Konaka e diretto da Katayama Kazuyoshi, "Big O" si preannuncia come una brillante rivisitazione del grande robotico del passato, nella fattispecie quello di Mitsuteru Yokoyama di "Tetsujin 28". La rivisitazione di Konaka e Kazuyoshi non ha nulla a che fare con le ricostruzioni ipercinetiche, adrenaliniche ed eccessive di Imagawa, che negli stessi anni produrrà "Getter Robot", "Giant Robo" e poco dopo la serie di "Tetsujin 28". Al contrario, "Big O" ha un ritmo lento, ponderoso, riflessivo, ed è condito da una simbologia suggestiva e metaforica.
Forse anche per lo stile grafico occidentalizzato (la serie è stata realizzata dalla stesso studio Sunrise che ha prodotto "Batman Beyond" per la Warner Bros) la serie fu un fiasco in Giappone, tanto da essere cancellata dopo solo 13 episodi. Per fortuna la serie piacque molto negli Stati Uniti, cosicché, caso quanto mai raro, ne venne prodotta una seconda stagione con altri 13 episodi grazie ai fondi di Cartoon Network. È quindi grazie agli americani se abbiamo potuto vedere la conclusione di "Big O". Io ho visto proprio la versione americana di "Big O". I doppiaggi e adattamenti americani sono notoriamente criticabili, ma "Big O" è una felice eccezione, anzi, dirò di più: è di gran lunga il miglior doppiaggio inglese che abbia mai visto di un qualunque anime. Le voci sono davvero eccellenti, specialmente per i protagonisti Roger e Dorothy, ma in generale per tutti i personaggi. Le voci contribuiscono non poco a far amare i personaggi, che già di loro natura sono amabilissimi e davvero indovinati.
"Big O" ha tra i migliori personaggi del genere. Il protagonista Roger Smith è impeccabile nel suo completo rigorosamente nero, la sua automobile piena di trucchi alla James Bond e il suo maggiordomo guercio Norman: Haram Banjo e la match patrol vengono ridotti a tamarrate prive di stile paragonati a Roger e soltanto Garrison riesce a reggere il confronto con Norman. Dirò di più: preferisco Roger Smith anche al suo modello ispiratore Bruce Wayne, se non altro perché Batman non pilotava un robot gigante con dei giganteschi pugni a maglio che farebbero l'invidia di Popeye. L'ispirazione americana di "Big O" è fortissima e probabilmente proprio per questo la versione occidentale è riuscita benissimo: una serie ambientata in una città che fa il verso alla New York degli anni trenta e quaranta e in cui tutti i protagonisti hanno nomi anglosassoni rende meglio in inglese che in giapponese.
Da notare che dei giapponesi compaiono soltanto in una puntata filler verso la fine della serie, in cui vengono sfottuti secondo tutti i cliché negativi degli occidentali verso il Giappone; inoltre vengono sfottuti i robot componibili. In quella puntata sembra proprio di assistere alla rivalsa della vecchia guardia del robotico, composta dagli otaku attempati che disprezzano i ridicoli e infantili robot moderni degli anni settanta, contrapponendogli i virili e massicci robottoni degli anni cinquanta e sessanta. Naoki Urasawa sarebbe stato un fan di quella puntata e lo sono anch'io. Perché tutto in "Big O" è retrò, ma un retrò autentico e genuino, tanto che non manca la puntata con la piccola orfanella malata, oppure la puntata natalizia con il musicista spiantato innamorato di una dolce ragazza cieca, oppure la puntata con il pianista androide virtuoso della musica che viene usato come arma finale. Soprattutto, è il ritmo lento che rimanda al passato, e che ci fa apprezzare l'onestà e la cura della rivistazione, da contrastare con il retrò fasullo e pretestuoso delle ultracinetiche opere di Imagawa.
