Recensione
Banana Fish
9.5/10
Attenzione: la recensione contiene spoiler
Volendo sintetizzare con efficacia i differenti stati d’animo che mi hanno attraversato lungo la visione, posso ragionevolmente affermare che poche serie animate riescono a dilaniarti interiormente come quella in questione. E utilizzo l’aggettivo dilaniare non a caso, perché "Banana Fish" è un’opera che scava violentemente nelle viscere e nella psiche dello spettatore, sia per un impatto visivo feroce e diretto che per la sua componente emotiva sottilmente ambigua e perversa. Perversa non tanto per le crudeltà che sono costretti a sopportare i personaggi, seppur decisamente inusuali per un anime, ma per ciò che agisce più sottilmente, quasi sottotraccia, puntata dopo puntata. Le scelte di regia, in effetti, tendono ad attenuare, in alcuni frangenti, la violenza del manga, facendo soltanto intuire, e a giusta ragione, gli abusi sessuali subìti dal giovane capobanda; restituendoci però, in brevi istanti di gelo, i volti di chi guarda tutto ciò da una posizione terza. In alcune circostanze, non ci si sorprenda, può essere più straziante immaginare che assistere direttamente, perché il fardello che porta con sé Ash è una zavorra emotiva che accompagna lo spettatore fino all’ultimo, doloroso – e forse al contempo liberatorio – istante. L’opera in effetti si muove su due piani testuali ben distinti, che creano continue cesure e ricongiungimenti nella percezione globale che lo spettatore ha della messa in scena a cui assiste senza pause. Senza pause perché il ritmo è incalzante, l’azione è continua e gli eventi si susseguono a ripetizione, tanto che la regista utilizza sovente lo spazio dedicato alla ending per terminare il racconto della puntata.
La vicenda di base è legata all’intrigo, alla vendetta e agli scontri tra Ash e l’avversario di turno. Diversi gliene manderà contro Papa Dino lungo l’arco delle 24 puntate, e quasi altrettanti ne sconfiggerà il giovane capobanda – una sorta di Terminator in carne ed ossa, vista la sua indistruttibilità, nonostante le numerose ferite e a dispetto di una bellezza angelica che lo accomuna più a un modello efebico da copertina che a un gangster senza scrupoli. Ma le ferite peggiori non sono quelle fisiche per Ash, bensì quelle psicologiche. È qui che entra in gioco Eiji, che diventa poco a poco l’unico motivo di resistenza e voglia di vivere per un ragazzo a cui non sono evidentemente sufficienti bellezza, acume e capacità di dominio e controllo, perché oramai svuotato interiormente da una vita difficile e avara di sentimenti. Eiji sarà per lui l’unico specchio in cui guardarsi, per inseguire e ritrovare quel fanciullo precocemente strappato all’infanzia da una realtà crudele e insensata.
Sarà l’amore – fraterno, amicale e forse qualche cosa di più – a dare forza ad Ash ed Eiji, nel tempo che il destino concederà loro. Quel “forse qualche cosa di più” è alla libera interpretazione dello spettatore, perché l’anime non indugia su ciò che potrebbe essere. Non è quello che conta, in fondo, rispetto a ciò che "Banana Fish" vuole raccontarci. Il discorso narrativo che emerge prepotentemente, sovrastando a lungo andare tutti gli altri, nel manga come nell’anime, è che non esiste tempo, spazio, luogo né circostanze che possano ostacolare coloro che riescono veramente a trovarsi. Anche tra morte, dolore, degrado, cattiveria e angoscia esistenziale si può incontrare l’altro che ci corrisponde. Chiunque esso sia e da qualunque luogo provenga. Eiji, ancorché non caratterizzato come Ash, il quale è inevitabilmente al centro di tutti gli snodi della vicenda, ha un ruolo fondamentale nella storia, e sfido chiunque a non sentire un nodo alla gola quando risuonerà l’eco delle parole rivolte all’amico per mezzo lettera, negli ultimi istanti di una visione che, probabilmente, non si sarebbe potuta concludere in altro modo rispetto a quello terribilmente malinconico in cui amaramente termina.
