Recensione
Ping Pong The Animation
9.0/10
Recensione di Dreamweaver99
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Nella storia delle narrazioni, sia in letteratura che nel fumetto che nella settima arte, si è sempre cercato di valorizzare quello che in gergo tecnico viene chiamato “high concept”: spunti di trama che sono in grado di sollecitare la fantasia del fruitore, incuriosendolo e spingendolo a guardare il film o leggere il libro della situazione, come se fosse necessario partire da un biglietto da visita originale per fruire di un'opera, anche se questa non si rivelerà altrettanto originale e soddisfacente man mano che la storia si dipana nel racconto.
È quindi inevitabile che non tutte le grandi opere abbiano le stesse possibilità di essere prima di tutto iniziate, se il biglietto da visita sembra banale o poco stimolante, perché significherebbe un salto nel vuoto per tutti... a meno che non avessimo a disposizione informazioni di altro genere.
Ebbene, “Ping Pong The Animation”, uscito nel 2014 per lo studio Tatsunoko Production, è uno di quei casi in cui c’è bisogno, a mio parere, di informazioni “laterali”, perché la sinossi è molto ordinaria e non invoglia (specie per quelli come me che non sono interessati allo sport), ma l’anime trae la sua forza in uno svolgimento straordinario di quel biglietto da visita.
Dato il titolo, “Ping Pong The Animation”, si può facilmente immaginare che si tratti di uno spokon: il genere di anime dedicato ai vari sport: dal calcio alla pallavolo, fino al baseball e altri.
E da lì viene anche da chiedersi: “Per guardare uno spokon, è necessario apprezzare quel tipo di sport?” La risposta breve è: “No”, ma, se vogliamo essere più articolati, il bello dell’animazione come medium per lo sport è che - non solo - si parte dagli strumenti contenutistici e registici a disposizione in film in carne ed ossa come “Rocky” o “Tokyo Fist”, ma ha anche i mezzi per “epicizzare” lo sport attraverso l’aggiunta di scene extradiegetiche che danno alle partite uno sfondo onirico o sovrannaturale, con fulmini che accompagnano la palla in movimento per rappresentare una velocità estrema, oppure le trasformazioni dei giocatori. Dal contesto, lo spettatore capisce che scene del genere non avvengono realmente nella storia, ma sono nella mente del giocatore o in come vengono immaginate dai registi.
Si tratta insomma di un virtuosismo stilistico, se vogliamo, difficile da ricreare in un’opera live-action senza che si tratti di un blockbuster ad altissimo budget, e che sicuramente attira i giovani che hanno l’occasione di concepire uno spokon come un surrogato degli anime di combattimento con superpoteri, ma che può anche essere uno strumento narrativo interessante, in grado di comunicare qualcosa a livello espressivo e veicolare sottotesti.
“Ping Pong The Animation” parte da una scelta dello sport in questione non banale, se vista con un occhio imparziale, ma che può non essere considerata proprio, perché ad un italiano potrebbe sembrare addirittura ilare e pretenziosa, vista la nostra visione tipica di questo sport come qualcosa di sempliciotto, da praticare come passatempo.
Eppure, quest’opera con soli undici episodi (una durata molto sotto la norma per una serie d’animazione in generale) funziona anche come strumento di divulgazione dello sport stesso, perché ne dà un’immagine più o meno verosimile, dove ci vengono mostrate mosse usate in un reale contesto professionistico/olimpionico e descritte con gli altrettanto reali termini tecnici, e ci viene data l’immagine di uno sport più dinamico e riflessivo, nelle mosse che a volte sembrano quasi acrobatiche e richiedono un allontanamento dal tavolo di gioco, ma anche nei ragionamenti che i giocatori fanno durante le partite, che vediamo nei loro pensieri o in quelli degli spettatori sugli spalti.
Ma, parlando di strumenti contenutistici come menzionavo qualche paragrafo sopra, cosa viene narrato in questa serie? Si parla di rapporti, amichevoli e maestro-allievo, di ciò che si cerca nello sport e ogni partita è uno strumento di osservazione psicologica, anche di lotta e competizione tra esigenze differenti dei giocatori.
