Recensione
Quando c'era Marnie
7.5/10
Recensione di MartinoMystero
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“Quando c’era Marnie” è un film per tutta la famiglia, con una componente fantasy, ma che non guarda al folclore nipponico, ma piuttosto a quello occidentale.
Anche se l’ambientazione è “giapponessisima”, i nomi delle protagoniste, Anna e Marnie, e una serie di altri riferimenti, fanno subito capire che questa volta lo studio Ghibli strizzi l’occhio “anche” al pubblico occidentale, oltre che a quello nipponico, creando però un certo paradosso: se da una parte la tipica tendenza di Myazaki (che qui è solo il produttore) di utilizzare nei suoi lungometraggi il folclore giapponese fatto di divinità, demoni e antichi miti del Sol Levante mi ha spesso lasciato la sensazione di non riuscire a cogliere in modo esaustivo il messaggio che l’autore stesso voleva inviare, dall’altro tutti questi personaggi, riferimenti e miti a noi così lontani mi hanno sempre trasmesso quel certo fascino esotico e curiosità, tali da contribuire a far nascere in me la forte attrazione verso questo lontano Paese.
“Quando c’era Marnie” invece, essendo tratto da un romanzo degli anni sessanta del ‘900, ad opera della scrittrice inglese Joan Gale Robinson, di cui Myazaki è un grande estimatore, attinge a piene mani al nostro folclore, e insieme ad una regia e un montaggio che ricordano molto i film di Hollywood, rende la narrazione piuttosto fruibile alle nostre latitudini, ma come diretta conseguenza lo fa sembrare molto simile al tipico “cartone” di Natale della Disney. Esiste quindi la possibilità che, questa volta, la sensazione di “novità” abbia colpito più gli spettatori dell’Estremo Oriente, che quelli del nostro Ovest.
La storia, ambientata nell’odierno Giappone, ci fa conoscere la piccola e cagionevole Anna, che viene mandata in una località marina, per i mitigare i suoi problemi di salute. Il vissuto della giovane è piuttosto triste e questo la porta ad essere poco incline alle relazioni interpersonali (diciamo pure che è una vera e propria asociale), così, vagando per il villaggio con lo scopo di passare il tempo, subisce l’attrazione verso una vecchia casa apparentemente abbandonata, ed è a questo punto che, invece di fare la conoscenza di personaggi collegati alla tradizione scintoista, entriamo in contatto con un cliché del genere fantastico/horror delle storie occidentali (partendo da Lovecraft e passando per King), ma tranquilli, qui di horror non c’è niente. Da questo momento lo spettatore si ritrova davanti a una struttura narrativa molto abusata dalle nostre parti, che gli lascia quella sensazione di già visto, ma senza dargli la possibilità di capire dove lo si è visto, dato che, di queste case un po’ “speciali”, già partendo dai racconti della nostra infanzia, ne abbiamo incontrate a bizzeffe.
Il ritmo del racconto è tutt’altro che incalzante, e quindi c’è il rischio, nel caso siate un po’ stanchi, che le palpebre tendano a calare, tuttavia il fatto che ci sia più di un mistero da scoprire, e che comunque si cominci a provare una certa empatia verso la protagonista, permette di mantenere il giusto livello di attenzione. Lo sviluppo della storia è ben congegnato (è una sorta di mistery, ma senza delitti), tanto che, gradualmente, eventi e personaggi apparentemente separati e distanti tendono a convergere verso un finale tanto esplicativo quanto toccante, e sono capaci di rendere una storia, forse un po’ banale, un qualcosa di apprezzabile e coinvolgente (ma non travolgente).
Il comparto visivo è un ibrido tra la vecchia e nuova scuola, dato che c’è un grande utilizzo del “campo lungo”, dove tantissimi soggetti si muovono contemporaneamente, tipica prova di “forza” di Ghibli, ma, nello stesso tempo, viene utilizzata la computer grafica per i mezzi in movimento, e credo che ciò, per questo studio, sia la prima volta. La OST onestamente non mi ha lasciato molto.
In conclusione, “Quando c’era Marnie” è un discreto prodotto, che magari non entrerà nella storia dell’animazione, e non penso che sia nemmeno in cima alla classifica dei più amati di questo studio, ma che comunque vale la pena vedere. Meglio insieme, magari nel periodo natalizio. Voto: 7,5.
