Recensione
Il sublime canto del cigno di Isao Takahata
Isao Takahata, storico co-fondatore dello Studio Ghibli, è stato un leggendario perfezionista che ha rinnovato il linguaggio animato sin dalla sua prima regia cinematografica, nel lontano 1968, con “La grande avventura del principe Valiant”, opera visionaria e pionieristica divenuta un cult per gli anime fan e un punto di riferimento per le nuove generazioni di animatori, ma fu impresa totalmente fallimentare dal punto di vista commerciale. Il suo meraviglioso e straziante ultimo film, “La storia della Principessa Splendente” (“Kaguya-hime no Monogatari”), in un certo senso chiude quel ciclo e per molti versi rappresenta l’ennesima sfida ai colossi del cinema da box office e all’animazione standardizzata.
Costato oltre 35 milioni di dollari per otto anni di produzione, il film incassa al botteghino molto meno di quanto investito, ma ne esce in qualche modo a testa alta, unendo critica e pubblico di appassionati in un coro unanime di consensi, e riuscendo anche ad ottenere una piccola ma simbolica vittoria con la nomination agli Oscar per il miglior film d'animazione (battuto in finale dal mediocre “Big Hero 6”). Viene presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes del 2014, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. In Italia viene proiettato in anteprima nazionale al Lucca Comics & Games del 2014 e distribuito nelle sale cinematografiche da Lucky Red.
Liberamente tratto dal racconto popolare del X secolo “Storia di un tagliabambù” - “Taketori Monogatari” (che già aveva ispirato il cinema live con “La Principessa della luna”, 1987, di Kon Ichikawa), “La storia della Principessa Splendente” è una delle opere più personali di Takahata, un vero e proprio atto d'amore per il cinema e per l'immaginario favolistico antico.
Sulle montagne del Giappone, in una giornata di primavera, un anziano tagliatore di bambù trova, nel germoglio di una pianta, una creatura minuscola, luminosa e con le sembianze di una principessa. L'uomo porta il piccolo essere dalla moglie e la creatura si trasforma all'improvviso in una neonata. I due anziani, che non hanno figli, sono ben contenti di adottarla e la bambina cresce di giorno in giorno a un ritmo sorprendente, riuscendo presto a gattonare, camminare e infine a parlare. Lo sviluppo prodigioso della bambina, che i ragazzi del villaggio hanno ribattezzato Gemma di bambù, non è solo fisico ma anche intellettivo, psicologico e caratteriale, tanto da diventare presto una splendida ragazza. La sua presenza porta anche una certa fortuna economica all’anziano padre, che perciò decide di strapparla alla sua vita campestre e ai suoi amici contadini per condurla in città, affinché venga educata come una vera principessa e quindi destinata a un pretendente di rango adeguato. Ma la Principessa Splendente, come ora viene chiamata, ha nostalgia della libertà e dei suoi paesaggi rurali ed appare evidente che il suo sogno non è esattamente quello di contrarre un matrimonio combinato.
A un primo sguardo distratto, il titolo potrebbe suggerire qualcosa di simile a una fiaba Disney, e in effetti la protagonista dallo spirito libero che si ribella ai vincoli sociali e genitoriali, risulterà familiare a chiunque abbia visto “La sirenetta” o “Mulan”. Agli occhi degli spettatori più smaliziati invece, la creatura di Takahata apparirà più affine a certa animazione sperimentale della scena franco/belga di autori come Michel Ocelot e Sylvain Chomet. Di certo, gli appassionati di anime della prima ora riconosceranno in Kaguya-hime alcune reminiscenze dei personaggi storici dello stesso Takahata: in primis “Heidi”, la delicata epopea pastorale che aveva conquistato il pubblico italiano nel 1978; ma anche “Anna dai capelli rossi”, soprattutto si sente l’eco di quest’ultima nelle scene dell'adolescenza spensierata di Kaguya; per giungere infine al disincanto della maturità di Saeko in “Pioggia di ricordi”, con il suo nostalgico memoir. “La storia della Principessa Splendente” unisce tutte queste anime in un racconto antico e insieme moderno, aderente all’estetica tutta giapponese del mono no aware, quel particolare sentimento di tristezza legato alla caducità delle cose terrene. Qualcuno vi ha intravisto una sottesa riflessione sulla morte, poiché la velocità con cui l'esistenza della ragazza si svolge offre empaticamente il dolore per la nostra impermanenza.
