Recensione
TRIGUN STAMPEDE
8.5/10
Fra i suoi scritti più noti - riflettendo sulla nostalgia - Alessandro Baricco si domandò se sostanzialmente fosse mai possibile soffrirne per qualcosa che non si è mai vissuto.
La razionalità necessaria per valutare qualsiasi esperienza, è la prima a pagare le spese dell’emotività trasmessa da quel silenzioso terremoto che tutti conosciamo col nome di nostalgia, ed è per questo che, prima di cominciare a scrivere le righe che v’apprestate a leggere, ho riflettuto a lungo e a fondo: per anni, “Trigun” è stato un vero e proprio anime di culto, uno dei miei preferiti di fine Anni Novanta, e una delle storie che più hanno emozionato e coinvolto in assoluto.
Quando ho scoperto che un reboot era alle porte, le emozioni sono state contrastanti - proprio come quelle di tanti altri che vissero esperienze molto simili alla mia. Prevedibili, comprensibili e tediose domande sono sorte nella mia mente: “Era davvero necessario? Perché ultimamente fanno così tanti reboot e remake, non hanno idee originali? Le genialate di vent’anni fa sono solo un lontano ricordo?” Ho lasciato così che codesti quesiti rimanessero sospesi come nuvole incerte in un’alba di speranza, e mi sono tuffato nella visione di quest’opera.
Ebbene, è bastato davvero poco per far sì che il gomitolo di dubbi venisse spazzato via: con tutta l’onestà possibile, posso tranquillamente asserire di aver sperimentato uno dei migliori reboot mai realizzati - forse proprio a causa dei drastici cambiamenti e dei collegamenti al manga che la serie originale del 1998 tralasciò per una serie di motivi che ivi non tratteremo.
La colonna portante è scontata quanto esaltante: v’è un perno intorno al quale “Trigun” è costretto a ruotare, ovvero l’iconico, leggendario protagonista che rende viva e pulsante l’intera vicenda... sto parlando chiaramente di Vash, il “Tifone umanoide”. In “STAMPEDE” lo riscopriamo più umano, meno incline a fare l’idiota o il donnaiolo, e - elemento fondamentale - libero di lasciar trasparire parte della sua profondissima sofferenza attraverso il filtro di quel cuore d’oro che ha fatto innamorare migliaia di fan nel corso di due decenni.
Partiamo dal comparto visivo: confesso di aver sempre detestato gli anime resi totalmente in CG, ma qui siamo di fronte a un lavoro eccezionale: mai vista tanta espressività, intensità e credibile fluidità. Le scene d’azione sono dinamiche, distinte e percettibili; luci, ombre, prospettive e tagli d’inquadratura risultano sempre convincenti. Si potrebbe temere un’algida rigidità riguardo le espressioni dei personaggi, cosa che invece viene lenita a dovere, regalandoci volti caldi, vividi, spontaneamente mutevoli ed empaticamente onesti; le emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo in divenire sono tradotti con una naturalezza mai vista prima.
Gli scenari riprendono il classico stile cyber-western della controparte originale, e, fra dune a perdita d’occhio, worm giganteschi che solcano i deserti, libellule della sabbia e antiche rovine ove sorgono residui urbani di ciò che rimane delle tecnologie spaziali perdute, la CG comunica tutta l’afa e l’arsura di un magico, tremendo e sofferto mondo, distante migliaia di anni luce dalla nostra amata e bistrattata Madre Terra. Non siamo certo alla perfezione, poiché (molto raramente, sia chiaro) notiamo sfumature meno fluide e talvolta piccoli passaggi al limite del farraginoso, ma si tratta di inezie che non danneggiano la più che positiva esperienza visiva.
Poi c’è la colonna sonora: un vero e proprio capolavoro.
Alcuni brani sono stati ripresi dal vecchio anime e riadattati, mentre altri scritti ex novo; la opening concorre ad essere la migliore apertura di tutto il 2023, e saltarla a piè pari per correre a vedersi l’episodio andrebbe considerato atto passibile di denuncia, tanto riesce a creare dipendenza! Le note rockeggianti che hanno contraddistinto il primo “Trigun” e l’atmosfera punk/scatenata di fine anni novanta lascia il posto a un tema introspettivo e malinconico, decisamente più in linea con i tratti della narrazione e sicuramente più pertinente. Traspare pura emotività, in linea coi malcelati sentimenti del protagonista; un mix di tristezza, speranza e rastremato ottimismo: istintività al punto giusto che ci introduce all’opera nella maniera più appropriata.
