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Nonostante sia povero, il piccolo orfano Taro, nato in un villaggio montano nella provincia del Shinshu, è viziato, pigro, fannullone e cresciuto nella bambagia, coccolato dalla nonna che si spezza la schiena per farlo mangiare mentre lui passa il tempo a giocare con i suoi amici animali. La sua esistenza cambierà dall'oggi al domani dopo l'incontro con un tengu: l'uomo-uccello gli offre infatti da bere un bicchiere di saké miracoloso, che gli fa ottenere la forza di cento uomini. Taro apprenderà che potrà usare il suo potere solo al servizio degli altri, quando realizzerà azioni non più per il bene di sé stesso ma solo per quello altrui. Il ragazzo avrà modo di maturare poco dopo, quando apprenderà che sua madre è ancora viva: dopo averlo partorito si era trasformata, per effetto di una misteriosa maledizione, in un drago, volando via e abbandonandolo. Desideroso di scoprire il perché, il ragazzo se ne va dal villaggio con l'intenzione di ritrovarla. Ha inizio la sua avventura.

Film di lodevole incanto, "Taro the Dragon Boy" è l'ultimo lungometraggio davvero memorabile realizzato da Toei Animation prima che il suo glorioso nome diventasse sinonimo di poco originali trasposizioni televisive medio/low budget di manga di successo. Un vero e proprio canto del cigno che mette la parola Fine a un'epoca d'oro, quella dove lo studio dettava legge nella creazione di lungometraggi di grandissima qualità artistica, ma che ora, persi i suoi più valenti uomini (Miyazaki, Takahata, Otsuka) e preso atto della nascita di nuove realtà talentuose come gli studi Tokyo Movie Shinsha, Mad House, Sunrise etc., è destinata a cedere il passo, senza però rinunciare a dettare un'ultima volta legge nel '79 con un grande film che rappresenta, metaforicamente, la sua eredità, il prestigioso commiato. Basato sull'omonimo romanzo di Miyoko Matsutani, a sua volta ispirato a una delle numerose, tipiche leggende del folklore nipponico, Taro sceglie coraggiosamente un background antico quale il Giappone feudale (in contrapposizione con il modaiolo scenario sci-fi di quegli anni, sdoganato da "Corazzata Spaziale Yamato" e dagli anime robotici) per raccontare una favola per bambini apprezzabilissima anche da un pubblico adulto. Una bella fiaba completa di morale (la ragione per cui la madre dell'eroe si è trasformata nella gigantesca creatura volante) e vari messaggi educativi, che prevedibilmente usa lo spunto di partenza per raccontare la crescita e la maturazione del protagonista.

Inizialmente un pigrone rifocillato dalla nonnina, sempre in giro a divertirsi disinteressandosi delle misere condizioni in cui versa il suo villaggio (e del duro lavoro a cui sono costretti i suoi compaesani per sopravvivere), Taro, nelle sue peregrinazioni, sperimenterà sulla propria pelle la realtà della vita: si guadagnerà di che vivere lavorando nei fertili campi di un paesello più ricco del suo, piangerà mangiando un "lussuoso" odango che la sua gente non potrebbe mai permettersi, imparerà la bellezza di aiutare disinteressatamente qualcuno in difficoltà per ricevere in cambio semplice gratitudine. Utilizzerà la sua forza erculea a fin di bene, diventando il salvatore di comunità più povere, aiutando una bambina rapita da un malvagio oni (demone), e riconciliandosi con la madre dopo aver appreso la sua triste storia. Una bella avventura insomma, che soddisfa le ambizioni di una riuscitissima storia di formazione. I toni del film sono ovviamente infantili, ma non per questo disprezzabili da un pubblico adulto: nonostante i dialoghi un po' ingenui, il carisma di Taro, i buffi disegni, i bei messaggi e il poderoso impatto visivo della pellicola sono elementi decisamente in grado di fare la differenza e affascinare il pubblico over-12.

Animazioni fluide e curatissime, maniacali nei dettagli, infondono vita a personaggi che, nonostante il design bambinesco, trovano una eccezionale mimica facciale che esprime con grande spontaneità i loro sentimenti. Taro, in particolare, con la simpatia, energia e volontà che lo contraddistinguono (e che ricordano il Conan miyazakiano dell'anno prima), diventa adorabile quando canta frequentemente la canzone portante del film, con quell'irresistibile, solenne ritornello flautistico "Ore wa, ore wa Tatsu no Ko Tatsu no Ko Taro" destinato ad attestarsi indelebilmente come una delle canzoni più belle mai sentite in un film d'animazione. In particolar modo, tuttavia, sono i fondali a rappresentare il noto, poderoso elemento della produzione: splendidi quadri basati sullo stile pittorico sumi-e, color ossidiana e dalle forme astratte a vaporose che rendono alla perfezione la dimensione mitologica di una vicenda dove sono di scena tengu, oni, draghi e altra fauna fantastica e raffigurazioni grafiche del folklore giapponese. Dall'inizio alla fine lo spettatore si gode, affascinato, una splendida componente visiva che si fa ricordare e che rappresenta per buona parte il pregio maggiore della pellicola.

Sull'altro lato della medaglia pesano indifferenti caratterizzazioni dei comprimari, alcuni personaggi il cui senso nella trama è oscuro e dialoghi, come già detto, ingenui: elementi che potrebbero essere particolarmente invisi dagli adulti insensibili al carisma visivo e concettuale della pellicola e più critici sul livello di scrittura della storia. Taro rimane comunque un film che, per il sense of wonder evocato e la sua importanza nella storia di Toei Animation, è degno, nonostante la bassissima notorietà, di venire accostato alle opere Ghibli, anche se, indubbiamente, rispetto a loro necessita di maggior contestualizzazione.