Il racconto si ambienta in un passato mitico che potremmo collocare all'incirca nel periodo Heian del “Genji Monogatari”, quando per le donne è pratica estetica depilarsi le sopracciglia e annerirsi i denti. Due prospettive alquanto sgradevoli per Kaguya, che è insofferente alle cerimonie e all’etichetta, e finisce per cadere in preda alla nostalgia del suo villaggio, riproponendo l’antica dicotomia campagna/città già evidenziata in “Heidi”. Senza sopracciglia il sudore cade negli occhi e con i denti tinti di nero non si può ridere liberamente, inoltre infagottati negli scomodi vestiti alla moda è impossibile correre senza inciampare: “Che senso ha tutto questo?”, chiede la protagonista alla sua arcigna istitutrice (novella Rottenmeier), riflettendo sull’inutilità delle convenzioni che soffocano la sua gioia di vivere. Al contrario, alcuni piaceri genuini come mangiare un cocomero fresco o danzare sotto un ciliegio in fiore, assaporandone la fuggevole bellezza, rappresentano tesori inestimabili. L’equilibrio della natura nel ripetersi delle stagioni (come recita la filastrocca cantata dai bambini del villaggio) e la meraviglia del creato sono la chiave di tutto, l’origine di una felicità più pregnante e sostanziale.
Poi c’è il potere trascendente dell’amore, il motivo per cui una creatura soprannaturale decide di reincarnarsi per provare gioie e dolori dell’esperienza terrena. Nella grande città i rapporti sono regolati da gerarchie sociali e norme di comportamento che privilegiano la forma più che la sostanza, l’avere più che l’essere. Qui è impossibile un rapporto sincero ed empatico e la protagonista lo scopre a sue spese, quando finalmente fa il suo debutto in società con un grande ricevimento, al quale però non può partecipare per tradizione, ma solo ascoltare da dietro a un paravento. Proprio dopo aver ascoltato le parole meschine di un gruppo di invitati, la giovane ha uno scatto rabbioso in una delle scene più toccanti del film, destinata a passare alla storia dell'animazione: la corsa sfrenata di Kaguya che ad ogni passo ne cambia la fisionomia fino a trasformarla in un groviglio furioso e indistinto di linee nere, suggestivo del tumulto interiore del personaggio. Una scena di una potenza visiva straordinaria in cui ricorre lo sfogo liberatorio (già frequentato in “Heidi” e successivamente in “Pom Poko”) dello spogliarsi dei vestiti cittadini.
Il rapporto di Kaguya con Sotemaru è puro e idealizzato, non ha la minima connotazione passionale, e ricorda ancora una volta quello tra Heidi e Peter. Il loro fugace incontro casuale per le vie della città fa ripiombare la ragazza in una crisi esistenziale. Riesce a trovare un po’ di conforto nel piccolo angolo di giardino dove può tornare a essere Gemma di bambù, o durante una scampagnata con la frenetica danza sotto il ciliegio fiorito. A dispetto della sua natura magica, Kaguya dimostra un carattere molto umano e le sue vicissitudini sono molto concrete. Anche quando decide di assecondare il volere paterno e di adempiere agli obblighi da nobildonna coltiva in segreto la speranza di un futuro incontro con Sotemaru, mentre al contempo riceve i suoi pretendenti. Sono tutti cortigiani pieni di sé, falsi e inconsistenti, fino al mikado che reputa le sue concubine come sua proprietà. Questa sarebbe la felicità? Status sociale, beni materiali e poco altro? Non per Kaguya, che in un momento di ribrezzo e disperazione, per sfuggire alla violenza del mikado, invoca dal profondo del suo cuore il ritorno al Regno della Luna.
L’epilogo metafisico è qualcosa di totalmente elegiaco, una conclusione celestiale di proporzioni cosmiche che chiude idealmente il cerchio con le vicende terrene della Principessa Splendente. Sospesa tra Terra e Luna, l’eroina di Takahata ci mostra tutta l’evanescenza delle cose materiali che fanno perdere di vista ciò che veramente conta. Quando il corteo selenita giunge infine a reclamarla, la ragazza volge un ultimo sguardo verso la terra pensando al tempo perduto della fanciullezza e rimpiangendo tutto ciò che avrebbe potuto essere se non fosse stata strappata dalle montagne che tanto amava. Qui, i contadini sono tornati, compreso Sutemaru, con cui sarebbe potuta essere felice! Per qualche istante i due s’incontrano e volano in alto nel cielo, dove solo l’amore può portare, oltre i prati in fiore e i boschetti di bambù. Ma si tratta solo di un sogno: il ragazzo ormai ha una sua famiglia e Kaguya non può sfuggire al suo destino sulla luna, dove gli spiriti vivono un’esistenza di atarassica serenità priva di memoria.