Abbacinato da codesta cornice ricca di buoni propositi, mi sono immerso nella visione, e, nonostante le mie paure, i miei timori e la nostalgia che mi suggeriva pensieri contrarianti, sono rimasto davvero entusiasta.
“TRIGUN STAMPEDE” fonde elementi della serie originale a tratti del manga, mischia segmenti iniziali a parti avanzate cambiando moltissime carte in tavola, stravolgendo in più punti la storia - addirittura in sequenze fondamentali -, riscrivendole attraverso nuovi punti di vista più arditi e profondi, riuscendo a far emergere i dilemmi e le ansie dei protagonisti in modo peculiare e più convincente rispetto al passato; si decide di sacrificare parte della goliardia che ha contraddistinto la serie vintage per donare sfumature più drammatiche e sofferte a tutta la trama. L’esperimento riesce alla grande, anzi: incredibile a dirsi, la qualità generale ne trae sostanziale beneficio. Si ha percezione di un racconto più maturo, volutamente frammentato, che, come un mosaico tagliente e irregolare, emerge episodio dopo episodio, permettendoci di empatizzare con quel sognatore, cuore d’oro, illuso e coraggioso altruista al limite della stupidità che è Vash.
Man mano che le tessere s’allineano, il terribile e desolante quadro generale diviene sempre più chiaro, ma, parallelamente, ci accompagna la speranza di un futuro migliore, nonché la maledetta curiosità di scoprire i misteri e i risvolti d’un passato che ci viene propinato (giustamente) col contagocce, una storia scritta con un intreccio incompiuto e misterioso, dal ritmo crescente e dal sapore di leggende perdute.
Uno dei primi scenari è Jenora Rock, una povera città in mezzo al deserto su un pianeta chiamato “No man’s Land”, globo sul quale gli ultimi esseri umani sono riusciti ad approdare dopo una sequenza di catastrofi che li ha visti quasi estinti. Fra tutte le disgrazie, le carestie, le difficoltà, i delinquenti e la situazione di stenti che i superstiti vivono tutti i giorni dagli anni dopo l’approdo, una fra queste è tanto spaventosa quanto singolare: esiste una persona conosciuta come il “Tifone umanoide”, una vera e propria calamità che terrorizza le genti delle terre circostanti!
Girano voci pazzesche su di lui. Si dice che la sua furia possa spazzare via un intero paese, o addirittura abbia le capacità di sconfiggere in duello qualsiasi avversario o creatura incontri. Qualcuno giura di aver assistito a queste cose, ed è sicuro che l’uomo sia portatore di sventura, una sorta di mostro senza pietà, anche se, incredibile e stranissimo a dirsi, dopo ogni sua esibizione distruttiva, non è mai stata pervenuta alcuna vittima. Cittadini, presenti e malcapitati, si sono sempre salvati tutti... ma come è possibile!?
Le compagnie assicurative sono ormai disperate: Vash “The Stampede” compare all’improvviso, e in seguito accadono avvenimenti assurdi che portano a distruzioni di portata colossale, causando danni da milioni e milioni di doppi dollari (sì, la moneta locale). Esasperati da questa situazione, gli enti in questione mandano due agenti incaricati di individuare e fermare il colpevole: i loro nomi sono Roberto, noto giornalista locale, e la sua giovane apprendista Meryl. Presto, l’ignara coppia, fra alte dune desertiche e città dal retrogusto a metà fra “Star Wars” e western spaghetti alla Sergio Leone, a bordo del loro fuoristrada, scopriranno che il temuto Vash è invero gentile, generoso, e capace di mettere a repentaglio la propria vita pur di salvare quella di chiunque incontri sul suo cammino.
Dai capelli biondi spettinati, gli occhiali da sole che nascondono uno sguardo ricco di gentilezza e tristezza, l’inconfondibile cappotto rosso fuoco e quella spaventosa pistola alla cintura, Vash non sembra affatto ciò che tutti raccontano.
Ma è davvero lui, il “Tifone umanoide”?
Cosa nasconde veramente? E da dove viene?
