Recensione
Violet Evergarden
8.0/10
Recensione di Dreamweaver99
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Può una macellatrice di vite diventare creazione, conforto, umanità?
È questa la domanda principale che in termini diversi si pongono gli stessi personaggi quando si parla della protagonista omonima di questa serie, “Violet Evergarden”.
Si tratta di un’opera che è stata trasposta da una light novel di Kana Akatsuki e Akiko Takase per Netflix dallo studio Kyoto Animation, che prende piede in un continente fantastico di nome Telsis (il quale sembra avere una fisionomia, una cultura e un’onomastica europoidi).
Violet è un’orfana prodigio dalle spiccate doti combattive e mnemoniche che è stata presa dall’esercito di Leidenschalftlich e trattata fin da piccola come un robot senza cuore, pronta solo a prendere ordini e agire senza pietà, poiché priva di alternative. Con il suo temperamento remissivo, apparentemente apatico, non ha fatto molto per cambiare questo stato di cose, di isolamento emotivo e culturale, incapace di comprendere i mali della guerra finché non stabilisce degli affetti.
Qualcosa cambia quando incontra un maggiore che la ama e tratta per la prima volta come un essere umano, per poi scomparire in guerra. Da lì in poi, Violet si iscrive a un lavoro di scrittura di lettere, dove il suo mestiere viene chiamato auto memories doll (noi lo chiameremmo più ghostwriter), occupandosi di esprimere su carta i sentimenti dei clienti paganti; in questo mestiere la protagonista vede un’opportunità per comprendere le proprie emozioni e il significato della frase “Ti amo” detta dal maggiore prima di congedarsi.
Da questa premessa, è una serie che sicuramente aveva diverse gatte da pelare per garantire la propria qualità, con la trama a rischio di essere un po’ troppo da “slowflake”, cioè l’idea della vittima incompresa che è troppo buona per un mondo crudele. In più, gli eccessi del melodramma, genere a cui essa certamente appartiene per i suoi struggimenti romantici e le scene talvolta fatte a tavolino per far scaturire il pianto, come da tradizione millenaria del filone comune a tutti i media narrativi.
“Violet Evergarden” certamente cammina sul filo e in alcuni casi cade sotto, non si può negare, ma in linea generale l’opera è contestualizzata molto bene, perché il temperamento della protagonista e l’indulgenza verso i comprimari (che, come la protagonista, hanno un po’ tutti i loro pregi e difetti senza facili manicheismi) rendono l’atmosfera mutevole, sospesa tra momenti di leggerezza, di riflessione e momenti commoventi, comunque quasi sempre genuina, con una protagonista dal cuore d’oro ma mai perfetta e antipatica, sempre in evoluzione.
L’anime è strutturato quasi antologicamente nel coinvolgere ogni volta personaggi diversi e situazioni diverse che hanno un fil rouge relativamente vago, ma in realtà finalizzati il più delle volte ad essere soprattutto strumenti viventi per la crescita di Violet, che rende la serie un viaggio che non è fisico e neanche didattico o intellettuale in senso stretto, quanto più emotivo.
La particolarità della struttura della serie è però che questo viaggio ha un corrispettivo pratico, perché il procedere di questo viaggio segue il ritmo di formazione di Violet come doll, in grado di volta in volta di entrare più in empatia con i clienti e affinare la sua penna; questa scelta porta dunque a un intreccio che pone le emozioni non solo come un cammino personale ma come una riflessione perenne sulle difficoltà comunicative, sulle briglie psicologiche che un ambiente tossico, la crudeltà della guerra e i fraintendimenti possono generare nell’individuo.
