Recensione
Dareka no Manazashi
7.0/10
Recensione di dawnraptor
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Il mio rapporto con Makoto Shinkai è piuttosto difficile, nel senso che non riesco a percepire il genio che in così tanti osannano. Anzi, man mano che visiono i suoi titoli li trovo sempre meno attraenti, autoreferenziali e un po’ (tanto) gigioni.
Questo titolo non sfugge al trend. Nel raccontare una piccola storia di allontanamento e, forse, riavvicinamento fra padre e figlia, fa un uso smodato della voce fuori campo, affidando, ancora una volta, alla gatta di casa il compito di spiegarci la situazione. Ma, dopo aver visto "Lei e il gatto" e poi "Lei e il gatto Everything Flows", questa terza opera sulla stessa falsariga sinceramente stufa, anche perché non ha la stessa intensità dei titoli che la precedono. Inoltre, il finale va a ricalcare in qualche modo quello di "Everything Flows". Non ho potuto trattenere un moto di fastidio per l’utilizzo dello stesso espediente, e io i gatti li adoro incondizionatamente.
Non solo: il lavoro pare ambientato in un prossimo futuro, in cui si risponde al telefono attraverso degli ologrammi, ma tutto il resto delle vicende e dell’ambientazione è di stampo antico, quindi non si comprende la ragione di questa scelta. Volendo suggerire che le vicende narrate sono senza tempo, si sarebbe forse dovuto pigiare il pedale su situazioni più fantascientifiche. Così la cosa sembra campata per aria, senza motivo.
C’è chi ritiene che abbia un pregio particolare il raccontare un storia per immagini, con pochi dialoghi. Può essere, ma se poi sostituisci alla mancanza di dialoghi una voce narrante molto invadente, allora non è propriamente vero che racconti per immagini. Stai semplicemente trasformando un discorso da diretto a indiretto. E, mi spiace dirlo, il primo è quasi sempre molto più vivace e interessante. Sembra di ascoltare una lezioncina impartita dalla maestra di turno, espediente che mi ha personalmente distrutto il pathos che la vicenda avrebbe potuto ispirare. Perché devo dire, e suppongo non sarò l’unica, che nella storia mi ci sono anche ritrovata, ma purtroppo non è riuscita a suscitare in me il coinvolgimento e l’emozione che avrebbe potuto darmi se raccontata in modo diverso.
Le animazioni però sono una gioia per gli occhi e i disegni sono come sempre molto belli, parlando dei fondali. Sempre molto belli, ma un po’ meno spettacolari se parliamo dei personaggi, in special modo dei gatti, che sono molto semplificati. Insomma, il comparto personaggi è ben fatto, ma non geniale.
L’ho visionato con l’audio originale e ho trovato molto piacevole la voce del padre di Aya, la protagonista, un bel basso che risuona nell’anima. Anche la stessa ragazza ha ricevuto una bella voce e, devo ammetterlo, anche la voce narrante è stata molto abile. Peccato abbia strabordato, ma oggettivamente l’attrice ha fatto un ottimo lavoro. Manca l’opening, mentre c’è una breve ending piuttosto dolce, così come esiste una insert song orecchiabile. Il resto della colonna sonora è gradevole senza essere importuna.
Si tratta di un’opera che parte con l’ottima ambizione di raccontare l’evolversi – in peggio - dei rapporti familiari man mano che i figli crescono e cercano di trovare una propria strada, allontanandosi dal nido, mentre ai genitori non resta che la malinconica contemplazione del tempo che passa. O forse no.
Sei minuti sono un po’ pochi per approfondire le vicende e la psicologia di padre e figlia, per cui si è fatto ricorso all’espediente della voce narrante, ma rendendo così il tutto piatto e noioso. Non mancano un paio di situazioni anche coinvolgenti, ma purtroppo l’insieme sa di blando e già visto, assumendo a tratti la sgradevole veste del predicozzo. In sunto, un’occasione abbastanza sprecata.
(Sì, lo so, avrei potuto fare lunghissimi panegirici sull’attualità del messaggio, sui rapporti sempre più tenui fra i genitori e i figli quando questi crescono, sull’importanza dei rapporti familiari che sono spesso gli unici che durano tutta una vita, sull’egoismo, sull’indifferenza, sull’incomprensione reciproca, sulla difficoltà di comunicazione, sull’abitudine che diventa apatia… appunto.)
