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Attenzione: la recensione contiene lievi spoiler!

Per capire l’abilità Jukki Hanada, lo sceneggiatore di “A Place Further than the Universe”, bisogna partire da quello che qui manca: non c’è una storia sentimentale; non ci sono combattimenti; non ci sono misteri da risolvere; è privo di scene equivoche e piccanti; non ci sono tette e cu*i al vento; mancano assolutamente sketch ripetitivi e monotematici, insomma non c’è nessun appiglio narrativo, al quale, chi scrive, possa aggrapparsi.
C’è, invece il racconto, apparentemente surreale, di quattro ragazzine, che decidono di intraprendere una lunga traversata, verso l’Antartide. Ogni episodio, ben collegato l’uno all’altro, ripercorre le tappe dell’avventura e in ogni puntata, la scrittura, la musica e la regia riescono a dare il meglio: in qualsiasi di questi 13 episodi, si alternano scene divertenti, introspettive e malinconiche, ben amalgamate da una colonna sonora sempre sul pezzo, e ogni volta a mancare (fortunatamente ) è il sentore di “già visto”. Certo “il viaggio dell’eroe” è vecchio quanto Ulisse, ma qui è perfettamente declinato in un’avventura moderna, solida, e resa credibile da una raffinata narrazione, dove la lunga traversata, rappresenta simbolicamente un rito iniziatico, che permette a delle acerbe adolescenti di divenire finalmente, giovani donne.

“A Place Further than the Universe” è, in sostanza, un’opera matura e originale, nata da una sceneggiatura destinata a questa animazione, il cui manga è stato realizzato successivamente, ma che poteva tranquillamente essere tratta da un romanzo (per essere onesti, bisogna dire che non manca qualche forzatura narrativa e qualche sbavatura tecnica, ma la trama non prometteva niente di buono).

Le quattro ragazze, inizialmente, potranno apparire piuttosto stereotipate perché abbiamo : la timorosa sognatrice (Mari), la leader introversa (Shirase), l’estroversa ottimista (Miyake) e la idol “in erba”, un po’ fuori dal mondo (Tamaki), tuttavia ognuna di loro avrà un approfondimento e soprattutto manifesterà, già dai primi episodi, comportamenti ben più complessi, di quelli che potevano sembrare coerenti con gli stereotipi appena sopra enunciati: sarà la timorosa Mari a soccorrere la leader Shirase, che sarà anche defenestrata, provvisoriamente, nella “leadership” del gruppo, ma sarà lei, incapace di parlare in pubblico, ad esprimere i discorsi più appassionanti e toccanti di questa avventura. Anche Miyake e Tamaki, personaggi sicuramente meno curati, oltre ad una inevitabile maturazione, mostreranno durante lo scorrere degli eventi, delle sfaccettature caratteriali, più vicine alle opere letterari, piuttosto che alle comuni animazioni.

Come tutte le opere più profonde e ambiziose, anche questo anime nasconde una propria filosofia al suo interno, anche se qui più che di “una” filosofia, bisognerebbe parlare di “filosofie”: all’inizio mi aspettavo il classico viaggio, dove l’eroe, una volta raggiunto l’ambito traguardo, comprende che non è la meta il vero tesoro, ma il viaggio in sé. In realtà il messaggio, che cerca di mandarci l’autore, è un po’ più articolato, perché già “l’intenzione” del viaggio, maturata da Mari (la timorosa sognatrice), libera in lei impetuose energie, che giacevano intrappolate nel suo cuore, ben rappresentate dalla piccola diga che straripa. Saranno poi molto più dure le prove che le giovani dovranno affrontare per salire su quella nave, che non quelle al suo interno. Ma anche la destinazione, non è affatto una fredda e arida distesa di ghiaccio, utile solo a piantarci sopra la propria bandierina, ma racchiude in sé un forte potere catartico, che ricorda molto i duri, ma proficui eremi dei mistici religiosi.

