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«Suzu, ti manca Hiroshima? Vuoi tornarci?»
Hiroshima è il luogo che manca a ciascuno di noi. Quello che, tuttavia, la violenza inaudita e inappellabile del mostro atomico non è riuscita a portarci via.
«Se pensano che ci piegheremo di fronte a tanta violenza», non ci conoscono. Non hanno compreso nulla del cuore dell'uomo, i seminatori di morte. Perché la vita è forte e gentile, è nell'amore messo nel più umile gesto, è la difesa testarda del diritto all'esistenza.
Suzu e la sua storia sono un ritratto del Giappone, anzi dell'umanità, che resiste alla catastrofe opponendo al rombo della tragedia una dignità sommessa, alla minaccia incombente e insopportabile un conforto intimo e semplice.
Bambina, cresce dalle parti di Kusatsu, di Eba, sobborghi di Hiroshima. Poi, un matrimonio combinato, con il giovane Hōjō Shuusaku, che, pure da piccolo, di lei, piccolina che consegnava le alghe nori, si era innamorato. Così, poco più che ragazza e poco meno che donna, Urano Suzu si trasferisce a Kure, sulle colline che sovrastano il porto militare, approdo dal prolifico arsenale, fucina di nere navi per la marina imperiale.
Sì, proprio lì, a Kure, città nata ai primi del secolo, tra la guerra sino-giapponese e il conflitto per la Manciuria, gli operai navali impostano la Nagato, la Yamato, le più grandi navi da battaglia che abbiano mai solcato gli oceani. E a Hiro, poco lontano, gli aeromobili dell'Impero si alzano in volo. Alle spalle spira il vento di Ise, il soffio divino che "fa capitolare i nemici".
Inevitabile che alla fine della guerra, su quella baia, tra le insenature dove le corazzate, un tempo fiere, giacevano alla fonda per mancanza di carburante, si abbattesse la furia dell'aviazione alleata.
Ma intanto, schivando la tempesta dei B-29, Suzu prova a ritagliarsi un amore, uno scompigliato ménage familiare. I due sposini provano a rubarsi baci, a darseli di nascosto dal mondo, che in quel 1944 obbliga tutti a un'allerta senza sogno.
Eppure, quello che ha davanti è un sogno, o così le sembra proprio: lei, che si è sempre sentita priva di attrattive, ingenua e impacciata, catapultata in un ruolo del quale non si considera all'altezza, ne assapora tutta l'ebbrezza. Vuole sentirsi desiderata, scelta. Conosce la gelosia, dopo l'incontro con Rin, una donna dei quartieri di piacere, per giunta divenuta sua amica: intuita per caso la tresca di quest'ultima col marito, più di tutto la ferisce il pensiero di non attrarlo davvero.
E spunta la rabbia... in quel tempo impietoso di dolore diffuso, si insinua in lei un dolore privato, che si fa più acuto, quando Hōjō non si mostra geloso neppure di Tetsu, ex compagno di scuola arruolatosi in marina, e ancora innamorato di Suzu.
Quando la Aoba attracca a Kure e il giovane marinaio la viene a trovare, Suzu è troppo ferita per riuscire a rendere l'offesa a Shuusaku, così rinuncia alle lusinghe di una notte di effusioni col suo primo amore.
Allora, dove trovare consolazione? Tra le stesse parole di Rin, ascoltate a labbra socchiuse, mentre il rossetto le tinge di vita.
«Dopo che tutto si sarà dissolto, anche i ricordi, non ci saranno più segreti». Forse, allora, l'amore ci farà una cosa sola. Di due che siamo ora, in questa impermanenza d'aprile, a osservare i fiori di ciliegio cadere, anche adesso che dal cielo precipita la morte, anche adesso che precipitano vite.
Fumiyo Kouno ci fa notare qualcosa di paradossale: in tempo di guerra la cosa più assurda è pensare di poter morire. L'impensabile è immaginare di potersi arrendere alla fine.
Piuttosto, ci si affida al sillabario dell'amor patrio, a un abbecedario, prezioso e raro in quel momento ingrato in cui, tuttavia, qualcuno a scuola ci è andato. E se manca chi può prestarlo, ci si arrabatta a ricopiarlo. E guai a fare uno scarabocchio, perché sennò chi lo sente il maestro! Una tale paura, così quotidiana, fa commuovere e quasi la si può rimpiangere, quando fuori piove la morte, e dalla classe, dalla via, dal mercato, si accorre a un claustrofobico rifugio. Lì la paura non ti sgrida, ma, assieme a te, trattiene il fiato. Perché anche una volta che tutto è passato, e Suzu esce all'aperto con la nipotina Harumi, il terrore può braccarti a scoppio ritardato, e portarti via una bambina, e una mano. Quella mano che non smetterà mai di tenere stretta.
Perché ci sono perdite impossibili, presenze ostinate come un arto fantasma. Harumi non può essere morta.

