Recensione
Metropolis
9.5/10
Quando non puoi essere considerato né un essere umano né un robot, ritrovandoti nel mezzo di due tipi di esistenze ma anche al di sopra di ogni cosa, perché costruita per dominare il mondo dalla vetta di una moderna Ziqqurat, la domanda: “Chi sono io?” non risulta più tanto banale. Sto parlando di Tima, la bambina androide protagonista di “Metropolis”, il grande film d’animazione giapponese uscito nel 2001, diretto da Rintaro (autore in “Manie Manie - I racconti del Labirinto”).
Basato sul manga omonimo di Osamu Tezuka (padre dell’animazione giapponese) e ispirato al sempre omonimo film muto del 1929, è stato prodotto dalla MadHouse (la quale considero già una garanzia di qualità).
Un cyberpunk a tutti gli effetti (di quelli veri, con la C maiuscola) dove, in un mondo retro-futuristico, l’uomo ha superato il potere di Dio.
Trama (per necessità parlerò di alcuni dettagli iniziali della trama, senza fare spoiler): in questa enorme città gli umani e i robot vivono insieme ma non in armonia; questi ultimi vengono trattati come schiavi e non hanno alcun diritto, nemmeno quello di possedere un nome. Se non obbediscono, spetta a loro un’esecuzione sul posto, violenta e pericolosa anche per i cittadini stessi, visto che il corpo armato che se ne occupa (un gruppo neofascista) non esita a sparare in mezzo alla folla.
Questa enorme megalopoli è suddivisa in più livelli, e solo chi può permettersi di vivere in superficie ha una vita dignitosa. Ed è proprio qui che è possibile ammirare l’imponente Ziqqurat, simbolo del potere supremo che questa nazione esercita sul mondo (quale sia la nazione non viene specificato, ma in una particolare scena viene inquadrata la Crimea, lasciando pensare che ci troviamo nell’Ucraina meridionale).
Durante i festeggiamenti dedicati al nuovo e immenso strumento di potere, giungono in città un detective giapponese di nome Shunsaku Ban, accompagnato dal nipote Kenichi. Sono sulle tracce di un pericoloso criminale, ma la loro pista li farà cadere negli intrighi di potere del Duca Red, l’uomo che ha finanziato la costruzione dell’enorme torre, dove sulla sommità si trova un trono da cui è possibile controllarne l’immenso potere, il cui posto è destinato a Tima, l’androide dall’aspetto di una bambina, l’essere perfetto che ignora la propria natura e chi sia.
Durante un orribile incendio, per salvarsi la vita, Tima e Kenichi, incontratisi non proprio per caso, finiscono nella zona più profonda della città. I due bambini, grazie all’aiuto reciproco e alla gentilezza dei robot, cominceranno il viaggio per tornare in superficie, ma il capo del gruppo neofascista è determinato a ucciderli. E tutto questo è soltanto l’inizio.
Io non ho visto il film del 1929 e non ho letto il manga di Osamu Tezuka (li recupererò assolutamente), ma, basandomi su quanto ho letto in giro, quest’opera di Rintaro ha molte più similitudini con la prima versione cinematografica, rispetto al manga. Inoltre uno dei principali antagonisti (il capo del gruppo neofascista) non c’è per niente nel fumetto, e l’androide è asessuato.
Ritengo un vero peccato l’assenza di un personaggio del genere, perché lo considero il migliore in assoluto. E’ caratterizzato egregiamente, muovendosi e agendo in base alla coerenza della propria psiche; è cattivo ed egoista, ma si muove anche con uno scopo preciso, tra cui la ricerca di un amore per cui non è stato ritenuto degno.
“Metropolis” tratta tutto ciò che ci possiamo aspettare da un cyberpunk (dimenticate i vestiti stile bondage e le lucette al neon - perché molti confondono il cyberpunk con l’ennesima rappresentazione di degrado e sentimento di ribellione, oltre che mera e singola forma estetica); la società è veloce e frenetica, non c’è spazio per chi è debole, diverso o sfortunato, e la religione, il concetto di esistenza e la pura tecnologia si fondono in un loop psicologico e filosofico. E tutto anche in perfetto stile noir, in questo caso.
La trama di per sé è semplice, ma molto moderna per i tempi, specie per il 1929 (riferendomi al film muto). E poi, come sempre affermo e continuerò a fare, non è l’originalità (parametro che ritengo un mito inutile o comunque non indispensabile) che definisce la qualità di una storia, ma il come essa viene raccontata. Ma soprattutto sono i personaggi a dover muovere i fili di questo mondo, così come questo universo di fantasia deve vivere sulla base di regole ben precise, più o meno vaste.
La vicenda di Tima mi ha toccato il cuore, così come il suo rapporto con Kenichi, il giovane nipote del detective.
Lei è venuta al mondo senza sapere chi fosse e quale fosse il suo scopo. Passerà i primi momenti della propria esistenza osservando quanto misera sia la condizione dei robot, ancor più vergognosa di quella degli umani che vivono nel peggiore dei modi.
