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7.0/10
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Ci sono corde che non si spezzano mai, tese su abissi profondi ma robuste come ponti che sanno dove portano.
Uno di questi ponti è Chiaki J. Konaka, sceneggiatore culto della nuova animazione seriale nipponica. Konaka è un cultore di quelle filosofie "dell'oltre", che non rivelano le loro mete e possono lasciare oscuro anche il percorso. Col suo stile, dal sapore criptico e dal peso autoriale, spesso riesce però a fornire un affresco composito di realtà che altrimenti non sarebbero proponibili al di fuori della speculazione.
A volte però le istanze descrittive non hanno basi così salde come si spera.

Nell'anime "Texhnolyze" di Hiroshi Hamazaki (sceneggiato da Konaka) si coglie perfettamente il rischio insito nell'ansia descrittiva di temi e modelli filosofici che dai testi allo schermo possono diventare dei ponti traballanti.
L'idea è quella di proporre un mondo ipotetico, un racconto metaforico che non offre allo spettatore facili interpretazioni. Col suo approccio che si può definire a pieno titolo cinematografico, l'anime è un meccanismo complesso, fatto di simbologie e richiami culturali. Un gioco di incastri, dove ogni elemento ha una sua semantica.

La trama si rivela mano a mano nel corso dei ventidue episodi, dove assistiamo al dipanarsi delle disavventure di una cittadina di nome Lux. Questo centro è preda di bande e gruppi organizzati che, a vari livelli, si contendono il potere e le gerarchie urbane, in un clima di conflittualità costante o di pace apparente.
Tre fazioni in particolare sono protagoniste degli eventi principali.
L'Organo, una sorta di enclave mafiosa che ricorda la yakuza per struttura ed estetica, e di cui il maggior esponente è Onishi.
L'Unione, un omaggio alle organizzazioni rivoluzionarie afroamericane alla Black Panthers.
Il Racan, un gruppo più piccolo guidato da Shinji, costituito perlopiù da giovani teppisti che vivono alla giornata, insinuandosi nei giochi di potere del loro piccolo mondo.
Mondo al quale si affianca il piccolo villaggio di Gabe, una realtà appartata, che vive di un tradizionalismo istituzionalizzato in un culto e in una setta, incentrati sulla figura di Ran, una profetessa bambina, oracolo dalle visioni profetiche.
In questo composito scenario vagano altri protagonisti, come Ichise, un reietto dell'Organo che cerca la sua ragione per sopravvivere, anche grazie ai miraggi della tecnica fornitagli dalla scienziata Kaneda (detta Doc); e come Yoshi, un misterioso e anonimo ometto dall'apparenza innocua.

Lux è una città in preda al totale degrado, moderna ma allo stesso tempo richiamo ad espressioni antiche (come evocato dal suo nome), teatro di sviluppo del texhnolyze, una sofisticata tecnologia che permette la fusione biomeccanica fra l'Uomo e la techne, grazie alla quale si possono sostituire arti mancanti e perfezionare il corpo umano. Un risultato ottenuto anche grazie al raffia, sostanza a metà fra il mistico e il tecnico, la cui estrazione e produzione è la fonte di sostentamento di Lux.
Il tutto all'ombra della Classe (al cui vertice siede Kano, un'eminenza grigia), altro misterioso ente che sembra osservare e dirigere dall'alto le miserie e i drammi degli abitanti della città.

L'affresco è pregno di temi e binari simbolici che appagano lo spettatore con la forza espressiva del cyberpunk e con rimandi mistici, giochi di potere e intimismo teatrale.
Il palcoscenico è una via di mezzo fra un deserto post-apocalittico e un primitivismo vibrante. Una sintesi fra le aberrazioni distopiche della techne e l'arcaismo teosofico di Lux(or?), al cui centro campeggia un obelisco dal vivido senso faraonico, emblema dal sapore biblico che evoca la religione cristiana nella premessa dell'origine stessa della città, rifugio sotterraneo, avello infernale per sconfitti ed esuli da una superficie paradiso miltonianamente perduto.
Lux è definita come il nono cerchio dell'Inferno, in chiara derivazione dantesca, ma allo stesso tempo è un'utopica illusione circonfusa di luce (lux?), un eterno nulla, orologio senza orologiaio, ma col suo icastico gnomone che sovrasta e osserva tutto e tutti, occhio sul baratro ove strisciano i dannati.