La stessa scelta della mansione di Violet è un pretesto originale per parlare di tutte queste difficoltà che non permettono una completa autonomia di espressione. Di conseguenza, se nel mondo reale il ghostwriter viene visto molto spesso come una figura squallida o perlomeno superflua, in una cultura del genere, tecnologicamente diversa e segnata dalle avversità della guerra, il mestiere assume un valore diverso, non più finalizzato a sopperire alle carenze di creatività artistica ma ai fini di mediazione, di ricombinazione di concetti preesistenti nel cliente, dove Violet mette in relazione le vicende altrui con le proprie, per cui il suo vivere meglio le cose diventa un modo per donare più genuinità catartica e universalità ad affari privati, che si riflette anche nel rapporto che lo spettatore ha con la visione, conoscendo sempre nuovi personaggi, senza che abbiano il tempo di essere approfonditi in molte puntate. Questi sono in grado di colpire e commuovere comunque lo spettatore, perché le loro storie sono diversificate e cesellate tra di loro per rimandare a sentimenti ancestrali e di ampia portata (ed è proprio in questo aspetto che l’anime talvolta “gioca sporco” con le scene, ricorrendo a soluzioni un po’ facili per far scaturire struggimento, benché altre ancora siano memorabili nella loro spontaneità e delicatezza).
La figura della doll sembrerebbe, tra l’altro, l’unico forte elemento antropologico nella nazione inventata nell’anime, visto che per il resto è descritta in maniera generica e verosimile: probabilmente questa nazione è un’allegoria di un territorio di guerra in generale, con una fisionomia simile a quella della prima metà del ‘900, sebbene le protesi delle braccia di Violet siano una licenza artistica finalizzata a dare un aspetto più robotico a una ragazza concepita per avere tratti sovrumani.
In questo contesto, la doll assurge a simbolo per i festeggiamenti di pace, non è solo al centro di una vicenda privata dei personaggi su cui si regge la trama intera, ma lascia intendere come questa mansione fosse anche al centro di un’importante tradizione culturale e sociale diffusa, come avrebbe potuto esserlo una banda militare.
Tra le tante qualità di quest’anime, abbiamo anche un comparto tecnico e uno stile di disegno patinati e dettagliati, che lo rendono simile a molti anime del decennio dal punto di vista del disegno elegante e verosimile, ma da cui si distingue per la cura e la perfezione con cui tutto questo viene orchestrato, che lo rende tecnicamente impeccabile, non solo nella rappresentazione dei personaggi ma anche degli ambienti, dai colori luminosi ma mai stroboscopici, più che altro vividi e suggestivi, perfetti per amplificare le sensazioni delle vicende, insieme alla splendida colonna sonora dominata da violini e pianoforte.
I comprimari di Violet Evergarden sono altre doll e commilitoni, tutti gradevoli e utili alla trama, ma su cui inevitabilmente la protagonista spicca di gran lunga, in quanto narrativamente concepiti per essere in funzione delle sue esperienze e della sua evoluzione. È una dinamica che si sarebbe potuta evitare se l’anime fosse stato più lungo, ma in tal caso l’impatto psicologico delle tristi vicende avrebbe potuto con ogni probabilità essere monotono e troppo sfilacciato, per cui è un bene che l’equazione sia rimasta questa.
“Violet Evergarden” è un gioiellino fruibile e apollineo, dove il messaggio etico è chiaro e i mali della guerra si sentono in tutta la loro tragicità, ma il tutto è sempre filtrato da una delicatezza e un’eleganza di fondo che, per chi nutre certi pregiudizi cinici, può essere fraintesa con conformismo, furbizia e superficialità, ma che in questo caso è più che altro una scelta stilistica che indubbiamente può essere parte di una logica di mercato per la sua fruibilità, che è giustificata dalla sua combinazione con i disegni e il modo di narrare delicato, mai morboso, senza che i temi trattati siano comunque banalizzati (si parla per esempio di persone costrette a partecipare al business della guerra per sbarcare il lunario, che per uno storico potrebbe essere scontato, in un'opera narrativa non è un discorso così comune).
Nonostante i difetti sopracitati, “Violet Evergarden” è un anime intenso, in grado di colpire lo spettatore con una trama solida e senza facili frenesie, che, nonostante la scarsa durata in episodi, si prende il suo tempo e restituisce una visione romantica e quasi naïf della vita, dove il cammino verso la conoscenza e la verità è prima di tutto basato sul cuore e, per questo, organico ai valori della scrittura e dell’arte, al senso di umanità in generale.
