Recensione
Solanin
6.0/10
Dopo aver letto il primo volume di Solanin - per la seconda volta - l'insufficienza in sede di recensione pareva un destino segnato. Infine ho letto la seconda parte, e la mia volontà è vacillata un po'. Non troppo, però: in tutta onestà, continuo a reputare questa miniserie come sopravvalutata, e il mangaka Inio Asano un po' troppo pubblicizzato – non ha nemmeno trent'anni, e già si parla di “autore enorme” (cit. Planet Manga).
Adesso vorrete sapere il perché di questo parere così lontano da quello dell'opinione pubblica, suppongo. Bene, eccovi serviti.
Come tutti i slice of life, Solanin non ha una vera e propria trama. Badate bene, questo non è un difetto, è semplicemente una caratteristica del genere – la vita non ha trama. Proverò comunque a riassumerla. Asano segue la vita di una giovane coppia uscita da poco dall'università. Lui, Taneda, fa un lavoretto che gli dà solo spiccioli e, nel tempo perso, ha una band dove canta e suona la chitarra. Lei, Meiko, lavora in un ufficio: o meglio, lavorava. Il punto di svolta è infatti questo: la ragazza lascia il lavoro, oppressa dalla monotonia del suo incarico e dai colleghi falsi e disposti a tutto pur di avanzare di posizione. A questo scatto di ribellione, però, non si accompagna, come uno si aspetterebbe, la voglia di fare e di cercarsi un impiego migliore, e questo ha pesanti conseguenze. La più importante è senza dubbio il fatto che di lì a poco la coppia – convivente – avrà pochissimi soldi per vivere. Questo potrebbe mettere seriamente a rischio l'equilibrio della relazione, perché né Meiko né Taneda si sono mai posti domande su un futuro a lungo termine, che davano per scontato. E scontato, all'improvviso, non è. Quanto a Taneda, l'unica via d'uscita che trova alla pericolosa situazione è cercare di far diventare professionale la propria band, facendo concerti e producendo demo. Purtroppo l'operazione non dà i risultati sperati, e il nostro - sempre più confuso su cosa fare della sua vita - medita lo scioglimento, e medita anche di rompere la relazione con la sua convivente. Dopo averne discusso – e dopo, come sempre, averne ricavato nulla di concreto – Taneda esce di casa, non capendo che se non deciderà lui da solo potrebbe sempre essere qualcun altro, destino incluso, a farlo...
Mi viene in mente ciò che diceva J.R.R. Tolkien, uno dei padri della narrativa fantastica: secondo lui un libro del genere, per essere meritevole, doveva far credere al lettore che quello che stava leggendo era vero (ovviamente solo durante la lettura). Il lettore sa bene che i draghi - ad esempio - non esistono, ma il buon libro fantasy è in grado, senza l'uso di trucchi mentali, di far sì che per un po' egli trovi totalmente plausibile che da qualche parte ci sia un drago vivo e vegeto.
Vi chiederete che c'entra con Solanin, palesemente non fantasy. Beh, secondo me il ragionamento di Tolkien si può applicare a tutte le opere, di tutti i tipi e tutti i generi. Siamo consapevoli che i personaggi non sono (in genere) persone realmente esistenti, eppure quando leggiamo ce ne dimentichiamo. Quando non succede allora qualcosa non funziona, ed è esattamente quello che accade con Solanin. Si vede chiaramente che la storia non è stata scritta come veniva, lasciando liberi i protagonisti di svilupparsi a proprio piacimento, ma è stata bensì programmata nei minimi dettagli. Questo produce inevitabili forzature: perché, ad esempio, scoppia l'amore proprio tra Meiko e Taneda, e non tra altri personaggi? Non si capisce come mai i due si siano trovati e abbiano deciso di fidanzarsi; anche la scelta della convivenza, poi, è appiattita fino a renderla priva di ogni elemento romantico (il lavoro di Taneda non lo faceva arrivare a fine del mese, così la coppia decide di vivere insieme). Ma soprattutto, questo modo di creare la storia, a tavolino, ammazza a mio parere quello che dovrebbe essere il piatto forte del manga: le emozioni.