Parte tutto dalla scalata competitiva di due giovani amici del primo anno di liceo: Makoto Tsukimoto e Yutaka Hoshino, detti “Smile” e “Peco”: il primo incarna molto il classico nerd sulle sue, che vede lo sport non come scalata a tutti i costi ma come divertimento nel suo senso più puro e privo di pretese, mentre il secondo è invece una figura in apparenza più superficiale e frivola, che parte come un provocatore estroverso che vuole scalare, pensando di riuscirvi solo attraverso il talento.
Entrambi nel corso della serie acquisiscono sempre di più una crescita psicologica che li porta a rivedere i propri atteggiamenti e a seguire i loro sogni.
Si tratta di una serie per certi aspetti spregiudicata, perché offre la visione dello sport non come un completo “se vuoi, puoi”, ma una serie in cui contano sia il talento che il duro lavoro e dove non è possibile arrivare lontano senza che manchi uno dei due, e che può quindi scoraggiare equamente chi non ha voglia di sforzarsi, ma anche chi pensa di poter compensare la mancanza di talento innato con il puro allenamento.
E, se “Ping Pong The Animation” riflette su questa amara verità, ci offre anche la visione dei rapporti umani tipicamente all’orientale, dove si ricorre anche a maniere più dure rispetto alle classiche dolci parole motivazionali per spingere il giovane a dare il suo meglio, e che è, per alcuni aspetti, oggetto di critica, ma che rimane comunque austero rispetto all’immaginario occidentale, e che colpisce ancora di più se applicato a uno sport come questo, di cui vengono mostrati allenamenti aerobici simili a quelli che si fanno per sport più blasonati.
Un po’ tutti i personaggi vengono esplorati nelle motivazioni, e praticamente nessuno, anche gli avversari dei protagonisti, vengono mostrati come persone realmente cattive, se non in apparenza, ma un po’ tutti vengono mostrati come personaggi grigi, persino i protagonisti: Smile che agisce spesso come un robot, che arriva a compiere mosse spietate per arrivare ai traguardi, oppure lo sprezzante Peco con i suoi comportamenti presuntuosi. Insomma, due amici molto diversi tra di loro, la cui amicizia viene mostrata in una maniera tutt’altro che banale e che riesce a colpire per come riesca ad essere compresa senza bisogno di plateali manifestazioni d’affetto e stucchevoli momenti toccanti.
Lo spettatore riesce a percepire il loro affetto reciproco, la profondità di intenzioni e le decisioni, in una maniera molto giapponese di esprimersi, ma che avviene tranquillamente anche nelle nostre amicizie reali da Italiani, specialmente nei tipici comportamenti maschili.
Ogni partita è prima di tutto una battaglia psicologica, dove si mettono in discussione ciò che ognuno cerca nello sport, sia tra i giocatori che tra gli spettatori. Su questo aspetto, ne è forse l’esempio più eclatante Kong Wenge, giocatore cinese in cerca di riscatto in Giappone e orgoglioso di appartenere a una Nazione che è la più forte al mondo per questo sport, e che, anche per questo, viene nutrito di molte aspettative (anche subendole), che hanno un impatto sulla sua personalità a tratti arrogante e piena di pregiudizi.
L’utilizzo di sequenze extradiegetiche è, in quest’anime, non un mero strumento di intrattenimento, in grado di eccitare con gli effetti speciali, ma un mezzo per dare varietà alle partite, che traduce in forma l’indole dei personaggi, come l’immaginario robotico di Smile, che rappresenta il suo desiderio di spegnere sul campo la tranquillità e l'interferenza dei sentimenti a favore di una trance da macchina da guerra, da “eroe” spregiudicato.
Ma l’altro aspetto profondo di questa serie è la regia, ragionata ai livelli di un film in carne ed ossa e straordinaria, anche se volessimo estendere il paragone con un po’ tutti i contesti della settima arte, con una narrazione frammentata e post-moderna, piena di velocizzazione e rallenty, di flashback e improvvise velocizzazioni, ma soprattutto di un utilizzo ritmico degli strumenti tipici del fumetto: le diverse vignette in una singola pagina qui vengono tradotte in cosiddetti split screen, cioè inquadrature parallele unite in un’unica inquadratura con anche più di due-tre esemplari, che oltretutto si alternano continuamente in un senso movimentato e a volte imprevedibile, riuscendo comunque ad arrivare a strutture perfettamente ordinate e mai confusionarie, sfruttando per descrivere contrapposizioni nei primi piani dei personaggi, tra i diversi sentimenti dei personaggi, ma oltretutto beneficiano della quarta dimensione del tempo che, naturalmente, un fumetto dalle immagini statiche non può avere.