La contrapposizione manichea tra il materico e lo spirituale, tra l'utilitaristico e il mistico, tra il
texhnolyze e il raffia, è affiancata da dualismi e paralleli che trovano una loro ragion d'essere ma che appesantiscono un quadro che vive di un insospettabile barocchismo.
I giochi sui doppi contrapposti, su richiami circolari a continui ritorni, si palesano in un complesso sistema speculare dove tutto è inizio e fine allo stesso tempo, ognuno e ogni cosa è in relazione di definizione a qualcos'altro.
L'Organo è la forza di sistema, lo status quo che si impone con i suoi simulacri e le sue livree di presunto dominio. La prassi burocratica la cui vetrina del texhnolyze offre sempre lo stesso codice da legge della giungla.
L'Unione è la risposta contraria, l'alternativa alla sottomissione dell'individuo agli schemi prometeici della tecnica. La voce degli esclusi che, sotto la bandiera di "Anima, Corpo, Verità, Salvezza, Vendetta!", cerca la fuga dagli ingranaggi chapliniani dei tempi moderni.
Il Racan è la deriva anarcoide, strada obbligata degli ultimi fra gli ultimi nella piramide del destino.
Gabe e il suo culto sono la sintesi del messianismo, della resa esoterica al Fato delfico che non concepisce nulla al di là di ciò che si presume scritto nelle stelle.

Gli stessi personaggi non sfuggono al gioco di specchi, dove i ruoli sono fissi e involutivi.
Onishi è la forza devozionale, la garanzia di ordine gerarchico retto dalla costanza samuraica.
Ichise è l'ansia dell'Io che annaspa in eterno per cercare l'uscita dal non essere.
Shinji è il guitto senza scopi, vittima di un torpore autoreferenziale.
Doc è la fede negli idoli del progresso e della Scienza.
Ran è la deriva pitica dell'imponderabile, Cassandra ontologicamente prigioniera.
Kano è il profeta eterodosso che eleva il fanatismo a forma d'arte.

Questi artifici tortili però alla lunga divengono freddi ghirigori, dove la passionalità e il vigore decantano in semantiche che sanno di ornamentale più che di concreto.
Le maschere, quelle vere e quelle metaforiche, finiscono per omologarsi in una galleria di sguardi vuoti, oltre la sfera del semiotico, divenendo feticci dagli occhi senza anima.

La vis citazionista impera, soppesando le sbavature con segnacoli dal forte impatto ammonitore. La struttura del mondo, platonicamente diviso tra due realtà, tra sopra e sotto, tra Inferno e Paradiso, Vita e Morte, si deforma nel tentativo di rendere sempre quel gioco di circolarità dello spazio e del tempo, scombinando le certezze e ribaltando le definizioni.
Così ecco che la superficie si rivela essere un Paradiso falso, abitato da spettri, un trono vuoto, sfinge che parla per enigmi che nessuno ascolta; la Classe si rivela un falso demiurgo che vuole imporre l'ennesimo ordo seclorum sotto l'egida di Parche decrepite, che citano le streghe di macbethiana memoria. E Lux è il nulla senza fine, una voragine che si autoalimenta, come una divinità annoiata che specula sulla sua immortalità.
Il gioco dei rimandi è così netto da diventare parte integrante dei sottotesti tematici.
Se la semidesertica Lux sembra uscire da un ipotetico Medio Oriente in cui la fusione tra tecnologia e urbanesimo sembra già un concetto obsoleto, la superficie è invece una sequela diafana ed eterea di opere di Hopper dove trionfa l'art déco, rendendo egregiamente il concetto di vetustà dell'Eden, illusione ormai plausibile quanto gli sfondi di un set cinematografico.
Il tono distopico delle vicende è un'interessante parabola dai contenuti anche sociali, con la dicotomia tra il mondo sotto/sopra che ricorda la semantica fabiana della contrapposizione tra Eloi e Morlock ideata da H.G. Wells, ma con un interessante rovesciamento degli schemi dove, sempre in fede al gioco speculare, le vittime diventano carnefici e viceversa.
Un topos fantapolitico che cita anche importanti precursori come Zardoz.

I richiami simbolici, come l'obelisco (che ermeticamente funge da catalizzatore mistico e tecnologico), il tessuto antropologico (che in Gabe trova una summa nella cultura shintoista o nell'estetica del teatro No, più volte citato) o la simbiosi organico/meccanico (che si espleta in contorte fusioni fra il subliminale e il sovraliminale), sono un cardine talmente portante dell'opera che alla lunga diventa un canone affascinante ma dalla complessa natura rizomatica. Una complessità che lascia spazio a possibili smagliature nell'ordito ottenuto.