Il ritmo suadente e il tempo dilatato del racconto, che supera le due ore in un tour de force visionario, potrebbero non avere lo stesso immediato ascendente su un pubblico abituato a certi standard hollywoodiani saturi di scene clue e gag fulminanti. In particolare la parte centrale del film unisce la generale lentezza alla ciclicità narrativa degli incontri con i vari pretendenti di turno, passaggio strumentale nel punteggiare le tappe del percorso di Kaguya. Vero motore dell’azione rimane l’aspirazione della nostra eroina a tornare a una vita semplice e il tema dominante è quello nostalgico del rimpianto, legato all'incanto estatico della natura e al messaggio ecologista che ha da sempre caratterizzato tanta produzione dello Studio Ghibli.
Una trattazione a parte la meritano i disegni e le animazioni, a prima vista abbozzati, ma che si rivelano di una finezza e di una qualità sublimi. Con tutte le idiosincrasie culturali dell’ambientazione, che attinge a una tradizione iconografica specificamente giapponese, i fotogrammi de “La storia della Principessa Splendente” si susseguono in una sorprendente galleria di piccoli quadri in divenire, spesso volutamente lasciati galleggiare nel vuoto zen della pagina bianca.
Stilisticamente più vicino al minimalismo de “I miei vicini Yamada” (notevole già di per sé nel portare sullo schermo l'essenzialità della striscia yonkoma), qui però ulteriormente raffinato da un character design molto variegato, il mondo di Kaguya-hime è un tripudio di delicati toni pastello di gusto cromaticamente impressionista, con la stesura pittorica a macchie di colore che si esalta nei giochi di luce/ombra, nei tessuti pregiati, nella natura lussureggiante. I personaggi invece sono caratterizzati dal tratto netto ed espressionista del carboncino che ne cambia i contorni a seconda degli stati d’animo e ne porta alla luce con forza i moti interiori. Combinando passato e innovazione, l’effetto complessivo è quello di un antico rotolo disegnato o di un’incisione ukyo-e che prende magicamente vita davanti ai nostri occhi: si può vedere la grana ruvida della carta da acquerello impregnarsi di colore sotto le guizzanti pennellate degli artisti, i quali operano orgogliosamente a mano, sotto la direzione esperta dello storico collaboratore Kazuo Oga, quest’ultimo già art director de “Il mio vicino Totoro”, “Pioggia di ricordi”, “Pom Poko” e “Mononoke Hime”.
Il world building iper-dettagliato a cui ci ha abituati lo Studio Ghibli qui lascia il posto a uno scenario sì rigoglioso, ma reso con apparente semplicità, altrettanto immersivo e sospeso in una dimensione seducente come una favola d’altri tempi. Particolare cura viene destinata alla descrizione della natura, colta nella sua più intima essenza dalla tecnica degli animatori che catturano il più lieve movimento degli insetti e degli uccelli, il gonfiarsi delle nuvole temporalesche che diventano draghi, i ciliegi in fiore mossi dal vento. L’indicibile bellezza della stessa Kaguya è lasciata tanto all'immaginazione quanto all'illustrazione, che si limita ad accennare con pochi tratti essenziali i lineamenti del volto, non per questo privo di espressività sottile. C'è qualcosa dell'elusività metamorfica di Ponyo nello sviluppo fisico di questa figlia della luna, una vaghezza che consente ai suoi tratti anatomici di passare quasi impercettibilmente dallo stato di un minuscolo “Pollicino”, all’età neonatale e fanciullezza, fino allo sbocciare della maturità, il tutto nell’arco di poche mirabili sequenze, come quella iniziale in cui si può apprezzare il complesso studio sui movimenti infantili, dallo strisciare al gattonare, fino al saltellare come una rana!