Tirando le somme, siamo di fronte a un lavoro eccezionale.
Lo stile dell’amato e iconico eroe è stato fortemente modernizzato. I dettagli sono stati allineati ai tempi correnti (dal look generale agli indumenti), ottenendo un risultato davvero appagante. Nonostante gli archi narrativi siano stati modificati, il modus operandi con cui la narrazione si svolge risulta scorrevole e coinvolgente. Se nella serie di venticinque anni fa si rideva di più (nonostante certi passaggi risultassero poco chiari e confusi), qui troviamo meno elementi comici e più momenti di riflessione. Ciò che un tempo fu tenuto in serbo come una potentissima rivelazione, ora è stato scelto come atroce incipit per introdurre lo spettatore a un (nuovo) mondo crudele eppure affascinante, dalle origini misteriose e dagli esiti oscuri.
Vash è tornato, questo possiamo dirlo forte.
È tornato con il suo modo di fare bislacco, con la sua perenne voglia di dolci, coi suoi sorrisi da apparente imbranato, con il suo passato oscuro e i suoi tremendi, disumani sensi di colpa, circondato dal mitico Nicholas D. Wolfwood, la graziosa e coraggiosa Meryl, e (quasi) tutti quei personaggi che alcuni di voi ricorderanno molto bene. Ed ora può comunicarci una sofferenza che, finalmente, pare riesca ad affiorare spontaneamente. Giustificata, comprensibile, come sarebbe dovuto accadere sin dall’inizio.
“TRIGUN STAMPEDE” riesce nell’intento di far ragionare lo spettatore, portandolo ad affrontare temi legati all’etica della sopravvivenza e della tolleranza, temi decisamente attuali e spigolosi, difficili da trattare, ma altrettanto importanti e accorati: l’ottusità che partorisce ogni tipo di discriminazione, la paura del diverso, l’odio di chi viene discriminato - da cui nasce la voglia di vendetta, e l’odio in risposta ad altro odio.
Cosa è disposto a fare l’uomo pur di sopravvivere? Fin dove ci spingeremmo, pur di salvarci? Esiste un bene superiore per cui azioni che normalmente sono viste come crudeli possano essere considerate addirittura accettabili?
E poi c’è lui, Vash, che ci ricorda che l’Amore e la Gentilezza possono essere forti tanto quanto le armi più letali, capaci di far agire le persone oltre ogni genere di comprensione.
Idealista? Illuso? D’esempio? Una cosa è certa, dopo venticinque anni Vash riesce a commuovere ancora una volta, e, come contrappasso, il minuzioso dualismo con cui sono stati sviluppati protagonista e antagonista riesce a mettere in confusione l’etica dell’osservatore, permettendogli di comprendere le motivazioni e gli ideali che spingono entrambi lungo irti sentieri.
Da tale, atroce scontro, scaturisce una riflessione universale.
Gravi traumi o profonde sofferenze segnano le persone per sempre, ma da questo dolore ci sono due modi di reagire: o diventi il cattivo, o vivi tanto a lungo da prenderti cura di chi soffre come hai sofferto tu.
È come un fardello, un insegnamento straziante, perché dove finisce la coscienza sparisce anche ogni senso di colpa.
Ho cercato di godermi questo nuovo “Trigun” nel modo più distaccato possibile, animo pulito, testa scevra, e ha funzionato: proprio come per quelle parole di Baricco, ho provato nostalgia per qualcosa che non avevo mai visto, anche se a tratti conoscevo. E per un attimo mi sono rivisto seduto a terra, di fronte alla TV con tubo catodico, sintonizzata su MTV durante la magica serata anime, i compiti da finire buttati su letto, seguendo le spericolate avventure del Tifone umanoide. Allora mi sono reso conto che, se proprio dobbiamo valutare qualcosa condizionati dalla nostalgia, è meglio provare a distaccarsi del tutto e trovare l’onestà necessaria per ricordarci il ragazzino che eravamo.
Poche cose sono belle come quando ritrovi un vecchio amico dopo tanti anni, e ti accorgi che sembra cambiato, ma, sotto sotto, è sempre lo stesso.
Questo è il miglior reboot che abbia mai visto.