Anche se l’ambientazione è “giapponessisima”, i nomi delle protagoniste, Anna e Marnie, e una serie di altri riferimenti, fanno subito capire che questa volta lo studio Ghibli strizzi l’occhio “anche” al pubblico occidentale, oltre che a quello nipponico, creando però un certo paradosso: se da una parte la tipica tendenza di Myazaki (che qui è solo il produttore) di utilizzare nei suoi lungometraggi il folclore giapponese fatto di divinità, demoni e antichi miti del Sol Levante mi ha spesso lasciato la sensazione di non riuscire a cogliere in modo esaustivo il messaggio che l’autore stesso voleva inviare, dall’altro tutti questi personaggi, riferimenti e miti a noi così lontani mi hanno sempre trasmesso quel certo fascino esotico e curiosità, tali da contribuire a far nascere in me la forte attrazione verso questo lontano Paese.
“Quando c’era Marnie” invece, essendo tratto da un romanzo degli anni sessanta del ‘900, ad opera della scrittrice inglese Joan Gale Robinson, di cui Myazaki è un grande estimatore, attinge a piene mani al nostro folclore, e insieme ad una regia e un montaggio che ricordano molto i film di Hollywood, rende la narrazione piuttosto fruibile alle nostre latitudini, ma come diretta conseguenza lo fa sembrare molto simile al tipico “cartone” di Natale della Disney. Esiste quindi la possibilità che, questa volta, la sensazione di “novità” abbia colpito più gli spettatori dell’Estremo Oriente, che quelli del nostro Ovest.
La storia, ambientata nell’odierno Giappone, ci fa conoscere la piccola e cagionevole Anna, che viene mandata in una località marina, per i mitigare i suoi problemi di salute. Il vissuto della giovane è piuttosto triste e questo la porta ad essere poco incline alle relazioni interpersonali (diciamo pure che è una vera e propria asociale), così, vagando per il villaggio con lo scopo di passare il tempo, subisce l’attrazione verso una vecchia casa apparentemente abbandonata, ed è a questo punto che, invece di fare la conoscenza di personaggi collegati alla tradizione scintoista, entriamo in contatto con un cliché del genere fantastico/horror delle storie occidentali (partendo da Lovecraft e passando per King), ma tranquilli, qui di horror non c’è niente. Da questo momento lo spettatore si ritrova davanti a una struttura narrativa molto abusata dalle nostre parti, che gli lascia quella sensazione di già visto, ma senza dargli la possibilità di capire dove lo si è visto, dato che, di queste case un po’ “speciali”, già partendo dai racconti della nostra infanzia, ne abbiamo incontrate a bizzeffe.
Il ritmo del racconto è tutt’altro che incalzante, e quindi c’è il rischio, nel caso siate un po’ stanchi, che le palpebre tendano a calare, tuttavia il fatto che ci sia più di un mistero da scoprire, e che comunque si cominci a provare una certa empatia verso la protagonista, permette di mantenere il giusto livello di attenzione. Lo sviluppo della storia è ben congegnato (è una sorta di mistery, ma senza delitti), tanto che, gradualmente, eventi e personaggi apparentemente separati e distanti tendono a convergere verso un finale tanto esplicativo quanto toccante, e sono capaci di rendere una storia, forse un po’ banale, un qualcosa di apprezzabile e coinvolgente (ma non travolgente).
Il comparto visivo è un ibrido tra la vecchia e nuova scuola, dato che c’è un grande utilizzo del “campo lungo”, dove tantissimi soggetti si muovono contemporaneamente, tipica prova di “forza” di Ghibli, ma, nello stesso tempo, viene utilizzata la computer grafica per i mezzi in movimento, e credo che ciò, per questo studio, sia la prima volta. La OST onestamente non mi ha lasciato molto.
In conclusione, “Quando c’era Marnie” è un discreto prodotto, che magari non entrerà nella storia dell’animazione, e non penso che sia nemmeno in cima alla classifica dei più amati di questo studio, ma che comunque vale la pena vedere. Meglio insieme, magari nel periodo natalizio. Voto: 7,5.