Alla meraviglia di questo film, unico sotto ogni punto di vista, contribuisce anche la colonna sonora di un Joe Hisaishi in stato di grazia, alla sua prima composizione per un film di Takahata. I vari temi che la compongono sono piccole perle musicali che offrono momenti di calma meditativa, con l’uso del solo koto (lo strumento a corda suonato da Kaguya) in “Melody of the Beautiful Koto”, oppure brevi intermezzi briosi e divertiti, come “Lil' Bamboo” e “Spring Waltz”, che omaggiano il classico “Pierino e il Lupo” con i leitmotiv che seguono i movimenti dei personaggi, ognuno abbinato a uno strumento musicale di volta in volta diverso (i trilli e gli svolazzamenti del flauto per gli uccellini, l'incedere saltellante degli archi per la piccola Kaguya, etc.). Non mancano abissi di malinconia con “Dispair” e “Memories of the Village”, mentre la struggente canzone finale di rito, “Memory of Life”, è affidata alla soave vocalità di Kazumi Nikaido, che ne compone anche il testo. Particolarmente toccante infine la filastrocca cantata da Kaguya e dai suoi amici, composta dallo stesso Isao Takahata.
Disegnato a mano nella migliore tradizione degli inchiostratori nipponici, animato con somma maestria e coerente fino all’ultimo fotogramma con la filosofia dello Studio Ghibli, “La storia della principessa splendente” non è solo un testamento spirituale ma anche un manifesto artistico in cui si concentra la quintessenza del cinema di Isao Takahata, il punto di arrivo dei tanti sentieri battuti nell’arco di oltre mezzo secolo di animazione: lo sperimentalismo e il folklore de “La grande avventura del principe Valiant”; l’elegia bucolica di “Heidi” e “Anna dai capelli rossi”; i fondali pittorici di “Goshu il violoncellista”; il senso di morte di “Una tomba per le lucciole”; l’istanza ecologista e la naturalità di “Pom Poko”; l’essenzialità stilistica de “I miei vicini Yamada”; l’afflato nostalgico di “Pioggia di ricordi”. Il lungo addio della principessa Kaguya nel suo viaggio verso la luna sembra rivolto non solo alla terra e alle persone amate, ma idealmente agli stessi spettatori e alla settima arte, quel cinema che Isao Takahata ha arricchito con la sua profonda sensibilità e il suo modo unico di fare animazione.
Isao Takahata, storico co-fondatore dello Studio Ghibli, è stato un leggendario perfezionista che ha rinnovato il linguaggio animato sin dalla sua prima regia cinematografica, nel lontano 1968, con “La grande avventura del principe Valiant”, opera visionaria e pionieristica divenuta un cult per gli anime fan e un punto di riferimento per le nuove generazioni di animatori, ma fu impresa totalmente fallimentare dal punto di vista commerciale. Il suo meraviglioso e straziante ultimo film, “La storia della Principessa Splendente” (“Kaguya-hime no Monogatari”), in un certo senso chiude quel ciclo e per molti versi rappresenta l’ennesima sfida ai colossi del cinema da box office e all’animazione standardizzata.
Costato oltre 35 milioni di dollari per otto anni di produzione, il film incassa al botteghino molto meno di quanto investito, ma ne esce in qualche modo a testa alta, unendo critica e pubblico di appassionati in un coro unanime di consensi, e riuscendo anche ad ottenere una piccola ma simbolica vittoria con la nomination agli Oscar per il miglior film d'animazione (battuto in finale dal mediocre “Big Hero 6”). Viene presentato in anteprima mondiale al Festival di Cannes del 2014, nella sezione Quinzaine des Réalisateurs. In Italia viene proiettato in anteprima nazionale al Lucca Comics & Games del 2014 e distribuito nelle sale cinematografiche da Lucky Red.
Liberamente tratto dal racconto popolare del X secolo “Storia di un tagliabambù” - “Taketori Monogatari” (che già aveva ispirato il cinema live con “La Principessa della luna”, 1987, di Kon Ichikawa), “La storia della Principessa Splendente” è una delle opere più personali di Takahata, un vero e proprio atto d'amore per il cinema e per l'immaginario favolistico antico.