E dopo venticinque anni, il modo che Vash ha di prendere la vita mi ispira ancora: il mondo potrà essere anche pieno di dolore e sofferenza, ma la violenza e la crudeltà non sono mai la risposta.
La razionalità necessaria per valutare qualsiasi esperienza, è la prima a pagare le spese dell’emotività trasmessa da quel silenzioso terremoto che tutti conosciamo col nome di nostalgia, ed è per questo che, prima di cominciare a scrivere le righe che v’apprestate a leggere, ho riflettuto a lungo e a fondo: per anni, “Trigun” è stato un vero e proprio anime di culto, uno dei miei preferiti di fine Anni Novanta, e una delle storie che più hanno emozionato e coinvolto in assoluto.
Quando ho scoperto che un reboot era alle porte, le emozioni sono state contrastanti - proprio come quelle di tanti altri che vissero esperienze molto simili alla mia. Prevedibili, comprensibili e tediose domande sono sorte nella mia mente: “Era davvero necessario? Perché ultimamente fanno così tanti reboot e remake, non hanno idee originali? Le genialate di vent’anni fa sono solo un lontano ricordo?” Ho lasciato così che codesti quesiti rimanessero sospesi come nuvole incerte in un’alba di speranza, e mi sono tuffato nella visione di quest’opera.
Ebbene, è bastato davvero poco per far sì che il gomitolo di dubbi venisse spazzato via: con tutta l’onestà possibile, posso tranquillamente asserire di aver sperimentato uno dei migliori reboot mai realizzati - forse proprio a causa dei drastici cambiamenti e dei collegamenti al manga che la serie originale del 1998 tralasciò per una serie di motivi che ivi non tratteremo.
La colonna portante è scontata quanto esaltante: v’è un perno intorno al quale “Trigun” è costretto a ruotare, ovvero l’iconico, leggendario protagonista che rende viva e pulsante l’intera vicenda... sto parlando chiaramente di Vash, il “Tifone umanoide”. In “STAMPEDE” lo riscopriamo più umano, meno incline a fare l’idiota o il donnaiolo, e - elemento fondamentale - libero di lasciar trasparire parte della sua profondissima sofferenza attraverso il filtro di quel cuore d’oro che ha fatto innamorare migliaia di fan nel corso di due decenni.
Partiamo dal comparto visivo: confesso di aver sempre detestato gli anime resi totalmente in CG, ma qui siamo di fronte a un lavoro eccezionale: mai vista tanta espressività, intensità e credibile fluidità. Le scene d’azione sono dinamiche, distinte e percettibili; luci, ombre, prospettive e tagli d’inquadratura risultano sempre convincenti. Si potrebbe temere un’algida rigidità riguardo le espressioni dei personaggi, cosa che invece viene lenita a dovere, regalandoci volti caldi, vividi, spontaneamente mutevoli ed empaticamente onesti; le emozioni, i sentimenti e gli stati d’animo in divenire sono tradotti con una naturalezza mai vista prima.
Gli scenari riprendono il classico stile cyber-western della controparte originale, e, fra dune a perdita d’occhio, worm giganteschi che solcano i deserti, libellule della sabbia e antiche rovine ove sorgono residui urbani di ciò che rimane delle tecnologie spaziali perdute, la CG comunica tutta l’afa e l’arsura di un magico, tremendo e sofferto mondo, distante migliaia di anni luce dalla nostra amata e bistrattata Madre Terra. Non siamo certo alla perfezione, poiché (molto raramente, sia chiaro) notiamo sfumature meno fluide e talvolta piccoli passaggi al limite del farraginoso, ma si tratta di inezie che non danneggiano la più che positiva esperienza visiva.
Poi c’è la colonna sonora: un vero e proprio capolavoro.
Alcuni brani sono stati ripresi dal vecchio anime e riadattati, mentre altri scritti ex novo; la opening concorre ad essere la migliore apertura di tutto il 2023, e saltarla a piè pari per correre a vedersi l’episodio andrebbe considerato atto passibile di denuncia, tanto riesce a creare dipendenza! Le note rockeggianti che hanno contraddistinto il primo “Trigun” e l’atmosfera punk/scatenata di fine anni novanta lascia il posto a un tema introspettivo e malinconico, decisamente più in linea con i tratti della narrazione e sicuramente più pertinente. Traspare pura emotività, in linea coi malcelati sentimenti del protagonista; un mix di tristezza, speranza e rastremato ottimismo: istintività al punto giusto che ci introduce all’opera nella maniera più appropriata.