Ma, essendo stata concepita per essere al di sopra di ogni cosa, dovrà prima o poi far fronte alla scelta di omettere i propri sentimenti per una causa più giusta; una decisione che assumerà la forma del giudizio divino.
Basato sul manga omonimo di Osamu Tezuka (padre dell’animazione giapponese) e ispirato al sempre omonimo film muto del 1929, è stato prodotto dalla MadHouse (la quale considero già una garanzia di qualità).
Un cyberpunk a tutti gli effetti (di quelli veri, con la C maiuscola) dove, in un mondo retro-futuristico, l’uomo ha superato il potere di Dio.
Trama (per necessità parlerò di alcuni dettagli iniziali della trama, senza fare spoiler): in questa enorme città gli umani e i robot vivono insieme ma non in armonia; questi ultimi vengono trattati come schiavi e non hanno alcun diritto, nemmeno quello di possedere un nome. Se non obbediscono, spetta a loro un’esecuzione sul posto, violenta e pericolosa anche per i cittadini stessi, visto che il corpo armato che se ne occupa (un gruppo neofascista) non esita a sparare in mezzo alla folla.
Questa enorme megalopoli è suddivisa in più livelli, e solo chi può permettersi di vivere in superficie ha una vita dignitosa. Ed è proprio qui che è possibile ammirare l’imponente Ziqqurat, simbolo del potere supremo che questa nazione esercita sul mondo (quale sia la nazione non viene specificato, ma in una particolare scena viene inquadrata la Crimea, lasciando pensare che ci troviamo nell’Ucraina meridionale).
Durante i festeggiamenti dedicati al nuovo e immenso strumento di potere, giungono in città un detective giapponese di nome Shunsaku Ban, accompagnato dal nipote Kenichi. Sono sulle tracce di un pericoloso criminale, ma la loro pista li farà cadere negli intrighi di potere del Duca Red, l’uomo che ha finanziato la costruzione dell’enorme torre, dove sulla sommità si trova un trono da cui è possibile controllarne l’immenso potere, il cui posto è destinato a Tima, l’androide dall’aspetto di una bambina, l’essere perfetto che ignora la propria natura e chi sia.
Durante un orribile incendio, per salvarsi la vita, Tima e Kenichi, incontratisi non proprio per caso, finiscono nella zona più profonda della città. I due bambini, grazie all’aiuto reciproco e alla gentilezza dei robot, cominceranno il viaggio per tornare in superficie, ma il capo del gruppo neofascista è determinato a ucciderli. E tutto questo è soltanto l’inizio.
Io non ho visto il film del 1929 e non ho letto il manga di Osamu Tezuka (li recupererò assolutamente), ma, basandomi su quanto ho letto in giro, quest’opera di Rintaro ha molte più similitudini con la prima versione cinematografica, rispetto al manga. Inoltre uno dei principali antagonisti (il capo del gruppo neofascista) non c’è per niente nel fumetto, e l’androide è asessuato.
Ritengo un vero peccato l’assenza di un personaggio del genere, perché lo considero il migliore in assoluto. E’ caratterizzato egregiamente, muovendosi e agendo in base alla coerenza della propria psiche; è cattivo ed egoista, ma si muove anche con uno scopo preciso, tra cui la ricerca di un amore per cui non è stato ritenuto degno.
“Metropolis” tratta tutto ciò che ci possiamo aspettare da un cyberpunk (dimenticate i vestiti stile bondage e le lucette al neon - perché molti confondono il cyberpunk con l’ennesima rappresentazione di degrado e sentimento di ribellione, oltre che mera e singola forma estetica); la società è veloce e frenetica, non c’è spazio per chi è debole, diverso o sfortunato, e la religione, il concetto di esistenza e la pura tecnologia si fondono in un loop psicologico e filosofico. E tutto anche in perfetto stile noir, in questo caso.
La trama di per sé è semplice, ma molto moderna per i tempi, specie per il 1929 (riferendomi al film muto). E poi, come sempre affermo e continuerò a fare, non è l’originalità (parametro che ritengo un mito inutile o comunque non indispensabile) che definisce la qualità di una storia, ma il come essa viene raccontata. Ma soprattutto sono i personaggi a dover muovere i fili di questo mondo, così come questo universo di fantasia deve vivere sulla base di regole ben precise, più o meno vaste.
La vicenda di Tima mi ha toccato il cuore, così come il suo rapporto con Kenichi, il giovane nipote del detective.
Lei è venuta al mondo senza sapere chi fosse e quale fosse il suo scopo. Passerà i primi momenti della propria esistenza osservando quanto misera sia la condizione dei robot, ancor più vergognosa di quella degli umani che vivono nel peggiore dei modi.
Ma, essendo stata concepita per essere al di sopra di ogni cosa, dovrà prima o poi far fronte alla scelta di omettere i propri sentimenti per una causa più giusta; una decisione che assumerà la forma del giudizio divino.