È chiaro che Solanin non intende insegnare nulla; piuttosto, vorrebbe creare coinvolgimento nel lettore, cosicché parteggi per i personaggi, si identifichi in loro e non li dimentichi a lettura finita. Volere però non sempre è potere. Essendo la storia precostituita, di conseguenza anche i personaggi diventano precostituiti. Dando a Cesare quel che è di Cesare, a volte si intravede il desiderio sincero di fare buona introspezione psicologica – vedi i tanti monologhi, oppure con alcune scene ben riuscite (ad esempio la riunione tra i vari Taneda, o la storia di Billy e del vecchietto). Peccato solo che sembri finta anche quella. Forse è perché non ho l'età dei protagonisti, ma non sono riuscita a provare la minima empatia con un personaggio che sia uno. Addirittura, quando uno di questi muore, io non ho sentito nessuna emozione, e chi parla tutto è fuorché un cuore di ghiaccio. Ma come dicevo, è evidente che non sono il target di Asano. Il target di Asano ha la stessa età dei protagonisti e possibilmente è nella loro stessa situazione – così l'identificazione è d'obbligo. Io ho vista chiara l'intenzione di compiacere il target dicendogli esattamente quello che vuole sentirsi dire: il mondo fa schifo. Sia chiaro, non è colpa del giovane, anzi egli non ha responsabilità: le cose vanno male e basta. La vita in ufficio è monotona, e il capo ci proverà di sicuro con le dipendenti; l'industria musicale è interessata solo al guadagno, e non promuove i meritevoli. I lavori sono stressanti, gli “adulti” non ti aiutano; ma per fortuna, come dimostra il secondo volume, c'è sempre un po' di speranza. Potrebbe essere una mia impressione, lo ammetto, ma è un'impressione piuttosto forte, che neanche il secondo volume – molto più riuscito del primo – è riuscita a dissipare.
Anche l'impressione di trovarsi di fronte ad un manga sopravvalutato non sono riuscita a dissiparla. Concordo con gli ammiratori di Asano soltanto per un punto: il tratto. All'inizio è difficile farci l'abitudine, ma poi si rivelerà morbido, pulito, personale, cinematografico, per non parlare poi dell'uso sapiente dei retini e delle campiture nere. Tutto quello che cerco in un buono stile di disegno, non c'è che dire. Sarà un caso?
Adesso vorrete sapere il perché di questo parere così lontano da quello dell'opinione pubblica, suppongo. Bene, eccovi serviti.
Come tutti i slice of life, Solanin non ha una vera e propria trama. Badate bene, questo non è un difetto, è semplicemente una caratteristica del genere – la vita non ha trama. Proverò comunque a riassumerla. Asano segue la vita di una giovane coppia uscita da poco dall'università. Lui, Taneda, fa un lavoretto che gli dà solo spiccioli e, nel tempo perso, ha una band dove canta e suona la chitarra. Lei, Meiko, lavora in un ufficio: o meglio, lavorava. Il punto di svolta è infatti questo: la ragazza lascia il lavoro, oppressa dalla monotonia del suo incarico e dai colleghi falsi e disposti a tutto pur di avanzare di posizione. A questo scatto di ribellione, però, non si accompagna, come uno si aspetterebbe, la voglia di fare e di cercarsi un impiego migliore, e questo ha pesanti conseguenze. La più importante è senza dubbio il fatto che di lì a poco la coppia – convivente – avrà pochissimi soldi per vivere. Questo potrebbe mettere seriamente a rischio l'equilibrio della relazione, perché né Meiko né Taneda si sono mai posti domande su un futuro a lungo termine, che davano per scontato. E scontato, all'improvviso, non è. Quanto a Taneda, l'unica via d'uscita che trova alla pericolosa situazione è cercare di far diventare professionale la propria band, facendo concerti e producendo demo. Purtroppo l'operazione non dà i risultati sperati, e il nostro - sempre più confuso su cosa fare della sua vita - medita lo scioglimento, e medita anche di rompere la relazione con la sua convivente. Dopo averne discusso – e dopo, come sempre, averne ricavato nulla di concreto – Taneda esce di casa, non capendo che se non deciderà lui da solo potrebbe sempre essere qualcun altro, destino incluso, a farlo...
