Recensione
Megalo Box
8.0/10
Un regista, Moriyama, davanti alla sua prima produzione televisiva di tale portata, e due sceneggiatori dal background poco rassicurante hanno tirato fuori una delle serie più belle dell'anno. Serie che nasce con l'intento di celebrare il cinquantesimo anniversario di "Ashita no Joe", il capolavoro di Asao Takamori.
Partiamo subito dal presupposto che questo a mio avviso non è propriamente un anime sportivo (spokon), principalmente per due ragioni. La prima riguarda le modalità con cui la “megalo box” viene praticata, ovvero con l’ausilio del cosiddetto “gear”: un equipaggiamento utilizzato dai pugili in grado di aumentarne notevolmente le prestazioni che, a seconda delle caratteristiche del macchinario preso in esame, quindi in base alla qualità e alla sua struttura, varia in termini di potenza, velocità, stabilità et cetera. Ciò va a influenzare in maniera drastica lo sviluppo di un match, dato che ne aumenta radicalmente il numero di fattori incontrollabili da parte dello sportivo in questione. Intendo tutta quella serie di elementi che vanno oltre l’abilità del pugile e che, a causa della natura stessa del gear, possono avvantaggiare o svantaggiare il suddetto in base alle proprie risorse economiche. Non è solo una questione di scelta, nel senso di saper valutare al meglio il proprio equipaggiamento. Sicuramente è uno dei fattori. Il problema risiede nel quanto effettivamente la propria condizione sociale precluda, di fatto, la possibilità di competere alla pari con gli altri. La stessa azienda organizzatrice dei principali tornei è produttrice di gear, di conseguenza ha tutto l’interesse nel pubblicizzare prodotti di estrema qualità, senza realmente preoccuparsi della sportività degli incontri. Anzi, in quest’ottica, più le loro creazioni si rivelano soverchianti, più il loro obiettivo può dirsi raggiunto.
In secondo luogo, non ho trovato la boxe così centrale nell’anime. Sicuramente è uno degli elementi principali, la vicenda ruota in parte attorno ad essa. C’è da dire però che ci troviamo di fronte a un modus operandi già visto, per esempio, in “Ping Pong the Animation”. Lì il ping-pong è soltanto un mezzo, uno strumento narrativo finalizzato al racconto e allo sviluppo dei personaggi, i quali evolvono intorno ad esso, riducendolo paradossalmente a un elemento secondario. Non è importante che sia il ping-pong in sé l’oggetto intorno al quale far ruotare lo sviluppo dei personaggi, ma che vi sia qualcosa a renderlo tale. Allo stesso modo, “Megalo Box” utilizza lo “sport” di riferimento come pretesto per raccontare una storia di crescita, maturazione e autorealizzazione. JD è un ragazzo che lotta con le unghie e con i pugni contro il proprio status, allo scopo di raggiungere obiettivi a lui apparentemente preclusi per il semplice fatto di essere nato nel posto sbagliato al momento sbagliato. La storia mette in scena in primo luogo una lotta per l’autodeterminazione, in eterno contrasto coi limiti della propria condizione sociale, e la boxe in tutto ciò è un mezzo, non un fine. Come ho detto prima, non è importante che essa sia di per sé il perno, ma che la vicenda vada in un certo modo per sviluppare i propri temi. Prima di essere una storia sulla boxe, è il racconto di un riscatto verso la società e verso sé stessi. JD (Junk Dog, il protagonista) combatte per mostrare al mondo, e ancora prima a sé stesso, il suo valore, fino a quel momento rimasto latente a causa delle costrizioni e degli impedimenti della sua condizione. In un certo qual modo si tratta anche di una lotta contro la propria natura.
“Un cane randagio rimane sempre un cane randagio.”
È giusto che sia la totale contingenza, l’imprevedibile casualità della posizione sociale in cui nasciamo, a determinare chi siamo e chi possiamo diventare?
È giusto rassegnarsi al caso, o al “destino”, a seconda di come lo si voglia intendere, e smettere di lottare per ambire alla propria felicità?
Sono questi i quesiti posti silenziosamente da “Megalo Box” allo spettatore.