Sulle montagne del Giappone, in una giornata di primavera, un anziano tagliatore di bambù trova, nel germoglio di una pianta, una creatura minuscola, luminosa e con le sembianze di una principessa. L'uomo porta il piccolo essere dalla moglie e la creatura si trasforma all'improvviso in una neonata. I due anziani, che non hanno figli, sono ben contenti di adottarla e la bambina cresce di giorno in giorno a un ritmo sorprendente, riuscendo presto a gattonare, camminare e infine a parlare. Lo sviluppo prodigioso della bambina, che i ragazzi del villaggio hanno ribattezzato Gemma di bambù, non è solo fisico ma anche intellettivo, psicologico e caratteriale, tanto da diventare presto una splendida ragazza. La sua presenza porta anche una certa fortuna economica all’anziano padre, che perciò decide di strapparla alla sua vita campestre e ai suoi amici contadini per condurla in città, affinché venga educata come una vera principessa e quindi destinata a un pretendente di rango adeguato. Ma la Principessa Splendente, come ora viene chiamata, ha nostalgia della libertà e dei suoi paesaggi rurali ed appare evidente che il suo sogno non è esattamente quello di contrarre un matrimonio combinato.
A un primo sguardo distratto, il titolo potrebbe suggerire qualcosa di simile a una fiaba Disney, e in effetti la protagonista dallo spirito libero che si ribella ai vincoli sociali e genitoriali, risulterà familiare a chiunque abbia visto “La sirenetta” o “Mulan”. Agli occhi degli spettatori più smaliziati invece, la creatura di Takahata apparirà più affine a certa animazione sperimentale della scena franco/belga di autori come Michel Ocelot e Sylvain Chomet. Di certo, gli appassionati di anime della prima ora riconosceranno in Kaguya-hime alcune reminiscenze dei personaggi storici dello stesso Takahata: in primis “Heidi”, la delicata epopea pastorale che aveva conquistato il pubblico italiano nel 1978; ma anche “Anna dai capelli rossi”, soprattutto si sente l’eco di quest’ultima nelle scene dell'adolescenza spensierata di Kaguya; per giungere infine al disincanto della maturità di Saeko in “Pioggia di ricordi”, con il suo nostalgico memoir. “La storia della Principessa Splendente” unisce tutte queste anime in un racconto antico e insieme moderno, aderente all’estetica tutta giapponese del mono no aware, quel particolare sentimento di tristezza legato alla caducità delle cose terrene. Qualcuno vi ha intravisto una sottesa riflessione sulla morte, poiché la velocità con cui l'esistenza della ragazza si svolge offre empaticamente il dolore per la nostra impermanenza.
Il racconto si ambienta in un passato mitico che potremmo collocare all'incirca nel periodo Heian del “Genji Monogatari”, quando per le donne è pratica estetica depilarsi le sopracciglia e annerirsi i denti. Due prospettive alquanto sgradevoli per Kaguya, che è insofferente alle cerimonie e all’etichetta, e finisce per cadere in preda alla nostalgia del suo villaggio, riproponendo l’antica dicotomia campagna/città già evidenziata in “Heidi”. Senza sopracciglia il sudore cade negli occhi e con i denti tinti di nero non si può ridere liberamente, inoltre infagottati negli scomodi vestiti alla moda è impossibile correre senza inciampare: “Che senso ha tutto questo?”, chiede la protagonista alla sua arcigna istitutrice (novella Rottenmeier), riflettendo sull’inutilità delle convenzioni che soffocano la sua gioia di vivere. Al contrario, alcuni piaceri genuini come mangiare un cocomero fresco o danzare sotto un ciliegio in fiore, assaporandone la fuggevole bellezza, rappresentano tesori inestimabili. L’equilibrio della natura nel ripetersi delle stagioni (come recita la filastrocca cantata dai bambini del villaggio) e la meraviglia del creato sono la chiave di tutto, l’origine di una felicità più pregnante e sostanziale.
Poi c’è il potere trascendente dell’amore, il motivo per cui una creatura soprannaturale decide di reincarnarsi per provare gioie e dolori dell’esperienza terrena. Nella grande città i rapporti sono regolati da gerarchie sociali e norme di comportamento che privilegiano la forma più che la sostanza, l’avere più che l’essere. Qui è impossibile un rapporto sincero ed empatico e la protagonista lo scopre a sue spese, quando finalmente fa il suo debutto in società con un grande ricevimento, al quale però non può partecipare per tradizione, ma solo ascoltare da dietro a un paravento. Proprio dopo aver ascoltato le parole meschine di un gruppo di invitati, la giovane ha uno scatto rabbioso in una delle scene più toccanti del film, destinata a passare alla storia dell'animazione: la corsa sfrenata di Kaguya che ad ogni passo ne cambia la fisionomia fino a trasformarla in un groviglio furioso e indistinto di linee nere, suggestivo del tumulto interiore del personaggio. Una scena di una potenza visiva straordinaria in cui ricorre lo sfogo liberatorio (già frequentato in “Heidi” e successivamente in “Pom Poko”) dello spogliarsi dei vestiti cittadini.