Se sospendiamo per un attimo l’incredulità di fronte alla quasi immortalità di Ash, rispetto a ciò che subisce sia fisicamente che emotivamente, "Banana Fish" ci immerge con piglio deciso nei meandri di una storia scabrosa, evidentemente non adatta a chi ha meno di 14 anni e non ha una sufficiente consapevolezza di sé, che può coinvolgere chiunque abbia voglia di cimentarsi con un anime adulto, audace, toccante e introspettivo, senza peraltro incappare in cedimenti, vista la complessità tematica, nell’iter narrativo. Anche a livello visivo la resa è più che convincente, grazie ad animazioni fluide e dinamiche e ad una buonissima ricostruzione degli anfratti meno battuti della Grande Mela. Oltre all’apparato tecnico, apprezzabili sono anche le due opening e le due ending, con menzione particolare per la prima sigla d’apertura, "found & lost", la quale avvalendosi di un testo notevole per il genere, amalgama perfettamente un suggestivo crescendo ritmico ad eloquenti immagini simboliche. Ci sono anche riconoscibili omaggi all’opera di J.D. Salinger, a partire dall’enigmatico accostamento di parole immaginato da Akimi Yoshida (banana e fish, per l’appunto), che è ispirato a un racconto dello scrittore americano ("Un giorno ideale per i pescibanana"), fino al titolo scelto per l’ultima puntata della serie animata, "Il giovane Holden" (nell’adattamento italiano, ma immagino che nell’originale sia "Catcher in the rye"), romanzo di formazione che ha consegnato Salinger all’immortalità artistica e letteraria. Banana Fish ha anche un’ultima, rivelante peculiarità: nonostante la sostanziale assenza di personaggi femminili, è una storia scritta e diretta da donne, ed è forse per questo che riesce a trovare un insperato equilibrio tra le contrastanti suggestioni che restituisce e le scottanti tematiche che ci propone.
Scegliendo di restare fedele alla linea narrativa del manga, pur riducendola inevitabilmente all’essenziale, Hiroku Utsumi si concentra giustamente sulla caratterizzazione dei personaggi. Non solo Ash e Eiji, ma tutti coloro che, a vario titolo, entrano in scena sono ben costruiti e a loro modo necessari a dare un senso a una vicenda la quale, nonostante il ritmo adrenalinico, si congeda su note intime e rarefatte, lasciando sul campo tante vittime, qualche dubbio e una consapevolezza: c’è sempre un motivo per dare una possibilità alla vita, per non lasciarsi sopraffare dalle ombre. Anche a dispetto di un fato ritenuto ineluttabile, l’amore – è meno banale di quanto si possa credere – ci può davvero salvare.
Volendo sintetizzare con efficacia i differenti stati d’animo che mi hanno attraversato lungo la visione, posso ragionevolmente affermare che poche serie animate riescono a dilaniarti interiormente come quella in questione. E utilizzo l’aggettivo dilaniare non a caso, perché "Banana Fish" è un’opera che scava violentemente nelle viscere e nella psiche dello spettatore, sia per un impatto visivo feroce e diretto che per la sua componente emotiva sottilmente ambigua e perversa. Perversa non tanto per le crudeltà che sono costretti a sopportare i personaggi, seppur decisamente inusuali per un anime, ma per ciò che agisce più sottilmente, quasi sottotraccia, puntata dopo puntata. Le scelte di regia, in effetti, tendono ad attenuare, in alcuni frangenti, la violenza del manga, facendo soltanto intuire, e a giusta ragione, gli abusi sessuali subìti dal giovane capobanda; restituendoci però, in brevi istanti di gelo, i volti di chi guarda tutto ciò da una posizione terza. In alcune circostanze, non ci si sorprenda, può essere più straziante immaginare che assistere direttamente, perché il fardello che porta con sé Ash è una zavorra emotiva che accompagna lo spettatore fino all’ultimo, doloroso – e forse al contempo liberatorio – istante. L’opera in effetti si muove su due piani testuali ben distinti, che creano continue cesure e ricongiungimenti nella percezione globale che lo spettatore ha della messa in scena a cui assiste senza pause. Senza pause perché il ritmo è incalzante, l’azione è continua e gli eventi si susseguono a ripetizione, tanto che la regista utilizza sovente lo spazio dedicato alla ending per terminare il racconto della puntata.