In tutto quello detto poc’anzi, credo risieda il cuore di questa serie. Di fatto, riprende a piene mani la filosofia del manga che vuole omaggiare e la trasporta in una storia inedita.
Voglio rassicurare tutti coloro che potrebbero restare delusi dal mio aver descritto una boxe in secondo piano, perché comunque vi garantisco avrà il suo spazio. Uno dei temi principali dell’anime, benché chiaramente subordinato a quello sopra descritto, è sicuramente la ricerca della sportività, di “una vera megalo box”.
“Megalo Box” è quel genere di anime che non ha bisogno di ‘spiegoni’ di sorta o narratori esterni sempre pronti a chiarire l’intento di ciò che viene mostrato a schermo. Uno degli aspetti fondamentali di qualsiasi produzione cinematografica è la capacità di ampliare il racconto mediante la regia e l’immagine. Da questo punto di vista, “Megalo Box” si eleva in mezzo alla miriade di produzioni televisive stagionali di questi anni di animazione giapponese, proprio grazie alla sua capacità di descrivere un contesto, quindi un ambiente narrativo, plausibile e solido. Un mondo che è in grado di parlare grazie al come viene mostrato. Per farla semplice, tra i temi principali ci sono proprio il contrasto tra la ricchezza e la povertà, la disparità sociale, la discriminazione, la frustrazione nata dall’aver una sfortuna, o un destino avverso, tale da relegare l’individuo a una condizione che lo svilisce, e il tutto viene reso magnificamente da un’ottima fotografia più volte finalizzata a sottolineare questo contrasto. Nel corso degli episodi si alternano numerose panoramiche che mettono in mostra in ogni suo aspetto la doppia natura del mondo di “Megalo Box”: la società ricca e quella povera. In ogni campo, in ogni piano, sia esso ambientato in interni o esterni, la regia continuerà a comunicare a gran voce questa disparità. La città è viva e parla allo spettatore. Un modo, e forse una capacità, di costruire un’ambientazione credibile che mi ha ricordato quella perla di “Cowboy Bebop”, il quale riusciva, con pochi ma curatissimi ed eleganti movimenti di macchina, a descrivere alla perfezione l’ambiente di ogni singolo episodio, comunicandone insieme lo stato d’animo degli abitanti e le caratteristiche peculiari del posto.
Partiamo subito dal presupposto che questo a mio avviso non è propriamente un anime sportivo (spokon), principalmente per due ragioni. La prima riguarda le modalità con cui la “megalo box” viene praticata, ovvero con l’ausilio del cosiddetto “gear”: un equipaggiamento utilizzato dai pugili in grado di aumentarne notevolmente le prestazioni che, a seconda delle caratteristiche del macchinario preso in esame, quindi in base alla qualità e alla sua struttura, varia in termini di potenza, velocità, stabilità et cetera. Ciò va a influenzare in maniera drastica lo sviluppo di un match, dato che ne aumenta radicalmente il numero di fattori incontrollabili da parte dello sportivo in questione. Intendo tutta quella serie di elementi che vanno oltre l’abilità del pugile e che, a causa della natura stessa del gear, possono avvantaggiare o svantaggiare il suddetto in base alle proprie risorse economiche. Non è solo una questione di scelta, nel senso di saper valutare al meglio il proprio equipaggiamento. Sicuramente è uno dei fattori. Il problema risiede nel quanto effettivamente la propria condizione sociale precluda, di fatto, la possibilità di competere alla pari con gli altri. La stessa azienda organizzatrice dei principali tornei è produttrice di gear, di conseguenza ha tutto l’interesse nel pubblicizzare prodotti di estrema qualità, senza realmente preoccuparsi della sportività degli incontri. Anzi, in quest’ottica, più le loro creazioni si rivelano soverchianti, più il loro obiettivo può dirsi raggiunto.