Questi split screen permettono infatti di seguire la pallina e i movimenti dei protagonisti (a volte anche in contemporanea alle osservazioni degli spettatori) con una prontezza e una fedeltà allucinanti, con un senso della misura pulito e che potenzia il senso di dinamismo dello sport, che ti immerge ancora di più in un senso di sperimentazione mai troppo invadente e che ad un certo punto sembra naturale allo spettatore nonostante la sua eccentricità, man mano che entri nel meccanismo.
A questo si unisce un tratto stilizzato (simile a quello di “Mind Game” e “Devilman Crybaby”, che infatti sono diretti da Masaaki Yuasa, dal tratto inconfondibile), che aumenta il senso di trovarsi all’interno di un fumetto portato nella settima arte, attraverso un’operazione che, probabilmente, avrebbe destato ammirazione persino nei futuristi.
Degne di nota sono anche le musiche energiche e la sigla di altissimo livello, dal suono punk che ricorda a tratti band come i Dead Kennedys e i Ramones, con un cantato simile a quello di Joe Strummer, un vero gioiellino in un capolavoro.
Tutte queste sfumature hanno permesso a “Ping Pong The Animation” di essere una serie matura e profonda (al di là di piccole sbavature come lo spam un po' naïf dell'inglese in molte scene o, come in tutti gli anime, alcuni episodi leggermente sottotono), pieno di "contemporaneamente": in grado sia di avere uno spirito inter-artistico che di ampliare gli orizzonti e le prerogative inimitabili del proprio medium di serie TV, è una pietra miliare sia spontanea, calda che cerebrale e sperimentale, che va oltre il proprio genere, rimanendo comunque fedele ai suoi stilemi e ai suoi principi, in grado di far diventare lo sport un’allegoria delle passioni in generale e del bisogno di prenderle sul serio, di lasciare un’impronta nella pratica di esse. È anche per questo che io, alieno a tutti gli sport fisici, sono riuscito ad amarlo fino in fondo.
È quindi inevitabile che non tutte le grandi opere abbiano le stesse possibilità di essere prima di tutto iniziate, se il biglietto da visita sembra banale o poco stimolante, perché significherebbe un salto nel vuoto per tutti... a meno che non avessimo a disposizione informazioni di altro genere.
Ebbene, “Ping Pong The Animation”, uscito nel 2014 per lo studio Tatsunoko Production, è uno di quei casi in cui c’è bisogno, a mio parere, di informazioni “laterali”, perché la sinossi è molto ordinaria e non invoglia (specie per quelli come me che non sono interessati allo sport), ma l’anime trae la sua forza in uno svolgimento straordinario di quel biglietto da visita.
Dato il titolo, “Ping Pong The Animation”, si può facilmente immaginare che si tratti di uno spokon: il genere di anime dedicato ai vari sport: dal calcio alla pallavolo, fino al baseball e altri.
E da lì viene anche da chiedersi: “Per guardare uno spokon, è necessario apprezzare quel tipo di sport?” La risposta breve è: “No”, ma, se vogliamo essere più articolati, il bello dell’animazione come medium per lo sport è che - non solo - si parte dagli strumenti contenutistici e registici a disposizione in film in carne ed ossa come “Rocky” o “Tokyo Fist”, ma ha anche i mezzi per “epicizzare” lo sport attraverso l’aggiunta di scene extradiegetiche che danno alle partite uno sfondo onirico o sovrannaturale, con fulmini che accompagnano la palla in movimento per rappresentare una velocità estrema, oppure le trasformazioni dei giocatori. Dal contesto, lo spettatore capisce che scene del genere non avvengono realmente nella storia, ma sono nella mente del giocatore o in come vengono immaginate dai registi.