Mi viene in mente ciò che diceva J.R.R. Tolkien, uno dei padri della narrativa fantastica: secondo lui un libro del genere, per essere meritevole, doveva far credere al lettore che quello che stava leggendo era vero (ovviamente solo durante la lettura). Il lettore sa bene che i draghi - ad esempio - non esistono, ma il buon libro fantasy è in grado, senza l'uso di trucchi mentali, di far sì che per un po' egli trovi totalmente plausibile che da qualche parte ci sia un drago vivo e vegeto.
Vi chiederete che c'entra con Solanin, palesemente non fantasy. Beh, secondo me il ragionamento di Tolkien si può applicare a tutte le opere, di tutti i tipi e tutti i generi. Siamo consapevoli che i personaggi non sono (in genere) persone realmente esistenti, eppure quando leggiamo ce ne dimentichiamo. Quando non succede allora qualcosa non funziona, ed è esattamente quello che accade con Solanin. Si vede chiaramente che la storia non è stata scritta come veniva, lasciando liberi i protagonisti di svilupparsi a proprio piacimento, ma è stata bensì programmata nei minimi dettagli. Questo produce inevitabili forzature: perché, ad esempio, scoppia l'amore proprio tra Meiko e Taneda, e non tra altri personaggi? Non si capisce come mai i due si siano trovati e abbiano deciso di fidanzarsi; anche la scelta della convivenza, poi, è appiattita fino a renderla priva di ogni elemento romantico (il lavoro di Taneda non lo faceva arrivare a fine del mese, così la coppia decide di vivere insieme). Ma soprattutto, questo modo di creare la storia, a tavolino, ammazza a mio parere quello che dovrebbe essere il piatto forte del manga: le emozioni.
È chiaro che Solanin non intende insegnare nulla; piuttosto, vorrebbe creare coinvolgimento nel lettore, cosicché parteggi per i personaggi, si identifichi in loro e non li dimentichi a lettura finita. Volere però non sempre è potere. Essendo la storia precostituita, di conseguenza anche i personaggi diventano precostituiti. Dando a Cesare quel che è di Cesare, a volte si intravede il desiderio sincero di fare buona introspezione psicologica – vedi i tanti monologhi, oppure con alcune scene ben riuscite (ad esempio la riunione tra i vari Taneda, o la storia di Billy e del vecchietto). Peccato solo che sembri finta anche quella. Forse è perché non ho l'età dei protagonisti, ma non sono riuscita a provare la minima empatia con un personaggio che sia uno. Addirittura, quando uno di questi muore, io non ho sentito nessuna emozione, e chi parla tutto è fuorché un cuore di ghiaccio. Ma come dicevo, è evidente che non sono il target di Asano. Il target di Asano ha la stessa età dei protagonisti e possibilmente è nella loro stessa situazione – così l'identificazione è d'obbligo. Io ho vista chiara l'intenzione di compiacere il target dicendogli esattamente quello che vuole sentirsi dire: il mondo fa schifo. Sia chiaro, non è colpa del giovane, anzi egli non ha responsabilità: le cose vanno male e basta. La vita in ufficio è monotona, e il capo ci proverà di sicuro con le dipendenti; l'industria musicale è interessata solo al guadagno, e non promuove i meritevoli. I lavori sono stressanti, gli “adulti” non ti aiutano; ma per fortuna, come dimostra il secondo volume, c'è sempre un po' di speranza. Potrebbe essere una mia impressione, lo ammetto, ma è un'impressione piuttosto forte, che neanche il secondo volume – molto più riuscito del primo – è riuscita a dissipare.
Anche l'impressione di trovarsi di fronte ad un manga sopravvalutato non sono riuscita a dissiparla. Concordo con gli ammiratori di Asano soltanto per un punto: il tratto. All'inizio è difficile farci l'abitudine, ma poi si rivelerà morbido, pulito, personale, cinematografico, per non parlare poi dell'uso sapiente dei retini e delle campiture nere. Tutto quello che cerco in un buono stile di disegno, non c'è che dire. Sarà un caso?