In secondo luogo, non ho trovato la boxe così centrale nell’anime. Sicuramente è uno degli elementi principali, la vicenda ruota in parte attorno ad essa. C’è da dire però che ci troviamo di fronte a un modus operandi già visto, per esempio, in “Ping Pong the Animation”. Lì il ping-pong è soltanto un mezzo, uno strumento narrativo finalizzato al racconto e allo sviluppo dei personaggi, i quali evolvono intorno ad esso, riducendolo paradossalmente a un elemento secondario. Non è importante che sia il ping-pong in sé l’oggetto intorno al quale far ruotare lo sviluppo dei personaggi, ma che vi sia qualcosa a renderlo tale. Allo stesso modo, “Megalo Box” utilizza lo “sport” di riferimento come pretesto per raccontare una storia di crescita, maturazione e autorealizzazione. JD è un ragazzo che lotta con le unghie e con i pugni contro il proprio status, allo scopo di raggiungere obiettivi a lui apparentemente preclusi per il semplice fatto di essere nato nel posto sbagliato al momento sbagliato. La storia mette in scena in primo luogo una lotta per l’autodeterminazione, in eterno contrasto coi limiti della propria condizione sociale, e la boxe in tutto ciò è un mezzo, non un fine. Come ho detto prima, non è importante che essa sia di per sé il perno, ma che la vicenda vada in un certo modo per sviluppare i propri temi. Prima di essere una storia sulla boxe, è il racconto di un riscatto verso la società e verso sé stessi. JD (Junk Dog, il protagonista) combatte per mostrare al mondo, e ancora prima a sé stesso, il suo valore, fino a quel momento rimasto latente a causa delle costrizioni e degli impedimenti della sua condizione. In un certo qual modo si tratta anche di una lotta contro la propria natura.
“Un cane randagio rimane sempre un cane randagio.”
È giusto che sia la totale contingenza, l’imprevedibile casualità della posizione sociale in cui nasciamo, a determinare chi siamo e chi possiamo diventare?
È giusto rassegnarsi al caso, o al “destino”, a seconda di come lo si voglia intendere, e smettere di lottare per ambire alla propria felicità?
Sono questi i quesiti posti silenziosamente da “Megalo Box” allo spettatore.
In tutto quello detto poc’anzi, credo risieda il cuore di questa serie. Di fatto, riprende a piene mani la filosofia del manga che vuole omaggiare e la trasporta in una storia inedita.
Voglio rassicurare tutti coloro che potrebbero restare delusi dal mio aver descritto una boxe in secondo piano, perché comunque vi garantisco avrà il suo spazio. Uno dei temi principali dell’anime, benché chiaramente subordinato a quello sopra descritto, è sicuramente la ricerca della sportività, di “una vera megalo box”.
“Megalo Box” è quel genere di anime che non ha bisogno di ‘spiegoni’ di sorta o narratori esterni sempre pronti a chiarire l’intento di ciò che viene mostrato a schermo. Uno degli aspetti fondamentali di qualsiasi produzione cinematografica è la capacità di ampliare il racconto mediante la regia e l’immagine. Da questo punto di vista, “Megalo Box” si eleva in mezzo alla miriade di produzioni televisive stagionali di questi anni di animazione giapponese, proprio grazie alla sua capacità di descrivere un contesto, quindi un ambiente narrativo, plausibile e solido. Un mondo che è in grado di parlare grazie al come viene mostrato. Per farla semplice, tra i temi principali ci sono proprio il contrasto tra la ricchezza e la povertà, la disparità sociale, la discriminazione, la frustrazione nata dall’aver una sfortuna, o un destino avverso, tale da relegare l’individuo a una condizione che lo svilisce, e il tutto viene reso magnificamente da un’ottima fotografia più volte finalizzata a sottolineare questo contrasto. Nel corso degli episodi si alternano numerose panoramiche che mettono in mostra in ogni suo aspetto la doppia natura del mondo di “Megalo Box”: la società ricca e quella povera. In ogni campo, in ogni piano, sia esso ambientato in interni o esterni, la regia continuerà a comunicare a gran voce questa disparità. La città è viva e parla allo spettatore. Un modo, e forse una capacità, di costruire un’ambientazione credibile che mi ha ricordato quella perla di “Cowboy Bebop”, il quale riusciva, con pochi ma curatissimi ed eleganti movimenti di macchina, a descrivere alla perfezione l’ambiente di ogni singolo episodio, comunicandone insieme lo stato d’animo degli abitanti e le caratteristiche peculiari del posto.