Sono stata tentata di assegnare un 6,5... ma poi ho preferito salvare la pelle.
Questo titolo non sfugge al trend. Nel raccontare una piccola storia di allontanamento e, forse, riavvicinamento fra padre e figlia, fa un uso smodato della voce fuori campo, affidando, ancora una volta, alla gatta di casa il compito di spiegarci la situazione. Ma, dopo aver visto "Lei e il gatto" e poi "Lei e il gatto Everything Flows", questa terza opera sulla stessa falsariga sinceramente stufa, anche perché non ha la stessa intensità dei titoli che la precedono. Inoltre, il finale va a ricalcare in qualche modo quello di "Everything Flows". Non ho potuto trattenere un moto di fastidio per l’utilizzo dello stesso espediente, e io i gatti li adoro incondizionatamente.
Non solo: il lavoro pare ambientato in un prossimo futuro, in cui si risponde al telefono attraverso degli ologrammi, ma tutto il resto delle vicende e dell’ambientazione è di stampo antico, quindi non si comprende la ragione di questa scelta. Volendo suggerire che le vicende narrate sono senza tempo, si sarebbe forse dovuto pigiare il pedale su situazioni più fantascientifiche. Così la cosa sembra campata per aria, senza motivo.
C’è chi ritiene che abbia un pregio particolare il raccontare un storia per immagini, con pochi dialoghi. Può essere, ma se poi sostituisci alla mancanza di dialoghi una voce narrante molto invadente, allora non è propriamente vero che racconti per immagini. Stai semplicemente trasformando un discorso da diretto a indiretto. E, mi spiace dirlo, il primo è quasi sempre molto più vivace e interessante. Sembra di ascoltare una lezioncina impartita dalla maestra di turno, espediente che mi ha personalmente distrutto il pathos che la vicenda avrebbe potuto ispirare. Perché devo dire, e suppongo non sarò l’unica, che nella storia mi ci sono anche ritrovata, ma purtroppo non è riuscita a suscitare in me il coinvolgimento e l’emozione che avrebbe potuto darmi se raccontata in modo diverso.
Le animazioni però sono una gioia per gli occhi e i disegni sono come sempre molto belli, parlando dei fondali. Sempre molto belli, ma un po’ meno spettacolari se parliamo dei personaggi, in special modo dei gatti, che sono molto semplificati. Insomma, il comparto personaggi è ben fatto, ma non geniale.
L’ho visionato con l’audio originale e ho trovato molto piacevole la voce del padre di Aya, la protagonista, un bel basso che risuona nell’anima. Anche la stessa ragazza ha ricevuto una bella voce e, devo ammetterlo, anche la voce narrante è stata molto abile. Peccato abbia strabordato, ma oggettivamente l’attrice ha fatto un ottimo lavoro. Manca l’opening, mentre c’è una breve ending piuttosto dolce, così come esiste una insert song orecchiabile. Il resto della colonna sonora è gradevole senza essere importuna.
Si tratta di un’opera che parte con l’ottima ambizione di raccontare l’evolversi – in peggio - dei rapporti familiari man mano che i figli crescono e cercano di trovare una propria strada, allontanandosi dal nido, mentre ai genitori non resta che la malinconica contemplazione del tempo che passa. O forse no.
Sei minuti sono un po’ pochi per approfondire le vicende e la psicologia di padre e figlia, per cui si è fatto ricorso all’espediente della voce narrante, ma rendendo così il tutto piatto e noioso. Non mancano un paio di situazioni anche coinvolgenti, ma purtroppo l’insieme sa di blando e già visto, assumendo a tratti la sgradevole veste del predicozzo. In sunto, un’occasione abbastanza sprecata.
(Sì, lo so, avrei potuto fare lunghissimi panegirici sull’attualità del messaggio, sui rapporti sempre più tenui fra i genitori e i figli quando questi crescono, sull’importanza dei rapporti familiari che sono spesso gli unici che durano tutta una vita, sull’egoismo, sull’indifferenza, sull’incomprensione reciproca, sulla difficoltà di comunicazione, sull’abitudine che diventa apatia… appunto.)
Sono stata tentata di assegnare un 6,5... ma poi ho preferito salvare la pelle.