Abbacinato da codesta cornice ricca di buoni propositi, mi sono immerso nella visione, e, nonostante le mie paure, i miei timori e la nostalgia che mi suggeriva pensieri contrarianti, sono rimasto davvero entusiasta.
“TRIGUN STAMPEDE” fonde elementi della serie originale a tratti del manga, mischia segmenti iniziali a parti avanzate cambiando moltissime carte in tavola, stravolgendo in più punti la storia - addirittura in sequenze fondamentali -, riscrivendole attraverso nuovi punti di vista più arditi e profondi, riuscendo a far emergere i dilemmi e le ansie dei protagonisti in modo peculiare e più convincente rispetto al passato; si decide di sacrificare parte della goliardia che ha contraddistinto la serie vintage per donare sfumature più drammatiche e sofferte a tutta la trama. L’esperimento riesce alla grande, anzi: incredibile a dirsi, la qualità generale ne trae sostanziale beneficio. Si ha percezione di un racconto più maturo, volutamente frammentato, che, come un mosaico tagliente e irregolare, emerge episodio dopo episodio, permettendoci di empatizzare con quel sognatore, cuore d’oro, illuso e coraggioso altruista al limite della stupidità che è Vash.
Man mano che le tessere s’allineano, il terribile e desolante quadro generale diviene sempre più chiaro, ma, parallelamente, ci accompagna la speranza di un futuro migliore, nonché la maledetta curiosità di scoprire i misteri e i risvolti d’un passato che ci viene propinato (giustamente) col contagocce, una storia scritta con un intreccio incompiuto e misterioso, dal ritmo crescente e dal sapore di leggende perdute.
Uno dei primi scenari è Jenora Rock, una povera città in mezzo al deserto su un pianeta chiamato “No man’s Land”, globo sul quale gli ultimi esseri umani sono riusciti ad approdare dopo una sequenza di catastrofi che li ha visti quasi estinti. Fra tutte le disgrazie, le carestie, le difficoltà, i delinquenti e la situazione di stenti che i superstiti vivono tutti i giorni dagli anni dopo l’approdo, una fra queste è tanto spaventosa quanto singolare: esiste una persona conosciuta come il “Tifone umanoide”, una vera e propria calamità che terrorizza le genti delle terre circostanti!
Girano voci pazzesche su di lui. Si dice che la sua furia possa spazzare via un intero paese, o addirittura abbia le capacità di sconfiggere in duello qualsiasi avversario o creatura incontri. Qualcuno giura di aver assistito a queste cose, ed è sicuro che l’uomo sia portatore di sventura, una sorta di mostro senza pietà, anche se, incredibile e stranissimo a dirsi, dopo ogni sua esibizione distruttiva, non è mai stata pervenuta alcuna vittima. Cittadini, presenti e malcapitati, si sono sempre salvati tutti... ma come è possibile!?
Le compagnie assicurative sono ormai disperate: Vash “The Stampede” compare all’improvviso, e in seguito accadono avvenimenti assurdi che portano a distruzioni di portata colossale, causando danni da milioni e milioni di doppi dollari (sì, la moneta locale). Esasperati da questa situazione, gli enti in questione mandano due agenti incaricati di individuare e fermare il colpevole: i loro nomi sono Roberto, noto giornalista locale, e la sua giovane apprendista Meryl. Presto, l’ignara coppia, fra alte dune desertiche e città dal retrogusto a metà fra “Star Wars” e western spaghetti alla Sergio Leone, a bordo del loro fuoristrada, scopriranno che il temuto Vash è invero gentile, generoso, e capace di mettere a repentaglio la propria vita pur di salvare quella di chiunque incontri sul suo cammino.
Dai capelli biondi spettinati, gli occhiali da sole che nascondono uno sguardo ricco di gentilezza e tristezza, l’inconfondibile cappotto rosso fuoco e quella spaventosa pistola alla cintura, Vash non sembra affatto ciò che tutti raccontano.
Ma è davvero lui, il “Tifone umanoide”?
Cosa nasconde veramente? E da dove viene?
Tirando le somme, siamo di fronte a un lavoro eccezionale.