L'altro punto di forza di "Big O" è nelle musiche: ha una delle migliori colonne sonore che abbia mai sentito, opera di Toshihiko Sasaki ("Gundam SEED") e composta di brani originali che si rifanno a classici del Jazz d'epoca, come pure a vari brani di musica classica. Eccezionali anche opening e ending, la prima ispirata al Flash dei Queen e la seconda più melodica, in stile anni quaranta. Infine merita un plauso il mecha design, davvero eccezionale, in cui l'omaggio a Mitsuteru Yokohama è palese. Sono eccezionali anche i combattimenti, di solito molto brevi, ma estremamenti incisivi, combattimenti in cui il peso e la possanza del Big O si fanno veramente sentire. Il Big O ha tutta una serie di armi spettacolari, ma fra tutte primeggiano i giganteschi pugni a maglio: arma primitivissima, ma estremamente efficace, che non esito a classificare superiore ai moderni pugni a razzo di Mazinga (anche se in realtà l'inventore dei pugni a razzo è sempre Yokoyama, leggete "Giant Robo" se non ci credete).
Insomma, capolavoro assoluto e voto 10? Purtroppo no. Questa recensione è stata scritta prima di vedere l'ultima puntata. Dopo la visione bisogna ammettere che "The Big O" commette il grave peccato di abbondare la sua caratteristica vocazione retrò e allinearsi alla moda moderna (leggi "Evangelion") del finale metafisico e incomprensibile, con tanto di Deus ex Machina (la misteriosa "Angel"), di cui proprio non si sentiva il bisogno. Probabilmente Chiaki J. Konaka (sceneggiatore anche di "Lain" e "Texhnolyze") non ha resistito alla tentazione della cripticità. Peccato, perché quando resiste alla tentazione è un ottimo sceneggiatore, basti vedere "Devilman Lady", realizzato negli stessi anni di "Big O". Un buon finale sarebbe stato far perdere la memoria a tutti i personaggi e riportare lo show alle condizioni iniziali, con la prospettiva di nuove avventure. Così invece non si capisce cosa sia successo...
Scritto da Chiaki J. Konaka e diretto da Katayama Kazuyoshi, "Big O" si preannuncia come una brillante rivisitazione del grande robotico del passato, nella fattispecie quello di Mitsuteru Yokoyama di "Tetsujin 28". La rivisitazione di Konaka e Kazuyoshi non ha nulla a che fare con le ricostruzioni ipercinetiche, adrenaliniche ed eccessive di Imagawa, che negli stessi anni produrrà "Getter Robot", "Giant Robo" e poco dopo la serie di "Tetsujin 28". Al contrario, "Big O" ha un ritmo lento, ponderoso, riflessivo, ed è condito da una simbologia suggestiva e metaforica.
Forse anche per lo stile grafico occidentalizzato (la serie è stata realizzata dalla stesso studio Sunrise che ha prodotto "Batman Beyond" per la Warner Bros) la serie fu un fiasco in Giappone, tanto da essere cancellata dopo solo 13 episodi. Per fortuna la serie piacque molto negli Stati Uniti, cosicché, caso quanto mai raro, ne venne prodotta una seconda stagione con altri 13 episodi grazie ai fondi di Cartoon Network. È quindi grazie agli americani se abbiamo potuto vedere la conclusione di "Big O". Io ho visto proprio la versione americana di "Big O". I doppiaggi e adattamenti americani sono notoriamente criticabili, ma "Big O" è una felice eccezione, anzi, dirò di più: è di gran lunga il miglior doppiaggio inglese che abbia mai visto di un qualunque anime. Le voci sono davvero eccellenti, specialmente per i protagonisti Roger e Dorothy, ma in generale per tutti i personaggi. Le voci contribuiscono non poco a far amare i personaggi, che già di loro natura sono amabilissimi e davvero indovinati.