"Kono Sekai no Katasumini" mostra come la routine e le abitudini siano il sottofondo umano troppo umano di ogni temperie disumanamente bellica. Approntare ricette più nutrienti, cuocere il riso in modo da farlo aumentare di volume, estrarre il sale dall'acqua di mare. Cose piccole, modeste, oggetto di una cura giudiziosa, antica.
Perché «eravamo», anzi siamo «così piccoli». E Suzu se ne accorge, che «la vita è ancorata all'angolo di un tuo sorriso». All'angolo dei tuoi occhi sorridenti, sul ciglio della speranza.
Speranza sull'orlo della devastazione, e amore, anche amor patrio, benché tradito e vilipeso da una gerarchia militare ubriaca di ideologia, paranoica al punto che la polizia arriva a redarguire Suzu per aver disegnato uno schizzo delle navi da guerra avvistate sotto costa. «E pensare che Hōjō, suo marito, lavora per la corte marziale...»
Ma la guerra l'hanno patita i soldati, i marinai. E le persone. Le persone che, nonostante tutto, resistono. E vorrebbero continuare a farlo, nonostante il discorso del Tennou di quel 15 agosto, quando una voce, fino ad allora remota e divina, si è fatta fin troppo terrena, annunciando un'imponderabile sconfitta. Ma come? Suzu non ci vuole stare. A cosa è valso lottare? Per cosa sarebbero morti i morti, e perché qualcuno è ancora vivo? Come si può continuare a esistere, se non si può più combattere, onorando il ricordo di chi se n'è andato per sempre? Fino all'ultimo uomo. «Non ho più la mano destra, ma ho due gambe e l'altra mano». Ho la mia dignità, e un pianto che non si arresta. E un canto strozzato in gola: Kimi ga yo... "Che il vostro regno possa durare mille, ottomila generazioni, finché i ciottoli divengano rocce coperte di muschio".

E la tempesta sembra non volersi placare. Dopo la fine della guerra e l'ignominia dell'occupazione, arrivano la carestia, la fame, e il Makurazaki, violento tifone. Il cielo sembra piangere il perduto Giappone. Ma i giapponesi non si sono persi. Suzu non si è smarrita, perché è stata trovata una volta per tutte. Può dire grazie.
Grazie per avermi trovata, in un angolo di questo mondo.

"Kono Sekai no Katasumini", in linea con e più ancora delle altre storie del 'ciclo dei vinti' della Kouno, è un'opera densissima di notazioni storiche e minuzie geografiche, ma anche e soprattutto un racconto dalla gamma emozionale estesa dal pianto più accorato al più sincero sorriso.
La varietà grafica è impressionante: si passa dallo scarabocchio allo schizzo alla rappresentazione caricaturale, quasi da striscia satirica d'antan, all'uso emozionale degli elementi grafici 'addizionali' della tavola, che siano linee cinetiche o onomatopee, alla continua reinvenzione dello spazio visivo, che oscilla tra funzionalità didascalica con incursioni cartografiche, intenzione narrativa, quadretto d'ambiente e dinamicità 'cinematografica'.

"Kono Sekai no Katasumini" racconta la storia grande attraverso la storia dei più piccoli, arrivando, quasi senza sforzo, a farci intendere quale delle due meriti l'eternità.