È questa la domanda principale che in termini diversi si pongono gli stessi personaggi quando si parla della protagonista omonima di questa serie, “Violet Evergarden”.
Si tratta di un’opera che è stata trasposta da una light novel di Kana Akatsuki e Akiko Takase per Netflix dallo studio Kyoto Animation, che prende piede in un continente fantastico di nome Telsis (il quale sembra avere una fisionomia, una cultura e un’onomastica europoidi).
Violet è un’orfana prodigio dalle spiccate doti combattive e mnemoniche che è stata presa dall’esercito di Leidenschalftlich e trattata fin da piccola come un robot senza cuore, pronta solo a prendere ordini e agire senza pietà, poiché priva di alternative. Con il suo temperamento remissivo, apparentemente apatico, non ha fatto molto per cambiare questo stato di cose, di isolamento emotivo e culturale, incapace di comprendere i mali della guerra finché non stabilisce degli affetti.
Qualcosa cambia quando incontra un maggiore che la ama e tratta per la prima volta come un essere umano, per poi scomparire in guerra. Da lì in poi, Violet si iscrive a un lavoro di scrittura di lettere, dove il suo mestiere viene chiamato auto memories doll (noi lo chiameremmo più ghostwriter), occupandosi di esprimere su carta i sentimenti dei clienti paganti; in questo mestiere la protagonista vede un’opportunità per comprendere le proprie emozioni e il significato della frase “Ti amo” detta dal maggiore prima di congedarsi.
Da questa premessa, è una serie che sicuramente aveva diverse gatte da pelare per garantire la propria qualità, con la trama a rischio di essere un po’ troppo da “slowflake”, cioè l’idea della vittima incompresa che è troppo buona per un mondo crudele. In più, gli eccessi del melodramma, genere a cui essa certamente appartiene per i suoi struggimenti romantici e le scene talvolta fatte a tavolino per far scaturire il pianto, come da tradizione millenaria del filone comune a tutti i media narrativi.
“Violet Evergarden” certamente cammina sul filo e in alcuni casi cade sotto, non si può negare, ma in linea generale l’opera è contestualizzata molto bene, perché il temperamento della protagonista e l’indulgenza verso i comprimari (che, come la protagonista, hanno un po’ tutti i loro pregi e difetti senza facili manicheismi) rendono l’atmosfera mutevole, sospesa tra momenti di leggerezza, di riflessione e momenti commoventi, comunque quasi sempre genuina, con una protagonista dal cuore d’oro ma mai perfetta e antipatica, sempre in evoluzione.
L’anime è strutturato quasi antologicamente nel coinvolgere ogni volta personaggi diversi e situazioni diverse che hanno un fil rouge relativamente vago, ma in realtà finalizzati il più delle volte ad essere soprattutto strumenti viventi per la crescita di Violet, che rende la serie un viaggio che non è fisico e neanche didattico o intellettuale in senso stretto, quanto più emotivo.
La particolarità della struttura della serie è però che questo viaggio ha un corrispettivo pratico, perché il procedere di questo viaggio segue il ritmo di formazione di Violet come doll, in grado di volta in volta di entrare più in empatia con i clienti e affinare la sua penna; questa scelta porta dunque a un intreccio che pone le emozioni non solo come un cammino personale ma come una riflessione perenne sulle difficoltà comunicative, sulle briglie psicologiche che un ambiente tossico, la crudeltà della guerra e i fraintendimenti possono generare nell’individuo.