Il rapporto di Kaguya con Sotemaru è puro e idealizzato, non ha la minima connotazione passionale, e ricorda ancora una volta quello tra Heidi e Peter. Il loro fugace incontro casuale per le vie della città fa ripiombare la ragazza in una crisi esistenziale. Riesce a trovare un po’ di conforto nel piccolo angolo di giardino dove può tornare a essere Gemma di bambù, o durante una scampagnata con la frenetica danza sotto il ciliegio fiorito. A dispetto della sua natura magica, Kaguya dimostra un carattere molto umano e le sue vicissitudini sono molto concrete. Anche quando decide di assecondare il volere paterno e di adempiere agli obblighi da nobildonna coltiva in segreto la speranza di un futuro incontro con Sotemaru, mentre al contempo riceve i suoi pretendenti. Sono tutti cortigiani pieni di sé, falsi e inconsistenti, fino al mikado che reputa le sue concubine come sua proprietà. Questa sarebbe la felicità? Status sociale, beni materiali e poco altro? Non per Kaguya, che in un momento di ribrezzo e disperazione, per sfuggire alla violenza del mikado, invoca dal profondo del suo cuore il ritorno al Regno della Luna.
L’epilogo metafisico è qualcosa di totalmente elegiaco, una conclusione celestiale di proporzioni cosmiche che chiude idealmente il cerchio con le vicende terrene della Principessa Splendente. Sospesa tra Terra e Luna, l’eroina di Takahata ci mostra tutta l’evanescenza delle cose materiali che fanno perdere di vista ciò che veramente conta. Quando il corteo selenita giunge infine a reclamarla, la ragazza volge un ultimo sguardo verso la terra pensando al tempo perduto della fanciullezza e rimpiangendo tutto ciò che avrebbe potuto essere se non fosse stata strappata dalle montagne che tanto amava. Qui, i contadini sono tornati, compreso Sutemaru, con cui sarebbe potuta essere felice! Per qualche istante i due s’incontrano e volano in alto nel cielo, dove solo l’amore può portare, oltre i prati in fiore e i boschetti di bambù. Ma si tratta solo di un sogno: il ragazzo ormai ha una sua famiglia e Kaguya non può sfuggire al suo destino sulla luna, dove gli spiriti vivono un’esistenza di atarassica serenità priva di memoria.
Il ritmo suadente e il tempo dilatato del racconto, che supera le due ore in un tour de force visionario, potrebbero non avere lo stesso immediato ascendente su un pubblico abituato a certi standard hollywoodiani saturi di scene clue e gag fulminanti. In particolare la parte centrale del film unisce la generale lentezza alla ciclicità narrativa degli incontri con i vari pretendenti di turno, passaggio strumentale nel punteggiare le tappe del percorso di Kaguya. Vero motore dell’azione rimane l’aspirazione della nostra eroina a tornare a una vita semplice e il tema dominante è quello nostalgico del rimpianto, legato all'incanto estatico della natura e al messaggio ecologista che ha da sempre caratterizzato tanta produzione dello Studio Ghibli.
Una trattazione a parte la meritano i disegni e le animazioni, a prima vista abbozzati, ma che si rivelano di una finezza e di una qualità sublimi. Con tutte le idiosincrasie culturali dell’ambientazione, che attinge a una tradizione iconografica specificamente giapponese, i fotogrammi de “La storia della Principessa Splendente” si susseguono in una sorprendente galleria di piccoli quadri in divenire, spesso volutamente lasciati galleggiare nel vuoto zen della pagina bianca.