“A Place Further than the Universe”, è anche un inno all’ ”Amicizia”, quella con una bella “A” maiuscola, basata non sull’opportunismo, o su una pigra abitudine, ma sulla sincerità; dimostrata non con vuote parole, ma con significativi gesti, fondata quindi sulle emozioni, e di fatto non completamente definibile o razionalizzabile.

Il comparto sonoro è eccellente, con una opening vivace ed energica, una ending calda e malinconica , con una OST che si sposa armoniosamente con la narrazione degli eventi. Riguardo il comparto visivo, il discorso è un po’ più complesso: buoni sono i fondali; discreta è la CGI; più che buono è il design delle ragazze; ottime sono le espressioni; qualche problema c’è invece con l’integrazione fondali/personaggi, dove quest’ultimi, sembrano un po’ figurine incollate sopra i primi. Ci sono molti fermi immagine, e i soggetti che non agiscono, sono quasi sempre immobili. Fastidiosa è poi quella specie di aureola bianca, che circonda i vari protagonisti , non capisco se sia una scelta tecnica o artistica, comunque sia, non l'ho trovata una scelta azzeccata.

Non ho la certezza assoluta, perché non ho trovato riscontri in rete, ma mi sembra che nella ending questo anime, venga utilizzato il “HanaKotoba” o linguaggio dei fiori (è la seconda opera, nella quale mi imbatto, dove viene usata tale forma di espressione simbolica) poiché, mentre scorrono le immagini finali, ogni ragazza viene immortalata con una tuta di un colore ben definito, poi ognuna di loro si trasforma in un pinguino e sopra la testa di ogni pinguino, compare un fiore con lo stesso colore della tuta (c’è anche un cappellino in vendita su internet, con i quattro pinguini che hanno questi fiori colorati sulla testa). Essendo i fiori molto stilizzati e non essendo assolutamente un esperto di questa materia, potrei anche essermi sbagliato, tuttavia cercando di sfruttare al meglio le risorse del web, riguardo il “kotoba”, alla fine, sono giunto alle seguenti associazioni: Shirase ha una “fritillaria viola” (amore, maledizione); Mari è invece rappresentata da un “tulipano arancione” (mix tra tulipano giallo e rosso: amore incondizionato, successo, carità, fede); Tamaki ha un “iris blu” (buone notizie, fedeltà); Miyake “quadrifoglio verde” (fortuna). Leggendo le corrispettive definizioni, le prime tre coincidono piuttosto bene, ma Miyake stona un po’.

Una nota di (stra)merito va a alla regia. Come saprete in inglese il regista viene chiamato, “director”, e in questo anime, tale appellativo, calza a pennello con quello che si vede: già dalle inquadrature iniziali, Atsuko Ishizuka, ci tiene a farci intendere, che ha in testa di “girare” un film e non un’animazione, ci poi sono delle scene in cui il buon Ishizuka, come un grande direttore di orchestra, riesce a “concertare”, con grande sapienza i fondali, le musiche e le espressioni delle ragazze, in una magica alchimia, capace di far immergere lo spettatore nella meraviglia di questo “ luogo più lontano dell’universo”, e di farlo sentire il quinto “pinguino” della storia.

La sensazione che mi è rimasta dopo essere giunto al finale, è quella di aver assistito a un’opera molto autobiografica, non perché l’autore abbia intrapreso un viaggio verso il polo (almeno non penso, anche se, sicuramente, si è ben documentato), ma perché, tale storia, sembra un tributo all’impresa in sé. E diventare autore, di manga o anime, da quello che si legge, non appare essere una marcia trionfale, lungo una strada lastrica d’oro, ma piuttosto un lungo viaggio fatto di duro lavoro, di porte sbattute in faccia, di derisioni e invidie, con amici che scompaiono al momento del bisogno, ma che sono sempre pronti a tornare in caso di successo. Dove c’è anche chi si è perso lungo il cammino e chi ci ha rimesso la vita. Così l’urlo liberatorio della Shirase che raggiunge la meta , sembra l’urlo di Hanada o forse di tutto il team… perché il racconto di questa impresa, è anche il racconto della loro impresa!