"Big O" ha tra i migliori personaggi del genere. Il protagonista Roger Smith è impeccabile nel suo completo rigorosamente nero, la sua automobile piena di trucchi alla James Bond e il suo maggiordomo guercio Norman: Haram Banjo e la match patrol vengono ridotti a tamarrate prive di stile paragonati a Roger e soltanto Garrison riesce a reggere il confronto con Norman. Dirò di più: preferisco Roger Smith anche al suo modello ispiratore Bruce Wayne, se non altro perché Batman non pilotava un robot gigante con dei giganteschi pugni a maglio che farebbero l'invidia di Popeye. L'ispirazione americana di "Big O" è fortissima e probabilmente proprio per questo la versione occidentale è riuscita benissimo: una serie ambientata in una città che fa il verso alla New York degli anni trenta e quaranta e in cui tutti i protagonisti hanno nomi anglosassoni rende meglio in inglese che in giapponese.
Da notare che dei giapponesi compaiono soltanto in una puntata filler verso la fine della serie, in cui vengono sfottuti secondo tutti i cliché negativi degli occidentali verso il Giappone; inoltre vengono sfottuti i robot componibili. In quella puntata sembra proprio di assistere alla rivalsa della vecchia guardia del robotico, composta dagli otaku attempati che disprezzano i ridicoli e infantili robot moderni degli anni settanta, contrapponendogli i virili e massicci robottoni degli anni cinquanta e sessanta. Naoki Urasawa sarebbe stato un fan di quella puntata e lo sono anch'io. Perché tutto in "Big O" è retrò, ma un retrò autentico e genuino, tanto che non manca la puntata con la piccola orfanella malata, oppure la puntata natalizia con il musicista spiantato innamorato di una dolce ragazza cieca, oppure la puntata con il pianista androide virtuoso della musica che viene usato come arma finale. Soprattutto, è il ritmo lento che rimanda al passato, e che ci fa apprezzare l'onestà e la cura della rivistazione, da contrastare con il retrò fasullo e pretestuoso delle ultracinetiche opere di Imagawa.
L'altro punto di forza di "Big O" è nelle musiche: ha una delle migliori colonne sonore che abbia mai sentito, opera di Toshihiko Sasaki ("Gundam SEED") e composta di brani originali che si rifanno a classici del Jazz d'epoca, come pure a vari brani di musica classica. Eccezionali anche opening e ending, la prima ispirata al Flash dei Queen e la seconda più melodica, in stile anni quaranta. Infine merita un plauso il mecha design, davvero eccezionale, in cui l'omaggio a Mitsuteru Yokohama è palese. Sono eccezionali anche i combattimenti, di solito molto brevi, ma estremamenti incisivi, combattimenti in cui il peso e la possanza del Big O si fanno veramente sentire. Il Big O ha tutta una serie di armi spettacolari, ma fra tutte primeggiano i giganteschi pugni a maglio: arma primitivissima, ma estremamente efficace, che non esito a classificare superiore ai moderni pugni a razzo di Mazinga (anche se in realtà l'inventore dei pugni a razzo è sempre Yokoyama, leggete "Giant Robo" se non ci credete).
Insomma, capolavoro assoluto e voto 10? Purtroppo no. Questa recensione è stata scritta prima di vedere l'ultima puntata. Dopo la visione bisogna ammettere che "The Big O" commette il grave peccato di abbondare la sua caratteristica vocazione retrò e allinearsi alla moda moderna (leggi "Evangelion") del finale metafisico e incomprensibile, con tanto di Deus ex Machina (la misteriosa "Angel"), di cui proprio non si sentiva il bisogno. Probabilmente Chiaki J. Konaka (sceneggiatore anche di "Lain" e "Texhnolyze") non ha resistito alla tentazione della cripticità. Peccato, perché quando resiste alla tentazione è un ottimo sceneggiatore, basti vedere "Devilman Lady", realizzato negli stessi anni di "Big O". Un buon finale sarebbe stato far perdere la memoria a tutti i personaggi e riportare lo show alle condizioni iniziali, con la prospettiva di nuove avventure. Così invece non si capisce cosa sia successo...