La stessa scelta della mansione di Violet è un pretesto originale per parlare di tutte queste difficoltà che non permettono una completa autonomia di espressione. Di conseguenza, se nel mondo reale il ghostwriter viene visto molto spesso come una figura squallida o perlomeno superflua, in una cultura del genere, tecnologicamente diversa e segnata dalle avversità della guerra, il mestiere assume un valore diverso, non più finalizzato a sopperire alle carenze di creatività artistica ma ai fini di mediazione, di ricombinazione di concetti preesistenti nel cliente, dove Violet mette in relazione le vicende altrui con le proprie, per cui il suo vivere meglio le cose diventa un modo per donare più genuinità catartica e universalità ad affari privati, che si riflette anche nel rapporto che lo spettatore ha con la visione, conoscendo sempre nuovi personaggi, senza che abbiano il tempo di essere approfonditi in molte puntate. Questi sono in grado di colpire e commuovere comunque lo spettatore, perché le loro storie sono diversificate e cesellate tra di loro per rimandare a sentimenti ancestrali e di ampia portata (ed è proprio in questo aspetto che l’anime talvolta “gioca sporco” con le scene, ricorrendo a soluzioni un po’ facili per far scaturire struggimento, benché altre ancora siano memorabili nella loro spontaneità e delicatezza).
La figura della doll sembrerebbe, tra l’altro, l’unico forte elemento antropologico nella nazione inventata nell’anime, visto che per il resto è descritta in maniera generica e verosimile: probabilmente questa nazione è un’allegoria di un territorio di guerra in generale, con una fisionomia simile a quella della prima metà del ‘900, sebbene le protesi delle braccia di Violet siano una licenza artistica finalizzata a dare un aspetto più robotico a una ragazza concepita per avere tratti sovrumani.
In questo contesto, la doll assurge a simbolo per i festeggiamenti di pace, non è solo al centro di una vicenda privata dei personaggi su cui si regge la trama intera, ma lascia intendere come questa mansione fosse anche al centro di un’importante tradizione culturale e sociale diffusa, come avrebbe potuto esserlo una banda militare.
Tra le tante qualità di quest’anime, abbiamo anche un comparto tecnico e uno stile di disegno patinati e dettagliati, che lo rendono simile a molti anime del decennio dal punto di vista del disegno elegante e verosimile, ma da cui si distingue per la cura e la perfezione con cui tutto questo viene orchestrato, che lo rende tecnicamente impeccabile, non solo nella rappresentazione dei personaggi ma anche degli ambienti, dai colori luminosi ma mai stroboscopici, più che altro vividi e suggestivi, perfetti per amplificare le sensazioni delle vicende, insieme alla splendida colonna sonora dominata da violini e pianoforte.
I comprimari di Violet Evergarden sono altre doll e commilitoni, tutti gradevoli e utili alla trama, ma su cui inevitabilmente la protagonista spicca di gran lunga, in quanto narrativamente concepiti per essere in funzione delle sue esperienze e della sua evoluzione. È una dinamica che si sarebbe potuta evitare se l’anime fosse stato più lungo, ma in tal caso l’impatto psicologico delle tristi vicende avrebbe potuto con ogni probabilità essere monotono e troppo sfilacciato, per cui è un bene che l’equazione sia rimasta questa.
“Violet Evergarden” è un gioiellino fruibile e apollineo, dove il messaggio etico è chiaro e i mali della guerra si sentono in tutta la loro tragicità, ma il tutto è sempre filtrato da una delicatezza e un’eleganza di fondo che, per chi nutre certi pregiudizi cinici, può essere fraintesa con conformismo, furbizia e superficialità, ma che in questo caso è più che altro una scelta stilistica che indubbiamente può essere parte di una logica di mercato per la sua fruibilità, che è giustificata dalla sua combinazione con i disegni e il modo di narrare delicato, mai morboso, senza che i temi trattati siano comunque banalizzati (si parla per esempio di persone costrette a partecipare al business della guerra per sbarcare il lunario, che per uno storico potrebbe essere scontato, in un'opera narrativa non è un discorso così comune).
Nonostante i difetti sopracitati, “Violet Evergarden” è un anime intenso, in grado di colpire lo spettatore con una trama solida e senza facili frenesie, che, nonostante la scarsa durata in episodi, si prende il suo tempo e restituisce una visione romantica e quasi naïf della vita, dove il cammino verso la conoscenza e la verità è prima di tutto basato sul cuore e, per questo, organico ai valori della scrittura e dell’arte, al senso di umanità in generale.