Si tratta insomma di un virtuosismo stilistico, se vogliamo, difficile da ricreare in un’opera live-action senza che si tratti di un blockbuster ad altissimo budget, e che sicuramente attira i giovani che hanno l’occasione di concepire uno spokon come un surrogato degli anime di combattimento con superpoteri, ma che può anche essere uno strumento narrativo interessante, in grado di comunicare qualcosa a livello espressivo e veicolare sottotesti.
“Ping Pong The Animation” parte da una scelta dello sport in questione non banale, se vista con un occhio imparziale, ma che può non essere considerata proprio, perché ad un italiano potrebbe sembrare addirittura ilare e pretenziosa, vista la nostra visione tipica di questo sport come qualcosa di sempliciotto, da praticare come passatempo.
Eppure, quest’opera con soli undici episodi (una durata molto sotto la norma per una serie d’animazione in generale) funziona anche come strumento di divulgazione dello sport stesso, perché ne dà un’immagine più o meno verosimile, dove ci vengono mostrate mosse usate in un reale contesto professionistico/olimpionico e descritte con gli altrettanto reali termini tecnici, e ci viene data l’immagine di uno sport più dinamico e riflessivo, nelle mosse che a volte sembrano quasi acrobatiche e richiedono un allontanamento dal tavolo di gioco, ma anche nei ragionamenti che i giocatori fanno durante le partite, che vediamo nei loro pensieri o in quelli degli spettatori sugli spalti.
Ma, parlando di strumenti contenutistici come menzionavo qualche paragrafo sopra, cosa viene narrato in questa serie? Si parla di rapporti, amichevoli e maestro-allievo, di ciò che si cerca nello sport e ogni partita è uno strumento di osservazione psicologica, anche di lotta e competizione tra esigenze differenti dei giocatori.
Parte tutto dalla scalata competitiva di due giovani amici del primo anno di liceo: Makoto Tsukimoto e Yutaka Hoshino, detti “Smile” e “Peco”: il primo incarna molto il classico nerd sulle sue, che vede lo sport non come scalata a tutti i costi ma come divertimento nel suo senso più puro e privo di pretese, mentre il secondo è invece una figura in apparenza più superficiale e frivola, che parte come un provocatore estroverso che vuole scalare, pensando di riuscirvi solo attraverso il talento.
Entrambi nel corso della serie acquisiscono sempre di più una crescita psicologica che li porta a rivedere i propri atteggiamenti e a seguire i loro sogni.
Si tratta di una serie per certi aspetti spregiudicata, perché offre la visione dello sport non come un completo “se vuoi, puoi”, ma una serie in cui contano sia il talento che il duro lavoro e dove non è possibile arrivare lontano senza che manchi uno dei due, e che può quindi scoraggiare equamente chi non ha voglia di sforzarsi, ma anche chi pensa di poter compensare la mancanza di talento innato con il puro allenamento.
E, se “Ping Pong The Animation” riflette su questa amara verità, ci offre anche la visione dei rapporti umani tipicamente all’orientale, dove si ricorre anche a maniere più dure rispetto alle classiche dolci parole motivazionali per spingere il giovane a dare il suo meglio, e che è, per alcuni aspetti, oggetto di critica, ma che rimane comunque austero rispetto all’immaginario occidentale, e che colpisce ancora di più se applicato a uno sport come questo, di cui vengono mostrati allenamenti aerobici simili a quelli che si fanno per sport più blasonati.
Un po’ tutti i personaggi vengono esplorati nelle motivazioni, e praticamente nessuno, anche gli avversari dei protagonisti, vengono mostrati come persone realmente cattive, se non in apparenza, ma un po’ tutti vengono mostrati come personaggi grigi, persino i protagonisti: Smile che agisce spesso come un robot, che arriva a compiere mosse spietate per arrivare ai traguardi, oppure lo sprezzante Peco con i suoi comportamenti presuntuosi. Insomma, due amici molto diversi tra di loro, la cui amicizia viene mostrata in una maniera tutt’altro che banale e che riesce a colpire per come riesca ad essere compresa senza bisogno di plateali manifestazioni d’affetto e stucchevoli momenti toccanti.