Stilisticamente più vicino al minimalismo de “I miei vicini Yamada” (notevole già di per sé nel portare sullo schermo l'essenzialità della striscia yonkoma), qui però ulteriormente raffinato da un character design molto variegato, il mondo di Kaguya-hime è un tripudio di delicati toni pastello di gusto cromaticamente impressionista, con la stesura pittorica a macchie di colore che si esalta nei giochi di luce/ombra, nei tessuti pregiati, nella natura lussureggiante. I personaggi invece sono caratterizzati dal tratto netto ed espressionista del carboncino che ne cambia i contorni a seconda degli stati d’animo e ne porta alla luce con forza i moti interiori. Combinando passato e innovazione, l’effetto complessivo è quello di un antico rotolo disegnato o di un’incisione ukyo-e che prende magicamente vita davanti ai nostri occhi: si può vedere la grana ruvida della carta da acquerello impregnarsi di colore sotto le guizzanti pennellate degli artisti, i quali operano orgogliosamente a mano, sotto la direzione esperta dello storico collaboratore Kazuo Oga, quest’ultimo già art director de “Il mio vicino Totoro”, “Pioggia di ricordi”, “Pom Poko” e “Mononoke Hime”.
Il world building iper-dettagliato a cui ci ha abituati lo Studio Ghibli qui lascia il posto a uno scenario sì rigoglioso, ma reso con apparente semplicità, altrettanto immersivo e sospeso in una dimensione seducente come una favola d’altri tempi. Particolare cura viene destinata alla descrizione della natura, colta nella sua più intima essenza dalla tecnica degli animatori che catturano il più lieve movimento degli insetti e degli uccelli, il gonfiarsi delle nuvole temporalesche che diventano draghi, i ciliegi in fiore mossi dal vento. L’indicibile bellezza della stessa Kaguya è lasciata tanto all'immaginazione quanto all'illustrazione, che si limita ad accennare con pochi tratti essenziali i lineamenti del volto, non per questo privo di espressività sottile. C'è qualcosa dell'elusività metamorfica di Ponyo nello sviluppo fisico di questa figlia della luna, una vaghezza che consente ai suoi tratti anatomici di passare quasi impercettibilmente dallo stato di un minuscolo “Pollicino”, all’età neonatale e fanciullezza, fino allo sbocciare della maturità, il tutto nell’arco di poche mirabili sequenze, come quella iniziale in cui si può apprezzare il complesso studio sui movimenti infantili, dallo strisciare al gattonare, fino al saltellare come una rana!
Alla meraviglia di questo film, unico sotto ogni punto di vista, contribuisce anche la colonna sonora di un Joe Hisaishi in stato di grazia, alla sua prima composizione per un film di Takahata. I vari temi che la compongono sono piccole perle musicali che offrono momenti di calma meditativa, con l’uso del solo koto (lo strumento a corda suonato da Kaguya) in “Melody of the Beautiful Koto”, oppure brevi intermezzi briosi e divertiti, come “Lil' Bamboo” e “Spring Waltz”, che omaggiano il classico “Pierino e il Lupo” con i leitmotiv che seguono i movimenti dei personaggi, ognuno abbinato a uno strumento musicale di volta in volta diverso (i trilli e gli svolazzamenti del flauto per gli uccellini, l'incedere saltellante degli archi per la piccola Kaguya, etc.). Non mancano abissi di malinconia con “Dispair” e “Memories of the Village”, mentre la struggente canzone finale di rito, “Memory of Life”, è affidata alla soave vocalità di Kazumi Nikaido, che ne compone anche il testo. Particolarmente toccante infine la filastrocca cantata da Kaguya e dai suoi amici, composta dallo stesso Isao Takahata.
Disegnato a mano nella migliore tradizione degli inchiostratori nipponici, animato con somma maestria e coerente fino all’ultimo fotogramma con la filosofia dello Studio Ghibli, “La storia della principessa splendente” non è solo un testamento spirituale ma anche un manifesto artistico in cui si concentra la quintessenza del cinema di Isao Takahata, il punto di arrivo dei tanti sentieri battuti nell’arco di oltre mezzo secolo di animazione: lo sperimentalismo e il folklore de “La grande avventura del principe Valiant”; l’elegia bucolica di “Heidi” e “Anna dai capelli rossi”; i fondali pittorici di “Goshu il violoncellista”; il senso di morte di “Una tomba per le lucciole”; l’istanza ecologista e la naturalità di “Pom Poko”; l’essenzialità stilistica de “I miei vicini Yamada”; l’afflato nostalgico di “Pioggia di ricordi”. Il lungo addio della principessa Kaguya nel suo viaggio verso la luna sembra rivolto non solo alla terra e alle persone amate, ma idealmente agli stessi spettatori e alla settima arte, quel cinema che Isao Takahata ha arricchito con la sua profonda sensibilità e il suo modo unico di fare animazione.