La vicenda di base è legata all’intrigo, alla vendetta e agli scontri tra Ash e l’avversario di turno. Diversi gliene manderà contro Papa Dino lungo l’arco delle 24 puntate, e quasi altrettanti ne sconfiggerà il giovane capobanda – una sorta di Terminator in carne ed ossa, vista la sua indistruttibilità, nonostante le numerose ferite e a dispetto di una bellezza angelica che lo accomuna più a un modello efebico da copertina che a un gangster senza scrupoli. Ma le ferite peggiori non sono quelle fisiche per Ash, bensì quelle psicologiche. È qui che entra in gioco Eiji, che diventa poco a poco l’unico motivo di resistenza e voglia di vivere per un ragazzo a cui non sono evidentemente sufficienti bellezza, acume e capacità di dominio e controllo, perché oramai svuotato interiormente da una vita difficile e avara di sentimenti. Eiji sarà per lui l’unico specchio in cui guardarsi, per inseguire e ritrovare quel fanciullo precocemente strappato all’infanzia da una realtà crudele e insensata.
Sarà l’amore – fraterno, amicale e forse qualche cosa di più – a dare forza ad Ash ed Eiji, nel tempo che il destino concederà loro. Quel “forse qualche cosa di più” è alla libera interpretazione dello spettatore, perché l’anime non indugia su ciò che potrebbe essere. Non è quello che conta, in fondo, rispetto a ciò che "Banana Fish" vuole raccontarci. Il discorso narrativo che emerge prepotentemente, sovrastando a lungo andare tutti gli altri, nel manga come nell’anime, è che non esiste tempo, spazio, luogo né circostanze che possano ostacolare coloro che riescono veramente a trovarsi. Anche tra morte, dolore, degrado, cattiveria e angoscia esistenziale si può incontrare l’altro che ci corrisponde. Chiunque esso sia e da qualunque luogo provenga. Eiji, ancorché non caratterizzato come Ash, il quale è inevitabilmente al centro di tutti gli snodi della vicenda, ha un ruolo fondamentale nella storia, e sfido chiunque a non sentire un nodo alla gola quando risuonerà l’eco delle parole rivolte all’amico per mezzo lettera, negli ultimi istanti di una visione che, probabilmente, non si sarebbe potuta concludere in altro modo rispetto a quello terribilmente malinconico in cui amaramente termina.
Se sospendiamo per un attimo l’incredulità di fronte alla quasi immortalità di Ash, rispetto a ciò che subisce sia fisicamente che emotivamente, "Banana Fish" ci immerge con piglio deciso nei meandri di una storia scabrosa, evidentemente non adatta a chi ha meno di 14 anni e non ha una sufficiente consapevolezza di sé, che può coinvolgere chiunque abbia voglia di cimentarsi con un anime adulto, audace, toccante e introspettivo, senza peraltro incappare in cedimenti, vista la complessità tematica, nell’iter narrativo. Anche a livello visivo la resa è più che convincente, grazie ad animazioni fluide e dinamiche e ad una buonissima ricostruzione degli anfratti meno battuti della Grande Mela. Oltre all’apparato tecnico, apprezzabili sono anche le due opening e le due ending, con menzione particolare per la prima sigla d’apertura, "found & lost", la quale avvalendosi di un testo notevole per il genere, amalgama perfettamente un suggestivo crescendo ritmico ad eloquenti immagini simboliche. Ci sono anche riconoscibili omaggi all’opera di J.D. Salinger, a partire dall’enigmatico accostamento di parole immaginato da Akimi Yoshida (banana e fish, per l’appunto), che è ispirato a un racconto dello scrittore americano ("Un giorno ideale per i pescibanana"), fino al titolo scelto per l’ultima puntata della serie animata, "Il giovane Holden" (nell’adattamento italiano, ma immagino che nell’originale sia "Catcher in the rye"), romanzo di formazione che ha consegnato Salinger all’immortalità artistica e letteraria. Banana Fish ha anche un’ultima, rivelante peculiarità: nonostante la sostanziale assenza di personaggi femminili, è una storia scritta e diretta da donne, ed è forse per questo che riesce a trovare un insperato equilibrio tra le contrastanti suggestioni che restituisce e le scottanti tematiche che ci propone.
Scegliendo di restare fedele alla linea narrativa del manga, pur riducendola inevitabilmente all’essenziale, Hiroku Utsumi si concentra giustamente sulla caratterizzazione dei personaggi. Non solo Ash e Eiji, ma tutti coloro che, a vario titolo, entrano in scena sono ben costruiti e a loro modo necessari a dare un senso a una vicenda la quale, nonostante il ritmo adrenalinico, si congeda su note intime e rarefatte, lasciando sul campo tante vittime, qualche dubbio e una consapevolezza: c’è sempre un motivo per dare una possibilità alla vita, per non lasciarsi sopraffare dalle ombre. Anche a dispetto di un fato ritenuto ineluttabile, l’amore – è meno banale di quanto si possa credere – ci può davvero salvare.