L'equilibrio dell'anime è infatti vittima di diverse idiosincrasie che stemperano il quadro complessivo.
Una di queste è il richiamo al pensiero e alla filosofia di Nietzsche.
Se sono intuibili (non sempre) gli omaggi all'eterno ritorno o alla volontà delle "bestie selvatiche", spesso il gioco diventa dispersivo e fumoso. In particolare riguardo alla figura dell'ubermensch, che vive sottotraccia un po' in tutte le dramatis personae, ma che si tende a identificare soprattutto col personaggio di Yoshi.
E anche qui siamo di fronte a una resa disarmonica.
Yoshi non contempla tutte le caratteristiche del modello iperantropico. Abbraccia il nichilismo attivo, gode di pura e catartica estasi nella demolizione degli idoli, ma non li abbatte tutti. Abbandona il "no" della superficie per il "sì" del sottosuolo, ma poi si informa e si intromette nel risiko di Lux. Anche lui si serve del texhnolyze, e si fa viatico della techne, l'idolo per eccellenza.
L'archetipo nietzschiano non avrebbe interesse per gli eventi e le architetture dello Stato. Non crede nella Scienza o nelle sirene della realtà (o delle pseudo-realtà). Non persegue trame né schemi teleologici.
L'amor fati del misterioso ometto coi baffi non sa di olimpica osmosi col mondo, ma di puntata sul gioco d'azzardo. Se ne va col sorriso sulle labbra, ma nel tentativo di squarciare luci soteriche.

Al vero pagliaccio non interessa il fato degli spettatori.
L'oltreuomo non è un vigile che indica strade epifaniche ma un bambino che squarta i suoi giocattoli perché hanno il marchio di fabbrica. Non vaga nell'ombra o in incognito, ma arde sulla terra come un secondo sole.
Il vero ubermensch avrebbe danzato sulle note di Mozart o dell'heavy metal, ebbro dell'esaltazione panica del leone che urla "Ich will". Un titano dell'edoné che gronda gioie consunte e sprizza promesse infrante.
Yoshi invece è solo un turista della vacuità, un pastore della noia che urina sulle file di formiche per infantile diletto. Il suo nichilismo non odora di sardonico furore ma di asettico onanismo.
Non è lo scettro di Shiva né uno dei volti di Brahma, solo un impiegato che simula uno sguardo da gatto sornione.
Abbandona il suo sacro assenso per il mediocre "sì" dei servi, torna cammello dopo aver scrollato la soma.

La potenza tecnica dell'anime è invece pienamente coerente.
I tempi soffusi ed eterei si alternano a momenti di azione e violenza cangiante dove, pur non cedendo alle lusinghe dello splatter, si coglie pienamente la consistenza materica del caos organico o del metallo urlante.
Un punto di forza è il chara di Yoshitoshi ABe, che regala una galleria di figure formi e informi, eleganti o dimesse, ripugnanti e seducenti. La perizia di ABe si coglie per esempio nella resa delle figure anziane, che evocano un'avvenenza perduta ma ancora vibrante quanto quella dei giovani, come ad esempio quella di personaggi maschili come Ichise o Kano, dall'estetica sensuale e androgina, paradigma di quella iconodulia del bello che ricorda l'omoerotica del mondo greco.

Le evocative scene di stampo ascetico, accompagnate da un comparto musicale dal sound altrettanto spirituale, sono alternate a sprazzi di futurismo techno dove l'arrangiamento è in linea col tono sci-fi della trama.

"Texhnolyze" aspira a proporre grandi temi con enfasi metaforica e vis speculativa, citazioni e trame complesse. Ma il risultato non è sempre ben coordinato, lasciando spazio a tecnicismi e virtuosismi che ammortizzano il peso tematico e simbolico.
La potenza ermetica di Konaka è sempre presente, ma le sue vette sono livellate da ritmi di regia altalenanti e climax reiterati non sempre originali.
Si percepiscono meno lo sperimentalismo e il pothos ermeneutico che facevano la grandezza di altre sue firme come "Serial Experiments Lain".

A dispetto delle sempre eleganti istanze anastasiche del culto di Gabe, l'aquila e il serpente ridono delle maschere di "Texhnolyze". Un'opera senza dubbio ambiziosa e singolare, ma che cammina su un campo minato non sempre con la dovuta attenzione, rischiando molto. Forse troppo.