Lo spettatore riesce a percepire il loro affetto reciproco, la profondità di intenzioni e le decisioni, in una maniera molto giapponese di esprimersi, ma che avviene tranquillamente anche nelle nostre amicizie reali da Italiani, specialmente nei tipici comportamenti maschili.
Ogni partita è prima di tutto una battaglia psicologica, dove si mettono in discussione ciò che ognuno cerca nello sport, sia tra i giocatori che tra gli spettatori. Su questo aspetto, ne è forse l’esempio più eclatante Kong Wenge, giocatore cinese in cerca di riscatto in Giappone e orgoglioso di appartenere a una Nazione che è la più forte al mondo per questo sport, e che, anche per questo, viene nutrito di molte aspettative (anche subendole), che hanno un impatto sulla sua personalità a tratti arrogante e piena di pregiudizi.
L’utilizzo di sequenze extradiegetiche è, in quest’anime, non un mero strumento di intrattenimento, in grado di eccitare con gli effetti speciali, ma un mezzo per dare varietà alle partite, che traduce in forma l’indole dei personaggi, come l’immaginario robotico di Smile, che rappresenta il suo desiderio di spegnere sul campo la tranquillità e l'interferenza dei sentimenti a favore di una trance da macchina da guerra, da “eroe” spregiudicato.
Ma l’altro aspetto profondo di questa serie è la regia, ragionata ai livelli di un film in carne ed ossa e straordinaria, anche se volessimo estendere il paragone con un po’ tutti i contesti della settima arte, con una narrazione frammentata e post-moderna, piena di velocizzazione e rallenty, di flashback e improvvise velocizzazioni, ma soprattutto di un utilizzo ritmico degli strumenti tipici del fumetto: le diverse vignette in una singola pagina qui vengono tradotte in cosiddetti split screen, cioè inquadrature parallele unite in un’unica inquadratura con anche più di due-tre esemplari, che oltretutto si alternano continuamente in un senso movimentato e a volte imprevedibile, riuscendo comunque ad arrivare a strutture perfettamente ordinate e mai confusionarie, sfruttando per descrivere contrapposizioni nei primi piani dei personaggi, tra i diversi sentimenti dei personaggi, ma oltretutto beneficiano della quarta dimensione del tempo che, naturalmente, un fumetto dalle immagini statiche non può avere.
Questi split screen permettono infatti di seguire la pallina e i movimenti dei protagonisti (a volte anche in contemporanea alle osservazioni degli spettatori) con una prontezza e una fedeltà allucinanti, con un senso della misura pulito e che potenzia il senso di dinamismo dello sport, che ti immerge ancora di più in un senso di sperimentazione mai troppo invadente e che ad un certo punto sembra naturale allo spettatore nonostante la sua eccentricità, man mano che entri nel meccanismo.
A questo si unisce un tratto stilizzato (simile a quello di “Mind Game” e “Devilman Crybaby”, che infatti sono diretti da Masaaki Yuasa, dal tratto inconfondibile), che aumenta il senso di trovarsi all’interno di un fumetto portato nella settima arte, attraverso un’operazione che, probabilmente, avrebbe destato ammirazione persino nei futuristi.
Degne di nota sono anche le musiche energiche e la sigla di altissimo livello, dal suono punk che ricorda a tratti band come i Dead Kennedys e i Ramones, con un cantato simile a quello di Joe Strummer, un vero gioiellino in un capolavoro.
Tutte queste sfumature hanno permesso a “Ping Pong The Animation” di essere una serie matura e profonda (al di là di piccole sbavature come lo spam un po' naïf dell'inglese in molte scene o, come in tutti gli anime, alcuni episodi leggermente sottotono), pieno di "contemporaneamente": in grado sia di avere uno spirito inter-artistico che di ampliare gli orizzonti e le prerogative inimitabili del proprio medium di serie TV, è una pietra miliare sia spontanea, calda che cerebrale e sperimentale, che va oltre il proprio genere, rimanendo comunque fedele ai suoi stilemi e ai suoi principi, in grado di far diventare lo sport un’allegoria delle passioni in generale e del bisogno di prenderle sul serio, di lasciare un’impronta nella pratica di esse. È anche per questo che io, alieno a tutti gli sport fisici, sono riuscito ad amarlo fino in fondo.