Lo stile dell’amato e iconico eroe è stato fortemente modernizzato. I dettagli sono stati allineati ai tempi correnti (dal look generale agli indumenti), ottenendo un risultato davvero appagante. Nonostante gli archi narrativi siano stati modificati, il modus operandi con cui la narrazione si svolge risulta scorrevole e coinvolgente. Se nella serie di venticinque anni fa si rideva di più (nonostante certi passaggi risultassero poco chiari e confusi), qui troviamo meno elementi comici e più momenti di riflessione. Ciò che un tempo fu tenuto in serbo come una potentissima rivelazione, ora è stato scelto come atroce incipit per introdurre lo spettatore a un (nuovo) mondo crudele eppure affascinante, dalle origini misteriose e dagli esiti oscuri.
Vash è tornato, questo possiamo dirlo forte.
È tornato con il suo modo di fare bislacco, con la sua perenne voglia di dolci, coi suoi sorrisi da apparente imbranato, con il suo passato oscuro e i suoi tremendi, disumani sensi di colpa, circondato dal mitico Nicholas D. Wolfwood, la graziosa e coraggiosa Meryl, e (quasi) tutti quei personaggi che alcuni di voi ricorderanno molto bene. Ed ora può comunicarci una sofferenza che, finalmente, pare riesca ad affiorare spontaneamente. Giustificata, comprensibile, come sarebbe dovuto accadere sin dall’inizio.
“TRIGUN STAMPEDE” riesce nell’intento di far ragionare lo spettatore, portandolo ad affrontare temi legati all’etica della sopravvivenza e della tolleranza, temi decisamente attuali e spigolosi, difficili da trattare, ma altrettanto importanti e accorati: l’ottusità che partorisce ogni tipo di discriminazione, la paura del diverso, l’odio di chi viene discriminato - da cui nasce la voglia di vendetta, e l’odio in risposta ad altro odio.
Cosa è disposto a fare l’uomo pur di sopravvivere? Fin dove ci spingeremmo, pur di salvarci? Esiste un bene superiore per cui azioni che normalmente sono viste come crudeli possano essere considerate addirittura accettabili?
E poi c’è lui, Vash, che ci ricorda che l’Amore e la Gentilezza possono essere forti tanto quanto le armi più letali, capaci di far agire le persone oltre ogni genere di comprensione.
Idealista? Illuso? D’esempio? Una cosa è certa, dopo venticinque anni Vash riesce a commuovere ancora una volta, e, come contrappasso, il minuzioso dualismo con cui sono stati sviluppati protagonista e antagonista riesce a mettere in confusione l’etica dell’osservatore, permettendogli di comprendere le motivazioni e gli ideali che spingono entrambi lungo irti sentieri.
Da tale, atroce scontro, scaturisce una riflessione universale.
Gravi traumi o profonde sofferenze segnano le persone per sempre, ma da questo dolore ci sono due modi di reagire: o diventi il cattivo, o vivi tanto a lungo da prenderti cura di chi soffre come hai sofferto tu.
È come un fardello, un insegnamento straziante, perché dove finisce la coscienza sparisce anche ogni senso di colpa.
Ho cercato di godermi questo nuovo “Trigun” nel modo più distaccato possibile, animo pulito, testa scevra, e ha funzionato: proprio come per quelle parole di Baricco, ho provato nostalgia per qualcosa che non avevo mai visto, anche se a tratti conoscevo. E per un attimo mi sono rivisto seduto a terra, di fronte alla TV con tubo catodico, sintonizzata su MTV durante la magica serata anime, i compiti da finire buttati su letto, seguendo le spericolate avventure del Tifone umanoide. Allora mi sono reso conto che, se proprio dobbiamo valutare qualcosa condizionati dalla nostalgia, è meglio provare a distaccarsi del tutto e trovare l’onestà necessaria per ricordarci il ragazzino che eravamo.
Poche cose sono belle come quando ritrovi un vecchio amico dopo tanti anni, e ti accorgi che sembra cambiato, ma, sotto sotto, è sempre lo stesso.
Questo è il miglior reboot che abbia mai visto.
E dopo venticinque anni, il modo che Vash ha di prendere la vita mi ispira ancora: il mondo potrà essere anche pieno di dolore e sofferenza, ma la violenza e la crudeltà non sono mai la risposta.