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Quando avevo letto il nome di Yuasa ero super felice, considerato che è tra i miei registi preferiti nel panorama dell’animazione. Tuttavia, come è diventato palese guardando la serie, il ruolo di Yuasa è stato, a quanto ho capito, più che altro quello di supervisore, quindi c’è davvero poco di lui in questa nuova serie.

“Japan Sinks: 2020” è una delle numerose trasposizioni del romanzo “Nihon Chinbotsu” dell’autore giapponese Sakyo Komatsu. Il fatto che sia stato trasmesso sulla piattaforma di Netflix proprio nel 2020, anno catastrofico per il mondo, dovrebbe rendere più facile empatizzare col lato tragico della trama e regalare maggiore pathos nelle scene più drammatiche.

Andiamo con ordine. La trama, in una prima superficiale lettura, ricorda quella del più famoso “Tokyo Magnitude 8.0”: Tokyo viene rasa al suolo da un fortissimo terremoto. A questa tragedia, se ne aggiungono a poco a poco altre, tra cui tsunami ed eruzione del monte Fuji, portando al collasso l’intero Giappone. Protagonista di questo dramma è la famiglia Muto che, al momento della prima scossa, si trova separata, e farà di tutto per riunirsi e affrontare insieme ciò che li attende.

Sarà difficile per me dire cos’ha di buono e di meno buono questa brevissima serie, perché spesso quelli che partono come punti di forza si rivelano - andando avanti - proprio degli errori madornali.
In primis il rapporto con la morte. La morte in “Japan Sinks: 2020” non viene minimamente risparmiata, viene mostrata in tutta la sua meschinità e ferocia. È improvvisa ed è inaccettabile, e nelle prime puntate questo elemento funziona anche piuttosto bene, attraverso le espressioni esterrefatte dei protagonisti, o dei sensi di colpa che li affliggono quando non possono salvare amici e sconosciuti. Tuttavia, come dicevo, andando avanti con le puntate, questo particolare diventa da un lato fastidioso, e dall’altro mal gestito. Infatti - evitando spoiler - alcune morti importanti all’interno della serie sono totalmente prive di pathos e di conseguenze emotive, anche negli episodi immediatamente successivi. Considerate le sfumature drammatiche con cui vengono spesso descritte, è inaccettabile vedere i protagonisti, o chi altro, non avere reazioni eclatanti, o a lungo raggio. Dall’altro lato, inoltre, c’è il problema che la violenza messa in scena diventi talmente presente, che lo spettatore non può più avere un minimo di suspense, sa che in ogni episodio accadrà qualcosa a qualcuno, che sia la morte o una semplice mutilazione. Questo crea una desensibilizzazione dello spettatore che viene assuefatto alla brutalità messa in scena, piuttosto che all’imprevedibilità della morte, come poteva essere per il sopracitato “Tokyo Magnitude 8.0”.

Quanto al resto, ho apprezzato come la serie tenti di affrontare altre tematiche di un certo rilievo, tuttavia non approfondendole come avrei voluto: il sospetto e l’ostracismo del prossimo; la discriminazione razziale (in un episodio, in particolare, questa tematica poteva creare una sotto-trama decisamente interessante), fino ad arrivare a quella che ho preferito, le fake news e la disinformazione. Tema, quest’ultimo, attualissimo, in un panorama che vede migliaia di informazioni diverse, alcune attendibili e altre meno, venir usate dalle persone che non hanno la capacità di distinguere le notizie vere da quelle false.

Il finale - sempre senza spoiler - (ma anche diverse scene a metà serie) è un inno al Giappone e alla sua capacità di rialzarsi e non demordere, anche nelle situazioni difficili (simboleggiato un po’ dalla protagonista Ayumu, durante le Olimpiadi), il che ricorda un po’ quei finali buonisti e basati sul sentimentalismo che tanto spesso vengono criticati nei film americani.

In sostanza, la serie non mi è piaciuta, nonostante un inizio promettente e un finale che, per quanto fastidiosamente buonista e “feeloso”, riesce nel suo intento di commuovere almeno un minimo lo spettatore.